• Non ci sono risultati.

386/2020 Hannah Arendt e la questione sociale

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "386/2020 Hannah Arendt e la questione sociale"

Copied!
31
0
0

Testo completo

(1)

386

giugno 2020

Hannah Arendt e la questione sociale a cura di Ilaria Possenti

Premessa [I.P.] 3

MATERIALI

Hannah Arendt La libertà di essere liberi. Condizioni

e significato della rivoluzione (1966-67) 9 Richard Bernstein Ripensare il sociale

e il politico (1986) 33

Étienne Balibar Arendt, il diritto ai diritti

e la disobbedienza civica (2010) 60

Ilaria Possenti Dal sociale al comune?

Per una traduzione della libertà arendtiana 93 Olivia Guaraldo Arendt, i bisogni, la felicità 111 Edoardo Greblo Libertà politica e liberazione sociale

in Hannah Arendt 134

Luca Baccelli Un curioso equivoco?

Arendt, Marx e il lavoro 153

IL SENSO DELLE PAROLE

Alessandro Dal Lago Potere al popolo? Una nota su

Arendt e il populismo teorico contemporaneo 169

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951

direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Nicola Gaiarin, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

ISSN

: 0005-0601

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l.

via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com

ufficio stampa: stampa@ilsaggiatore.com

abbonamento 2020: Italia € 64,00, estero € 80,00 servizio abbonamenti e fascicoli arretrati:

Il Saggiatore S.r.l., via Melzo 9, 20129 Milano Telefono: 02 20230213

e-mail: abbonamentiautaut@ilsaggiatore.com

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Galli Thierry, Milano

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel maggio 2020

(3)

Premessa

N el 1990, con il numero monografico Il pensiero plurale di Hannah Arendt cu- rato da Alessandro Dal Lago, “aut aut”

proponeva una serie di testi e contributi che illuminavano sentieri ancora poco esplorati dell’opera di questa pensatrice della liber- tà politica.

Negli anni cinquanta e sessanta, Le origini del totalitarismo (1951, 1958) e Sulla rivoluzione (1963) erano state ampiamente cri- ticate in ambito marxista. Nel primo caso, veniva soprattutto re- spinto l’uso estensivo della categoria di “totalitarismo”, formulata in riferimento alla Germania nazista e impiegata anche per lo sta- linismo. Nel secondo, che qui più interessa, il problema riguarda- va il giudizio sulla Rivoluzione francese, che avrebbe abbandona- to la causa della libertà in seguito all’ingresso dei “poveri” e della questione sociale sulla scena politica. La stessa Vita activa (1958), del resto, aveva legittimato sul piano teorico la contrapposizione tra una sfera della vita legata al corpo, al lavoro, ai bisogni e una sfera politica che si apriva, invece, all’esperienza del logos, dell’a- zione e della libertà.

Il rinnovato interesse per l’opera di Hannah Arendt, a partire

dagli anni ottanta, non ha enfatizzato questo schema oppositivo,

mentre ha guardato con particolare favore al tentativo di situare

la libertà politica nel “mondo comune” (tale non in virtù di identi-

tà o appartenenze condivise, ma sulla base di interazioni attorno a

questioni di pubblico interesse). “Diritto ad avere diritti”, “plura-

(4)

4

lità”, “felicità pubblica” sono solo alcuni dei concetti che Arendt elabora per provare a nominare questa esperienza di libertà, lega- ta a pratiche civiche di autogoverno o di resistenza e tesa a evita- re che il rapporto politico si riduca a una relazione tra governan- ti e governati, signori e sudditi, soggetti in grado di agire e sogget- ti assoggettati.

Mentre la riflessione sulla politeia cominciava a riscuotere at- tenzione, la trattazione del “sociale” e della “questione sociale” re- stava tuttavia un tema minore, considerato come un aspetto poco rilevante o un limite trascurabile di una ben più ampia riflessio- ne filosofica. Arendt si avviava così a diventare la pensatrice del- la “tradizione sommersa” della politica occidentale, la teorica di brevi esperienze partecipative e repubblicane che avrebbero pe- riodicamente riportato in vita, passando attraverso la mediazione romana e comunale, la libertà dell’antica polis. Questa libertà sa- rebbe infine riaffiorata nelle esperienze consiliari delle rivoluzio- ni settecentesche e novecentesche, ma non sarebbe mai divenuta il cardine – e neanche la tacita fonte di ispirazione – delle costituzio- ni democratiche moderne. Perfino la Rivoluzione americana, agli occhi di Arendt, fallisce, perché “dimentica” di incorporare nella Costituzione l’esperienza municipale delle townships.

Nei decenni fin qui trascorsi, molte riprese, rivisitazioni o re-

pliche hanno scavato tra le pieghe del discorso arendtiano sulla li-

bertà, e alcune hanno offerto spunti di rilievo per la riflessione fi-

losofica e politica sulla “crisi della democrazia”. Coloro che hanno

più o meno esplicitamente dialogato con Arendt, anche critican-

dola, hanno fatto ampio riferimento alla sua teoria politica, rifor-

mulandola ora nella direzione di una teoria dell’agire comunica-

tivo (Habermas), libertario (Dal Lago) o radicato nel “potere-in-

comune” (Ricœur), ora in quella di una teoria femminista e per-

formativa della soggettività politica (Butler, Honig), di una nuova

visione della democrazia (Rancière, Lefort, Abensour, Cavarero)

o di una reinvenzione del vocabolario politico (Balibar). Eppure,

le pagine arendtiane sulla “questione sociale”, o sul carattere an-

ti-politico della vita (zoè), non hanno mai smesso di suscitare im-

barazzo. Non di rado studiosi e studiose hanno segnalato a margi-

(5)

ne, o in separata sede, i limiti di una riflessione che sottrae alla di- mensione politica temi sociali come il lavoro, i bisogni, la povertà, l’istruzione. Analoghe perplessità sono emerse, negli studi femmi- nisti, rispetto alla varie dicotomie (politico-sociale, libertà-necessi- tà, pubblico-privato, solo parzialmente sovrapponibili) che sosten- gono la “paura” arendtiana di una politica contaminata dai corpi.

Finché si guarda alla sola Vita activa, non è difficile ridimen- sionare il problema di una teoria della polis che guarda al “socia- le” come a una sfera meno che umana. Poiché la radicale svalu- tazione di questo ambito si basa sull’antica distinzione tra sfera domestica (oikos) e sfera politica (polis), e in particolare sull’idea che la “società” moderna rappresenti un mostruoso ibrido tra le due, il problema può essere ricondotto alla prospettiva “aristoteli- ca” dell’autrice; può essere derubricato a espediente critico-erme- neutico che punta semplicemente a mettere in risalto la “tradizio- ne nascosta” dell’agorà; o ancora, facendo leva sull’ultimo capito- lo dell’opera, può essere storicizzato e impiegato come grimaldello teorico per criticare una “modernità” in cui la politica arretra di fronte all’invasione del mercato e alla proliferazione di una massa di lavoratori- consumatori. Nel complesso, però, Vita activa e Sulla rivoluzione non rendono agevoli operazioni di questo tipo. Quan- do la griglia teorica formulata nell’opera del 1958 diventa la ba- se di un racconto sulle rivoluzioni, prende corpo la tesi della que- stione sociale come questione pericolosa, e a ben vedere letale, per la libertà politica: se la Rivoluzione francese si avvia verso il Ter- rore è perché a scendere in campo sono uomini e donne incatena- ti alla “vita”, bisognosi di “pane”, e per questa precisa ragione in- capaci di articolare un discorso politico. Per Arendt, in altre pa- role, i portatori di bisogni sono loro malgrado, ma inevitabilmente, portatori di violenza e tirannia. Per questo, ai suoi occhi, la poli- tica non può e non deve occuparsi della questione sociale: per ga- rantire il diritto di tutti a essere cittadini, occorre confidare in so- luzioni “politicamente neutrali”, legate ai progressi dell’industria e dell’amministrazione.

Non so che cosa Arendt avrebbe pensato delle “soluzioni tec-

niche” emerse nei decenni della globalizzazione neoliberale, ma

(6)

6

non credo che avrebbe apprezzato le “magnifiche sorti e progres- sive” di uno sviluppo capitalistico – produttivo e finanziario – che ha avuto un ruolo decisivo nella crescita degli squilibri politici, so- ciali, economici ed ecologici oggi esistenti su scala planetaria, con il loro vasto corollario di diseguaglianze e precarietà, di guerre e di migrazioni combattute come invasioni nemiche. Comunque sia, in questo ampio quadro, la dicotomia arendtiana tra “il politico” e

“il sociale” presta più che mai il fianco a due rischi. In primo luo- go, una teoria della polis depurata da ogni riferimento al corpo, al lavoro e ai bisogni può offrire legittimazione teorica alla spoli- ticizzazione neoliberale della questione sociale e alla naturalizza- zione di temi come lo sfruttamento, la povertà, le nuove “espul- sioni” (Sassen), la privatizzazione di beni comuni e servizi pub- blici. In secondo luogo, questa prospettiva può occultare non so- lo le condizioni storico-sociali dell’esclusione dalla cittadinanza, ma anche la possibile (benché non necessaria) politicità dell’agire degli esclusi. Verosimilmente, infatti, la libertà politica può essere aggredita o promossa nelle attività e condizioni sociali che Arendt lascia aprioristicamente fuori dalla polis – come se il corpo, il lavo- ro e i bisogni umani fossero privi di logos “per natura”.

Le tre sezioni di questo numero monografico offrono alcuni spunti per tornare a indagare, anche alla luce di simili preoccupa- zioni, il laboratorio filosofico e politico arendtiano.

I materiali della prima sezione comprendono un testo di Han-

nah Arendt risalente al 1966-67, rimasto inedito fino al 2018. Si

tratta di uno dei saggi che, prima e dopo Sulla rivoluzione, ripren-

dono lo schema teorico dell’opera maggiore pensando anche a te-

mi ulteriori – come la rivoluzione cubana, la decolonizzazione, il

Vietnam. Al testo di Arendt segue quello di Richard Bernstein,

del 1986, che formula alcune obiezioni ormai “classiche” alla di-

stinzione arendtiana tra il politico e il sociale, riportando anche

i passaggi più interessanti della discussione tra la filosofa, Mary

McCarthy e Albrecht Wellmer al convegno di Toronto del 1972. Il

più recente testo di Étienne Balibar, incluso nel volume La propo-

sition de l’égaliberté, mostra invece i tratti di una riflessione filoso-

fica che si lascia attraversare da temi arendtiani poco compromes-

(7)

si con la “vita” e il “sociale” – dalla questione del diritto ad avere diritti a quella di una disobbedienza “civica” e non semplicemente

“civile”, che non risponde soltanto alla coscienza.

Nella seconda sezione, il mio intervento e quello di Edoardo Greblo si soffermano sulle cornici teoriche delle opere maggio- ri di Arendt, indagando rispettivamente la possibilità di liberare la libertà arendtiana dal fardello del “sociale” e i limiti e le risor- se di un repubblicanesimo al quale non mancano tratti elitari. Oli- via Guaraldo, confrontandosi con Judith Butler e Adriana Cava- rero, affronta il tema dei bisogni, della felicità pubblica e della re- lazionalità dell’umano, mentre Luca Baccelli torna sulle pagine di Marx per discutere il fraintendimento arendtiano del concetto di

“lavoro” come “metabolismo dell’uomo con la natura”.

Nell’ultima sezione, infine, Alessandro Dal Lago si interroga sul senso odierno di parole come “cittadinanza”, “popolo”, “de- mocrazia rappresentativa”, sostenendo il carattere “anti-populista”

(ma non solo) del pensiero politico arendtiano.

Lungo questi percorsi vengono sollevate molte questioni e la ri- flessione che emerge non è affatto univoca. L’obiettivo di questo numero non era d’altronde quello di semplificare la complessità dell’oggetto, ma di contribuire semmai ad alimentarla. Il tentativo, verrebbe oggi da dire, è quello di “mettere in comune” un proble- ma con cui anche l’attualità più stringente, in questa crisi pande- mica, ci costringerà a fare i conti: quello del rapporto tra il futu- ro della democrazia e il futuro della questione sociale, a partire da un ripensamento e da nuove esperienze dell’una e dell’altra. [I.P.]

La traduzione dei “Materiali” contenuti in questo volume è stata possibile grazie alla col-

laborazione del Centro di studi politici Hannah Arendt del Dipartimento di scienze uma-

ne dell’Università di Verona, e in particolare grazie ai Progetti

PRIN

2015 “Soggetto di dirit-

to e vulnerabilità” e

RDB

2015 “Felicità pubblica. Hannah Arendt e l’invenzione di un con-

cetto” diretti a Verona da Olivia Guaraldo, che ringrazio per il sostegno a questo progetto di

pubblicazione.

(8)

9

aut aut, 386, 2020, 9-32

La libertà di essere liberi.

Condizioni e significato della rivoluzione (1966-67)

HANNAH ARENDT

L’ argomento di oggi, temo, è di un’attuali- tà quasi imbarazzante. Da quando infat- ti, con la fine dell’imperialismo, così tan- ti popoli si sono sollevati per “assumere tra le altre potenze del- la terra quel posto distinto ed eguale cui hanno diritto per Leg- ge naturale e divina”,

1

le rivoluzioni sono diventate eventi all’or- dine del giorno. Così come una delle conseguenze più durature dell’espansione imperialistica è stata l’esportazione dell’idea di Stato-nazione ai quattro angoli della terra, allo stesso modo la fi- ne dell’imperialismo, dovuta alla pressione esercitata dal nazio- nalismo, ha portato alla diffusione dell’idea di rivoluzione su tut- ta la superficie terrestre.

Tutte queste rivoluzioni – non importa quanto violenta pos- sa essere la loro retorica anti-occidentale – si collocano sotto il se- gno delle tradizionali rivoluzioni occidentali. La situazione attua- le è stata preceduta dalla serie di rivoluzioni susseguitesi in Eu- ropa dopo la Prima guerra mondiale. Da allora, e ancor più spic- catamente dopo la Seconda guerra mondiale, niente appare più certo del fatto che, in caso di guerra fra le potenze rimaste, un mutamento rivoluzionario della forma di governo, cosa ben di-

Versione originale: H. Arendt, “The freedom to be free. Conditions and meaning of rev- olution”, in Thinking without a Banister. Essays in Understanding 1953-1975, a cura di J.

Kohn, Schocken Books, New York 2018. Tutte le note sono della traduttrice.

1. La citazione è tratta dalla frase introduttiva della Dichiarazione d’indipendenza de-

gli Stati Uniti d’America.

(9)

versa da un cambio di governo, farà seguito alla sconfitta – sem- pre che non si tratti di un totale annientamento. In ogni modo è importante notare che, anche prima che lo sviluppo tecnologi- co facesse diventare le guerre tra le grandi potenze letteralmen- te una lotta per la vita e la morte, dunque di autoannientamen- to, le guerre erano già diventate una questione di vita o di morte dal punto di vista politico. Ciò non era affatto scontato; significa, anzi, che i protagonisti delle guerre tra le nazioni avevano inizia- to ad agire come se fossero impegnati in guerre civili. E infat- ti le piccole guerre degli ultimi vent’anni – Corea, Algeria, Viet- nam – sono state chiaramente guerre civili che hanno interessato le grandi potenze, o perché la rivoluzione minacciava il loro ruo- lo, o perché creava un pericoloso vuoto di potere. In questi casi non si trattava più di una guerra che sfociava in una rivoluzione:

l’iniziativa passava dalla guerra alla rivoluzione, alla quale, in al- cuni casi ma non in tutti, ha fatto seguito un intervento armato.

È come se improvvisamente fossimo tornati indietro nel XVIII se- colo, quando alla Rivoluzione americana fece seguito una guerra contro l’Inghilterra e alla Rivoluzione francese una guerra contro i poteri monarchici europei alleati tra loro.

Di nuovo, nonostante l’enorme diversità delle condizioni – tec- nologiche e di altro tipo –, gli interventi militari sembrano relati- vamente incapaci di far fronte ai fenomeni rivoluzionari. Durante gli ultimi duecento anni un ampio numero di rivoluzioni ha avu- to un esito tragico, ma relativamente poche sono state sbaragliate dalla superiorità nell’applicazione dei mezzi di violenza. Di con- verso, gli interventi militari, anche laddove hanno avuto succes- so, si sono dimostrati decisamente incapaci di riportare la stabili- tà e riempire i vuoti di potere. Persino la vittoria sembra incapa- ce di rimpiazzare il caos con la stabilità, la corruzione con l’one- stà, la decadenza e la disintegrazione con l’autorità e la fiducia nel governo.

La restaurazione che segue a una rivoluzione interrotta non

fornisce, di solito, molto più che una sottile copertura, quasi cer-

tamente provvisoria, sotto la quale i processi di disintegrazione

continuano inosservati. Una grande, potenziale stabilità futura è

(10)

11

invece propria dei nuovi corpi politici che si formano intenzional- mente, e la Rivoluzione americana ne è la migliore dimostrazio- ne. Ovviamente il principale problema sta nella rarità del succes- so delle rivoluzioni. Eppure nella situazione attuale, in un mondo in cui le rivoluzioni, nel bene e nel male, sono diventate gli even- ti più frequenti e significativi – e così sarà, molto probabilmen- te, anche per i prossimi decenni –, sarebbe non solo più saggio ma anche più pertinente se, invece di vantarci di essere il paese più potente della terra, dicessimo che dalla fondazione della no- stra repubblica in poi noi godiamo di una stabilità straordinaria, e che questa stabilità è stata conseguenza diretta della rivoluzio- ne. Forse la competizione tra le grandi potenze, che non può più essere decisa dalla guerra, nel lungo termine potrebbe essere de- cisa dalla parte che meglio comprende cosa siano le rivoluzioni e che cosa in esse sia veramente in gioco.

Credo non sia più un segreto per nessuno, o almeno non lo sia dall’invasione della Baia dei porci, che la politica estera di questo paese si è mostrata inesperta o addirittura incompetente nel valu- tare le situazioni rivoluzionarie, nel cogliere la dinamica dei mo- vimenti rivoluzionari. Anche se l’episodio della Baia dei porci è stato spesso attribuito alla cattiva informazione e al malfunziona- mento dei servizi segreti, il fallimento ha radici molto più profon- de. L’errore fu non aver compreso cosa significa quando un po- polo stremato dalla povertà in un paese arretrato, in cui la cor- ruzione ha raggiunto la dimensione della depravazione, improv- visamente si affranca, non dalla povertà ma dall’oscurità, e quin- di dal fatto che la sua sofferenza non è intelligibile; cosa significa quando per la prima volta le persone sentono discutere pubblica- mente della loro condizione e vengono invitate a prendere parte a questa discussione; e che cosa significa quando vengono porta- te nella loro capitale, che non hanno mai visto prima, e viene lo- ro detto: “Queste strade, queste case e queste piazze, tutte que- ste cose sono vostre, di vostra proprietà, sono il vostro orgoglio”.

Questo – o almeno qualcosa di simile – è successo per la pri-

ma volta durante la Rivoluzione francese. Curiosamente, chi lo

comprese all’istante fu Immanuel Kant, un uomo anziano del-

(11)

Ripensare il sociale e il politico (1986)

RICHARD BERNSTEIN

1. “Sociale” e “politico” sono due concetti che occupano una posizione fondamen- tale nel pensiero di Hannah Arendt. Il modo in cui li sviluppa e li intreccia nella sua analisi dell’“età moderna” è decisamente provocatorio e disturbante. Ciò che vo- glio dimostrare è come la sua analisi sia straordinariamente illu- minante e, allo stesso tempo, sistematicamente fuorviante. Anzi, più la approfondiamo, più scopriamo come la sua distinzione ca- tegorica tra il sociale e il politico sia instabile e riveli una tensio- ne profonda. Il mio intento non è semplicemente di spiegare quel che Arendt intende dire (anche se è da qui che comincio), ma è piuttosto quello di usare le sue intuizioni e i suoi punti ciechi per ripensare a ciò che è in gioco in questa distinzione. E la ragione principale per impegnarmi in tale analisi è che credo che ripensa- re al rapporto tra politico e sociale abbia conseguenze teoriche e pratiche significative per affrontare la situazione sociale e politi- ca contemporanea.

Sebbene Arendt abbia impiegato questa distinzione in tut- ti i suoi scritti, è in The Human Condition e in On Revolution

Versione originale: R. Bernstein, “Rethinking the Social and the Political”, in Philosophical Profiles. Essays in a Pragmatic Mode, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1986, cap.

9, pp. 238-259. Il testo è stato scritto in occasione del Hannah Arendt Memorial Symposium in

Political Philosophy, dedicato al tema “Lavoro, opera, azione” e tenutosi nel maggio del 1984

alla New School for Social Research di New York. Le note che seguono, se non diversamente

indicato, sono dell’autore. I riferimenti bibliografici originali sono stati spostati dal corpo del

testo a piè di pagina e, dove possibile, sono stati aggiunti i riferimenti alle traduzioni italiane.

(12)

34

che troviamo la più dettagliata discussione dei due concetti. Per quanto il testo sulla condizione umana possa essere letto da una varietà di prospettive, il punto principale, come annunciato nel- le frasi iniziali del primo capitolo, è l’esame della vita activa. “Con il termine vita activa propongo di designare tre fondamentali atti- vità umane: l’attività lavorativa, l’operare e l’agire; esse sono fon- damentali perché ognuna corrisponde a una delle condizioni di base in cui la vita sulla terra è stata data all’uomo.”

1

I tre capito- li centrali sono intitolati “Lavoro”, “Opera” e “Azione”. Ma que- sto approccio strutturale a The Human Condition (“strutturale”

nel senso che lavoro, opera e azione sono tre strutture o forme primarie di attività umana) non mette in evidenza la storia che Arendt sta raccontando nel suo libro – una storia che cerca di rendere conto dell’ascesa, delle caratteristiche e delle aporie di ciò che lei chiama “l’età moderna”. È nel contesto di questo raccon- to che i concetti di sociale e politico giocano un ruolo così fonda- mentale.

Nelle sue linee essenziali la narrazione arendtiana racconta di una serie di capovolgimenti o inversioni. La nozione latina e me- dievale di vita activa fu introdotta in contrasto con quella di vi- ta contemplativa – una distinzione che ha una storia lunga e intri- cata, risalente all’età greca classica.

2

Il primo capovolgimento eb- be inizio quando si cominciò ad assumere il primato della vita ac- tiva sulla contemplazione della vita (con un crescente scetticismo sul carattere e sulle pretese della vita contemplativa). Ma la preoc- cupazione principale di Arendt è il capovolgimento che si è veri- ficato all’interno della vita activa. La gerarchia classica dell’azio- ne, dell’opera e del lavoro – dove l’azione è la più alta forma di at- tività umana che si basa sulla condizione della pluralità ed è ca-

1. H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958, p.

7; trad. di S. Finzi, Vita activa, Bompiani, Milano 2008, p. 7. Per ragioni stilistiche seguo la pratica arendtiana di usare la forma maschile dei nomi e dei pronomi quando mi riferi- sco agli esseri umani. Ma questa pratica linguistica tende a oscurare il fatto che tradizional- mente lavoro e opera sono attività proprie di uomini e donne, mentre l’azione è stata pre- rogativa dell’uomo; parlare di “una delle condizioni di base in cui la vita sulla terra è stata data all’uomo”, elude questa cruciale differenza.

2. Ivi, pp. 12-17; trad. pp. 10-14.

(13)

ratterizzata dal linguaggio e dalle gesta con cui gli uomini rivela- no chi sono e si mostrano l’un l’altro nello spazio pubblico della polis – è stata sopraffatta e distorta da una mentalità orientata al- la fabbricazione (opera), e infine da una mentalità lavorativa. Non solo c’è stata una vittoria dell’homo faber sulla vita orientata al- la prassi politica, ma anche l’homo faber ha infine ceduto al trion- fo dell’animal laborans. Quella che i greci consideravano la forma più bassa di attività umana, che è radicata nella necessità biologi- ca e che non deve mostrarsi alla luce della sfera pubblica, è diven- tata per noi un’attività pervasiva e orientata al consumo. Viviamo in un’epoca – l’era moderna – in cui l’animal laborans è risultato vincitore. E questo stesso epilogo può essere definito anche come il trionfo e il dominio della società sulla politica.

Ci sono molte affinità (e anche differenze) con il modo in cui Arendt descrive la vittoria dell’homo faber e l’analisi della cre- scita e diffusione della Zweckrationalität che è così prominente nelle analisi della modernità di Weber, Lukács e della scuola di Francoforte; e affinità sotterranee ancora più profonde con quel- lo che Heidegger “chiama” Gestell (Enframing) – “l’essenza del- la tecnologia”.

3

Consideriamo la seguente descrizione di Arendt:

Fra le caratteristiche salienti dell’età moderna, dai suoi inizi ai nostri giorni, troviamo gli atteggiamenti tipici dell’homo faber.

La sua strumentalizzazione del mondo, la sua fiducia negli strumenti e nella produttività del costruttore di oggetti arti- ficiali, nella portata onnicomprensiva della categoria mezzi- fine, la sua convinzione che ogni problema può essere risolto e ogni motivazione umana ridotta al principio dell’utilità; la sua sovranità, che considera tutto ciò che le è dato come materia prima e vede la natura come “un immenso tessuto da cui pos- siamo ritagliare ciò che vogliamo e ricucirlo come ci piace”;

la sua equiparazione di intelligenza e ingegnosità, e cioè il suo disprezzo per ogni pensiero che non possa essere considerato

3. M. Heidegger, “Die Frage nach der Technik” (1953), in Gesamtausgabe, vol.

VII

:

Vorträge und Aufsätze, Klostermann, Frankfurt a.M. 2000.

(14)

60

aut aut, 386, 2020, 60-92

Arendt, il diritto ai diritti

e la disobbedienza civica (2010)

ÉTIENNE BALIBAR

O gni grande opera ha la sua storia, inter- na ed esterna:

1

riflette uno sviluppo in- tellettuale che talvolta comporta delle rotture, e risponde a dei cambiamenti storici che la costringono a orientarsi diversamente. Possiamo pensare che ciò valga parti- colarmente nel caso di una filosofa come Arendt che, nel cercare di render(si) intelligibile ciò che nell’azione politica vi è di impre- vedibile, di nuovo, conferisce una funzione centrale alla catego- ria di evento.

2

Più di qualunque altro fra i pensatori contempora- nei, siamo tentati di dire che Arendt non ha mai scritto due volte lo stesso libro, o due libri dallo stesso punto di vista. Ma questo non vuol dire che non si abbia qui a che fare con delle forti conti- nuità, con la ricorrenza di interrogativi ossessivi, da cui dipendo- no precisamente l’allargamento dell’orizzonte filosofico e gli slit- tamenti dell’analisi. È su questa convinzione che mi baserò per prendere in prestito alcuni elementi da momenti della sua ope-

Edizione originale: É. Balibar, “Arendt, le droit aux droits et la désobéissance civique”, in La proposition de l’égaliberté,

PUF

, Paris 2010. Ringraziamo l’Autore e le edizioni

PUF

per aver concesso l’autorizzazione a tradurre il testo.

1. La versione originale di questa relazione – “(De)constructing the human as hu- man institution: A reflection on the coherence of Hannah Arendt’s practical philosophy”

– è stata presentata al convegno organizzato per il 100° anniversario della nascita di Han- nah Arendt dalla Heinrich Böll Stiftung di Berlino il 5-6 ottobre 2006 (pubblicata in “So- cial Research”, 3, 2007). Versione francese ampliata: Impolitique des droits de l’homme:

Arendt, le droit aux droits et la désobéissance civique, “Erytheis”, 2, 2007.

2. Si veda il piccolo libro per nulla superato di Anne Amiel: Hannah Arendt. Politique

et événement,

PUF

, Paris 1996.

(15)

ra molto distanti fra loro, inscritti in contesti differenti e con stili eterogenei – la storia, la riflessione speculativa, il saggio impegna- to, il giornalismo –, in modo da ricostruire quel che mi sembra costituire per lei un problema centrale (forse, il problema cen- trale): quello della politica dei diritti dell’uomo e del suo “fonda- mento”, o piuttosto della sua assenza di fondamento, del suo ca- rattere “in-fondato”.

Una “critica dei diritti dell’uomo” molto paradossale Da che cosa deriva la persistente difficoltà che presenta il discor- so arendtiano sui diritti, perlomeno dal punto di vista filosofico?

Mi pare, anzitutto, dalla combinazione che Arendt opera tra una delle più radicali critiche dell’antropologia speculativa, e quindi della teoria classica dei “diritti dell’uomo” in quanto fondamen- to dell’edificio giuridico e della pratica politica corrispondente, e una difesa intransigente del loro carattere imprescrittibile (per alcuni di questi, a ogni modo), che identifica praticamente il loro disprezzo nella distruzione dell’umano. Com’è possibile al tempo stesso rifiutare, in linea teorica, l’idea che esistano dei “diritti umani fondamentali” (come dichiarano la maggior parte delle nostre Costituzioni democratiche e le Dichiarazioni

“universali” di cui esse affermano l’anteriorità e il primato sul piano normativo), e situare al cuore stesso della costruzione de- mocratica una politica dei diritti dell’uomo intransigente? Come negare da una parte quel che si vuole mettere in pratica dall’altra?

Il discorso sviluppato da Arendt in quello che almeno in appa- renza è il suo trattato filosofico più sistematico, The Human Con- dition (1958), non facilita il compito, anzi. Il termine “condizio- ne” che figura nel titolo è l’esatta antitesi di “natura”.

3

Essa rigetta doppiamente le teorizzazioni metafisiche o speculative della natu-

3. Cfr. The Human Condition (seconda edizione, con introduzione di Margaret Cano- van), University of Chicago Press, Chicago 1998, pp. 9-10; trad. Vita activa, Bompiani, Mi- lano 2008, p. 9. Arendt ha potuto dichiarare che “il difetto principale di Vita activa è que- sto: è ancora dal punto di vista della vita contemplativa che guardo quel che la tradizio- ne chiama vita activa, senza mai dire realmente niente su questa vita contemplativa” (H.

Arendt, “On Hannah Arendt”, in M.A. Hill, a cura di, The Recovery of the Public World,

St. Martin Press, New York 1979, p. 305).

(16)

62

ra umana. Da un lato, ribadendo a suo modo la tesi enunciata da Marx nella VI Tesi su Feuerbach:

4

non esiste alcuna “essenza uma- na” universale o formale situata in ogni individualità umana (per esempio, nella modalità di un cogito),

5

ma “soltanto”, se possia- mo dire, una pluralità di individui umani e, dunque, una plurali- tà di relazioni, più o meno conflittuali fra loro, che sono costituti- ve del loro “mondo” comune.

6

Dall’altro lato, stavolta agli antipo- di di Marx, consentendo di nominare il conflitto, profondamen- te alienante, che si sviluppa fra due ordini di “condizioni”: quelle che possiamo dire “naturali”, poiché riguardano la riproduzione della vita, e quelle che possiamo dire “politiche” (o civiche), per- ché riguardano la formazione di uno spazio pubblico, dove il co- mune è riconosciuto dalla pluralità degli esseri umani come lo- ro fine.

7

Come è noto, Arendt vede un carattere tipico della mo- dernità e della sua alienazione propria (alienazione del mondo, e non solo del sé o del soggetto)

8

nel fatto che la tecnicità crescen- te dei processi di riproduzione della vita in una “società di mas- sa” permette agli umani di rappresentarsi la riproduzione come la

4. Ricordiamo che Arendt ha invocato la

XI

Tesi su Feuerbach quale criterio di distin- zione fra la filosofia professionale, “teorica”, e la riflessione degli “uomini d’azione”, im- manente all’attività politica (così in The Life of the Mind, Harcourt Brace, New York 1978;

trad. La vita della mente, il Mulino, Bologna 1986, p. 545). Sui rapporti di Arendt con Marx in generale, cfr. A. Amiel, La non-philosophie de Hannah Arendt. Révolution et juge- ment,

PUF

, Paris 2001, pp. 117-218.

5. H. Arendt, The Human Condition, cit., p. 280 sgg.; trad. p. 207 sgg.

6. “Action, the only activity that goes on directly between men without the interme- diary of things or matter, corresponds to the human condition of plurality, to the fact that men, not Man, live on earth and inhabit the world. [L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condi- zione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abi- tano il mondo]” (ivi, p. 7; trad. p. 7).

7. Dico “due ordini” quando, come sappiamo, la fenomenologia di The Human Condi- tion riposa sulla distinzione in “tre sfere” della vita activa, corrispondenti rispettivamente al “lavoro” (labor), all’“opera” (work) e all’“azione” (action). Fra i due estremi, ossia fra la riproduzione della “vita” naturale e lo spazio “comune” (Zwischenraum, inter homines es- se) della vita pubblica, la mediazione, che al tempo stesso le articola e mantiene la loro se- parazione, è precisamente costituita dall’opera. Ma l’analisi del capitolo che vi è dedica- to nel libro (

IV

) mostrerà che questa mediazione si dissolve storicamente per effetto della meccanizzazione. Essa costituisce, dunque, in seno alla modernità qualcosa come una trac- cia simbolica dell’antico.

8. H. Arendt, The Human Condition, cit., pp. 254, 264, 272; trad. pp. 187, 195, 201-202.

(17)

Dal sociale al comune? Per una traduzione della libertà arendtiana

ILARIA POSSENTI

N ell’introduzione a una nota biografia di Hannah Arendt, Elisabeth Young- Bruehl ricorda, da allieva, il commento della filosofa alla sua traduzione di un passo aristotelico: “Non si può dire che vada proprio bene, ma insomma ecco qua: Ari- stotele forse penserebbe che questa versione, più che sbaglia- ta, è interessante”. Non si trattava di benevolenza, ma di un giu- dizio meditato, seguito alla comparazione con altre traduzioni:

“Nelle sue parole”, osserva Young-Bruehl, “c’era tutto il suo sti- le mentale”.

1

Come lettrice di Arendt, trovo che questo stile sia ricono- scibile in ogni sua opera. Nei taccuini e negli inediti, come ne- gli scritti maggiori, il corpo a corpo con i classici, la meditazio- ne su ampi brani e il ritorno quasi ossessivo, in tempi diversi, su frasi o parole strappate ai loro contesti, va di pari passo con forzature e malintesi. Non è facile valutare se e quanto Arendt riconoscesse che il suo Platone somiglia a Parmenide,

2

mentre il suo Marx dice cose che Marx non ha detto.

3

Ma le traduzioni arendtiane di temi e concetti altrui, quando “non vanno bene”,

Ilaria Possenti insegna Filosofia politica all’Università di Verona.

1. E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Per amore del mondo (1982), trad. di D. Mezza- capa, Bollati Boringhieri, Milano 1990, pp. 22-23.

2. Cfr. A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili della filosofia antica, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 38 sgg.

3. Cfr. L. Baccelli, Un curioso equivoco? Arendt, Marx e il lavoro, in questo fascicolo.

(18)

94

sono spesso eloquenti “esercizi di pensiero”, capaci di portare in luce nervi scoperti e questioni tuttora aperte della tradizio- ne politica occidentale. In particolare, Arendt cerca di traman- dare e tradire, di riscoprire e di inventare ex novo, quella liber- tà politica o civica (la libertà di essere cittadini e non sudditi) che nella storia umana non ha mai avuto vita facile, che le ti- rannie novecentesche hanno aggredito alla radice, e che le suc- cessive democrazie rappresentative sono parse ben lontane dal rigenerare, col rischio di nuove pericolose involuzioni. La sua riflessione approda, tuttavia, a una discussa e discutibile rifles- sione sul tema della “povertà”, che guarda alle rivendicazioni legate alla “vita” (corpo, lavoro, bisogni) come a istanze peri- colose per la libertà.

Nelle pagine che seguono ripercorrerò il tema della questio- ne sociale, che emerge tra Vita activa (1958) e Sulla rivoluzione (1963), al fine di avanzare almeno due ipotesi. La prima è che la contrapposizione tra questione sociale e libertà politica, tra il momento della polis e quello della zoè, non solo non regga sul piano teorico, ma oscuri e ostacoli, sul piano pratico, il proget- to di una libertà egualitaria e anti-violenta. La seconda è che sia possibile liberare la libertà arendtiana dal fardello della zoè e chiederci “che cosa resta”, cominciando a scorgere nel comune arendtiano una prospettiva diversa e relativamente autonoma dalla trilogia della vita activa (lavoro, opera, azione). Per que- sta via, restando nel solco di un’immaginazione teorica che po- stula il diritto di tutti a essere cittadini, il comune potrebbe es- sere inteso come il sociale che rende una polis possibile. Non so se Arendt l’avrebbe considerata una traduzione sbagliata – più che interessante – del suo pensiero, ma penso che avrebbe par- tecipato alla discussione.

1. Hannah Arendt guarda con sgomento alle rivendicazioni sociali

della Rivoluzione francese e all’irruzione dei “poveri” nelle strade

parigine: “Ciò che li spingeva”, scrive, “era il bisogno di pane e il

grido ‘pane pane’ sarà sempre urlato con una sola voce. In quanto

noi tutti abbiamo bisogno di pane, siamo in realtà la stessa cosa e

(19)

possiamo benissimo unirci in un solo corpo”.

4

Quando i “poveri”

scendono in piazza la scena non è quella di una nuova agorà, ma di una massa che avanza all’unisono. Una moltitudine di esseri umani, sospinta dalla forza irresistibile della necessità, finisce così per accumulare una terribile potenza d’urto.

5

Nel saggio Sulla rivoluzione, del tutto interno alla cornice di Vi- ta activa, le esperienze legate alla “vita” non conoscono momenti di libertà civica: coloro che vi si trovano coinvolti vivono il biso- gno nello stesso identico modo, senza comunicare tra loro e senza differenziarsi in una “pluralità di esseri unici”.

6

Quel che viene in luce è l’indistinzione che colpisce tutti, senza via di scampo, quan- do le necessità entrano in gioco. E poiché la Francia settecentesca conosce estese condizioni di povertà, la prima grande rivoluzione continentale non può che sfociare in violenza e sconfitta.

Il problema, agli occhi di Arendt, è che la “vita” comporta ur- genze biologiche esterne ed estranee alla sfera del logos. I suoi “bi- sognosi”, che non fanno “discorsi”, somigliano molto a quegli ani- mali gregari che per Aristotele non sono capaci di comunicare at- torno al giusto e all’ingiusto, all’utile e al dannoso, ma sanno so- lo esprimere dolore o piacere.

7

In questo senso, “i malheureux si cambiarono in enragés perché la rabbia è in realtà l’unica forma in cui la miseria può diventare attiva”.

8

L’urgenza dei bisogni finisce per soffocare quella libertà – fatta di partecipazione e autogover- no – che i citoyens avevano appena riscoperto.

La disgiunzione tra pane e libertà sembra quasi rinviarci al to- pos greco – veicolato da Aristofane, Platone, Aristotele – di una moltitudine povera, sprovveduta e perversa.

9

Eppure, il pensie- ro arendtiano nasce e si sviluppa sul terreno dell’universalismo

4. H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), trad. di M. Magrini, Edizioni di Comunità, Mi- lano 1983, p. 100.

5. Cfr. ivi, p. 60 sgg.

6. Id., Vita activa. La condizione umana (1958), trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1989, p. 128.

7. Aristotele, Politica,

I

, 1253a.

8. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 118.

9. Cfr. Platone, Repubblica, 489d, e in proposito A. Cavarero, “Platone e la democra-

zia”, in Platone, a cura di O. Guaraldo, Raffaello Cortina, Milano 2018.

(20)

111

aut aut, 386, 2020, 111-133

Arendt, i bisogni, la felicità

OLIVIA GUARALDO

1. Vorrei cominciare queste mie riflessioni partendo da alcune citazioni del libro di Judith Butler Notes Towards a Performa- tive Theory of Assembly, scritto alcuni anni fa per dare conto, in chiave teorica, delle mobilitazioni politiche dal basso che nel 2011 hanno visto occupare molte piazze nel mondo.

1

Questo testo – è noto – ricorre, per fare senso della novità delle mobilitazioni, al- la grammatica dell’azione arendtiana, al suo lessico, e in una certa misura al suo orizzonte concettuale.

2

Le citazioni che seguono, pe- rò, si riferiscono soprattutto alla dimensione di precarietà e dipen- denza che la pensatrice americana, a cominciare dal celebre testo Precarious Lives, mette in campo per un ripensamento della sog- gettività. All’origine delle recenti proteste, afferma Butler, com- pare sulla scena una soggettività precaria e vulnerabile, ma pro- prio per questo già da sempre in relazione con altre. Nessuna/o può avere sovranità sulla propria esistenza, la vivibilità di una vi- ta dipende da una socialità che eccede ciascuna/o di noi: “Il fatto

Olivia Guaraldo insegna Filosofia politica all’Università di Verona.

1. J. Butler, L’alleanza dei corpi. Per una teoria performativa dell’azione collettiva (2015), trad. di F. Zappino, nottetempo, Roma 2016.

2. Arendt non è generalmente autrice di riferimento per Butler, tuttavia, negli ultimi anni, lei sembra avvicinarsi alla pensatrice di Hannover – in direzioni differenti ma in ogni caso orientate dalla necessità di attingere a un archivio teorico e autoriale altro rispetto a quello post-strutturalista. Il ricorso di Butler alle cornici teoriche arendtiane è maggior- mente rinvenibile nel suo recente libro sulle tematiche dell’ebraismo e del sionismo: cfr.

J. Butler, Strade che divergono (2012), trad. di N. Perugini e F. Zappino, Raffaello Corti-

na, Milano 2013.

(21)

che io possa vivere o meno una vita che abbia valore non è qual- cosa che posso decidere da me, poiché a quanto pare questa vita è e non è la mia, e questo è ciò che mi rende una creatura socia- le, e vivente”.

3

Secondo Butler, precarietà e dipendenza sono condizioni ine- ludibili, rispetto alle quali non possiamo che lottare affinché ven- gano riconosciute e arginate, in un contesto relazionale e non-vio- lento che i movimenti di piazza degli ultimi anni hanno mostrato.

Butler ritiene che le istanze corporee di chi è sceso in piazza (fa- me, sete, accesso a varie forme di protezione materiale – dalla sa- nità alla casa ) siano qualcosa di immediatamente politico, perché anche oltre le parole, oltre i discorsi, esse parlano, attraverso i cor- pi riuniti in piazza: “I bisogni basilari del corpo costituiscono il movente delle mobilitazioni politiche – quei bisogni, infatti, vengo- no messi in atto pubblicamente prima di ogni esplicita rivendicazio- ne politica”.

4

Nel loro assembrarsi assieme, nel loro riunirsi nelle piazze, nel- le strade, in vista di una lotta comune, essi costituiscono già un’as- semblea, la quale mostra, in virtù della presenza dei corpi, il suo potere: “Contro tutto ciò i corpi richiedono cibo e casa, protezio- ne dall’offesa e dalla violenza, libertà di movimento, lavoro, acces- so alle cure sanitarie; i corpi hanno bisogno di altri corpi per esse- re supportati e sopravvivere”.

5

Come ha di recente sottolineato Adriana Cavarero, a proposi- to di questo testo di Judith Butler, “si tratta […] di corpi perfor- mativi che condividono ‘uno spazio di apparenza’, confermando e mostrando la loro essenziale condizione di pluralità e, soprattut- to, di precarietà”.

6

Non riconoscere la precarietà e la dipendenza originaria di cui i corpi sono portatori – e che virtuosamente mettono in scena nel- le manifestazioni politiche che Butler prende in esame – è non so- lo la mossa astuta del pensiero liberale che vuole svincolare l’indi-

3. J. Butler, L’alleanza dei corpi, cit., p. 200 (traduzione modificata).

4. Ivi, pp. 286-287.

5. Ibidem.

6. A. Cavarero, Democrazia sorgiva, Raffaello Cortina, Milano 2019, p. 81.

(22)

113

viduo dai sigilli di modelli corporativi di società, non solo l’esca- motage delle varianti neoliberiste che collocano il termine ultimo di ogni politica e di ogni valore nel soggetto imprenditore. Non ri- conoscere la precarietà e la costitutiva dipendenza del nostro vive- re è un atto, potremmo dire, ontologicamente avverso alla condi- zione umana, per la quale siamo tutti da sempre consegnati a un’e- steriorità che ci precede e che non potremo mai dominare. La fin- zione del soggetto autonomo si fonda, sostiene Butler, proprio sul

“disavowal of dependency”, sulla rimozione consapevole della re- lazionalità che ci genera e ci fa stare al mondo. L’importanza del- le lotte politiche recenti, dove i corpi assembrati in piazza chiedo- no pane e giustizia, casa e dignità, starebbe proprio nell’aver mo- strato come tali corpi, con i loro bisogni, parlano prima di qualsia- si discorso rivendicativo. E lo fanno insieme, in una dimensione di relazione e di comunanza che gioca molto anche sulle potenzia- lità resistenziali che la dipendenza e la precarietà possono avere.

Sembrerebbe, insomma, che tali spazi di apparenza di “corpi in alleanza” siano luoghi virtuosi di esibizione del sé, luoghi in cui può prendere forma quel mostrarsi gli uni agli altri che Arendt ri- tiene essere il gesto inaugurale di ogni spazio politico. Tuttavia Butler critica Arendt perché, secondo lei, la distinzione tra pub- blico e privato che Arendt sostiene nella sua concezione della po- litica, sarebbe proprio la distinzione cardine di quella nozione di soggetto autonomo che Butler tenta infaticabilmente di deco strui- re. Come afferma ancora Cavarero, ciò che infastidisce Butler è

“la tesi arendtiana secondo la quale l’ambito del lavoro e delle ne- cessità biologiche della vita è prepolitico e impolitico, e perciò, co- me tale, escluso dallo spazio pubblico dell’apparire”.

7

Scrive infatti Butler:

Il disconoscimento della dipendenza diventa il prerequisito di un soggetto politico che pensa e agisce autonomamente, il che solleva immediatamente la questione di quale tipo di pensiero

“autonomo” o di azione “autonoma” si tratti. E se accettiamo

7. Ivi, p. 83.

(23)

Libertà politica e liberazione sociale in Hannah Arendt

EDOARDO GREBLO

L’azione è diventata un’esperienza per pochi privilegiati.

1

1. Lo sguardo ambivalente che Hannah Arendt riserva alla modernità non è sfug- gito all’attenzione di molti e autorevoli in- terpreti.

2

Da un lato Arendt condanna il mondo moderno perché lo considera dominato dall’idea di necessità e dalla processuali- tà del comportamento, che finiscono per annullare l’agire politi- co e per convertire gli uomini in altrettanti esemplari riproduci- bili, così da trasformarli in “un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scam- biato con qualsiasi altro”.

3

E condanna, in particolare, la vittoria della mentalità calcolatrice caratteristica della modernità che ha prodotto l’“alienazione dal mondo”, ossia la perdita della “politi- ca”, intesa come luogo di composizione comunicativa del conflit- to politico e riappropriazione degli spazi dell’intesa pubblica sulle questioni di interesse comune. Dall’altro, rivolgendo retrospettiva- mente lo sguardo ai tesori perduti della tradizione rivoluzionaria,

1. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. di S. Finzi, Bompiani, Mi- lano 1989, p. 242.

2. Si veda, limitatamente alla questione del “sociale”, S. Benhabib, The Reluctant Mod- ernism of Hannah Arendt, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham (Mar.) 2000, pp. 22- 23, 193-195, 212; H.F. Pitkin, The Attack of the Blob. Hannah’s Arendt Concept of the So- cial, University of Chicago Press, Chicago-London 1998, pp. 5-9; M. Canovan, Hannah Arendt. A Reinterpretation of Her Political Thought, Cambridge University Press, Cam- bridge 1995, pp. 20-22, 96-97, 109-110, 129, 132; H. Brunkhorst, Hannah Arendt, Beck, München 1999, pp. 142-147.

3. H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), trad. di A. Guadagnin, Einaudi, To-

rino 2004, p. 599.

(24)

135

Arendt ritrova, nel movimento dei consigli e, più in generale, in tutte le forme di autogoverno democratico che si affacciano in ogni rivoluzione moderna, un’eco di quella capacità di agire che spezza il processo cieco della natura e della società. Questa disposizione ambivalente è rivelatrice di una precisa interpretazione del rappor- to di tensione, tanto ricorrente quanto irrisolto, che intercorre tra i due principi normativi dal cui concetto si traggono inclusioni ed esclusioni prescrittive per le diverse sfere di esperienza che sono proprie delle società contemporanee: liberazione sociale e libertà politica. Assumendo implicitamente la prospettiva dell’osservatore, Arendt lascia preventivamente cadere ogni possibilità di sciogliere questo rapporto di tensione in un senso o nell’altro, poiché ritiene che il dissidio tra giustizia e libertà sia costitutivo della modernità.

E ciò la porta a operare quella distinzione concettuale tra il “socia- le”, la nuova sfera creata nella modernità dalla colonizzazione del- la grande famiglia sociale, e il “politico”, il regno della libertà che passa per l’esercizio diretto della parola in politica, conosciuto sin dall’antichità e riscoperto dai rivoluzionari moderni, che le è costa- ta incomprensioni e critiche.

Critiche, peraltro, prevedibili. Come aveva infatti osservato Mary McCarthy, “che cosa dovremmo fare sulla scena politica, nello spazio pubblico, quando non siamo personalmente influen- zati dal sociale? Che cosa rimane? […] Se tutti i problemi di or- dine economico, benessere umano e meticciato razziale, se tut- to ciò che trae origine dalla sfera sociale risulta escluso dalla po- litica, beh, allora mi sento beffata. Tutto ciò che rimane sono la guerra e i discorsi. Ma i discorsi non possono essere meramente discorsi. Devono avere uno scopo”.

4

Osservazioni dello stesso te- nore si ritrovano in diversi altri interpreti, perché il “contenuto”

della libertà sociale nella sfera pubblica democratica viene comu- nemente definito dalla volontà di sottrarre alla trattazione priva- ta i problemi sociali che hanno risonanza biografica e di trasferi- re nella realtà le idee, prodotte dalle comunicazioni dei potenziali

4. M. McCarthy, “On Hannah Arendt”, in M.A. Hill (a cura di), Hannah Arendt. The

Recovery of the Public World, Saint Martin’s Press, New York 1979, p. 315.

(25)

interessati, passibili di offrire soluzioni adeguate dal punto di vi- sta morale e oggettivo dei problemi sociali.

5

Una netta distinzione tra problemi sociali e problemi politici desta l’impressione di essere artefatta, o persino regressiva, perché preclude ai membri della società la possibilità di incontrarsi nell’a- spirazione a discutere e negoziare pubblicamente tutte le questio- ni di comune rilevanza, sfidandosi sulla giusta descrizione dei pro- blemi e sulle migliori proposte di soluzione. Inoltre, Arendt consi- dera il sociale come una minaccia alla vita politica, poiché ritiene che l’irruzione della questione sociale nella sfera politica della de- liberazione pubblica e della formazione della volontà porti inevi- tabilmente alla distruzione dello spazio politico come luogo in cui si esercita la facoltà umana per eccellenza, l’azione, e quindi come luogo di un’apertura alla libertà. Nel peggiore dei casi, lo sconfi- namento del sociale nel politico spalanca le porte alla violenza e all’oclocrazia – un’eventualità che Arendt prospetta nella sua ana- lisi della Rivoluzione francese, quando afferma che il risultato di questo sconfinamento “fu che la necessità invase il campo politico, l’unico campo in cui gli uomini possano essere veramente liberi”.

6

I bisogni vitali, sostiene Arendt, dovrebbero essere esclusi dalle di- scussioni che si svolgono nella dimensione pubblica della forma- zione della volontà, poiché non possono essere considerati come un oggetto pertinente di dibattito e interpretazione.

5. Cfr. J.T. Knauer, Rethinking Arendt’s “Vita Activa”. Toward a Theory of Democrat- ic Praxis, “Praxis International”, 2, 1985, pp. 185-194; J.F. Sitton, Hannah Arendt’s Argu- ment for Council Democracy, “Polity”, 1, 1987, pp. 80-100; K. Reshaur, Concepts of Soli- darity in the Political Theory of Hannah Arendt, “Revue canadienne de science politique”, 4, 1992, pp. 723-736; J.C. Isaac, Oases in the Desert. Hannah Arendt on Democratic Poli- tics, “American Political Science Review”, 1, 1994, pp. 156-168; S. Kruks, Spaces of Free- dom: Materiality, Mediation and Direct Political Participation in the Work of Arendt and Sartre, “Contemporary Political Theory”, 4, 2006, pp. 469-491; P. Walsh, “Hannah Arendt on the social”, in P. Hayden (a cura di), Hannah Arendt. Key Concepts, Routledge, Lon- don-New York 2014, pp. 124-137; Id., Arendt contra Sociology. Theory, Society and its Sci- ence, Ashgate, Farnham-Burlington 2015, pp. 23-32. Per una prospettiva diversa, cfr. K.M.

McClure, The Social Question, Again, “Graduate Faculty Philosophy Journal”, 1, 2007, pp. 85-113, e R. Sobel, A. Disselkamp, Arendt and the Social Question: A Post-Marxist Analysis, “Review of Radical Political Economics”, 2, 2018, pp. 270-285.

6. H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), trad. di M. Magrini, Edizioni di Comunità, Mi-

lano 1983, p. 123.

(26)

153

aut aut, 386, 2020, 153-167

Un curioso equivoco?

Arendt, Marx e il lavoro

LUCA BACCELLI

N elle lezioni del 1953 su Marx e la tra- dizione del pensiero politico occidenta- le Hannah Arendt segnala un “curioso equivoco”

1

relativo alla relazione fra legge e potere, che riguar- da quasi l’intera storia della teoria politica. A mio parere

2

la let- tura arendtiana di Marx, che proprio in questo testo trova una sua prima formulazione, si basa a sua volta su un curioso equivo- co che riguarda la concezione del lavoro: secondo Arendt, Marx identifica il lavoro con il metabolismo dell’uomo con la natura, ma per Marx il lavoro è l’attività che media, regola e controlla il metabolismo fra l’uomo e la natura.

Animal laborans

Come è noto, per Arendt la vita activa si articola in tre fonda- mentali generi di attività: il lavoro (labor), l’opera (work), l’azione (action).

3

Se la distinzione fra attività produttiva in generale e agi-

Luca Baccelli insegna Filosofia del diritto all’Università di Camerino.

1. Nel testo l’espressione si riferisce all’idea che il potere sia “un mezzo per produrre la legalità” e, al tempo stesso, ciò a cui la legge pone “una limitazione e un confine”. Cfr.

H. Arendt, Karl Marx and the Tradition of Western Political Thought (1953); trad. di S.

Forti, Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, Raffaello Cortina, Milano 2016, p. 120 (traduzione basata sui dattiloscritti digitalizzati e disponibili online nella collezione

“The Hannah Arendt Papers” della Library of Congress di Washington).

2. In questo testo utilizzo alcune analisi svolte nel mio Praxis e poiesis nella filosofia po- litica moderna, Franco Angeli, Milano 1991.

3. Cfr. H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958;

trad. di S. Finzi, Vita activa, Bompiani, Milano 1988, p. 7.

(27)

re pratico è al centro del pensiero antico, quella più specifica fra lavoro e opera era “ignorata nell’antichità classica”

4

e pressoché assente nel pensiero politico premoderno e moderno. Arendt am- mette che si tratta di una distinzione “insolita” ma sostiene che è giustificata dall’esistenza di due termini distinti in ogni lingua europea:

5

ponein ed ergazesthai, laborare e fabricari, travailler e ouvrer, arbeiten e werken, labour e work. E coglie una “comple- ta unanimità” anche riguardo al fatto che il sostantivo “lavoro”

“non designa mai il prodotto finito”.

6

Per Arendt il lavoro corri- sponde al metabolismo del corpo umano e il suo “sforzo penoso e sfibrante” ne ripete la temporalità circolare; l’opera ha invece un inizio e una fine, e costruisce un mondo di oggetti artificiali, la “dimora” per i mortali stabile nel succedersi delle generazioni.

L’agire è la condizione della politica e nella polis classica il bios politikos è assurto a forma più alta di attività umana, mentre il la- voro, un tipo non-umano di attività,

7

era disprezzato come un’at- tività propria degli animali in quanto rende schiavi della necessi- tà, e la schiavitù era legittimata proprio in quanto liberava i cit- tadini dal dominio della necessità. Nella teoria arendtiana della vita activa, il lavoro “non perde il proprio carattere di costrizione”

neppure se la fatica si riduce grazie all’automazione:

8

“Il fardel- lo della vita biologica […] può essere eliminato solo dall’uso di servi”.

9

Come è detto in modo forse ancora più crudo nelle lezio- ni del 1953: “Il lavoro è un’attività senza la benché minima digni- tà […]. Nella misura in cui l’ambito politico è costituito da uomi- ni liberi, il lavoro ne deve essere escluso”.

10

Infatti per Aristote- le gli schiavi “non erano a rigore umani”.

11

Arendt riconosce che

4. Ivi, p. 61.

5. Ivi, pp. 58-59.

6. Ivi, p. 59. Non so se Arendt considerasse lingue europee l’italiano, il castigliano e il portoghese, ma lavoro, trabajo e trabalho hanno anche il significato di prodotto, risulta- to dell’attività.

7. Ivi, p. 66.

8. “Il lavoro ha veramente perso l’aspetto della fatica”, scrive Arendt (Marx, cit., p.

96), con notevole ottimismo, nel 1953.

9. Ivi, p. 84. Cfr. anche H. Arendt, Vita activa, cit., p. 29.

10. Id., Marx, cit., p. 53.

11. Ivi, p. 57.

(28)

155

questo disprezzo accomunava le attività da lei distinte come lavo- ro e opera, ma sostiene che molte delle caratteristiche che nella storia del pensiero occidentale sono state attribuite al primo sono invece tipiche della seconda. È la fabbricazione ad avvenire “sot- to la guida di un modello”, un’immagine o uno schema “esterno a chi opera”.

12

Ma è solo nell’opera d’arte che la “facoltà umana del pensiero” costituisce la “fonte immediata”.

13

Per Arendt è l’azione la dimensione più propriamente uma- na dell’esistenza. Presuppone la pluralità, implica un essere-con che costituisce la specifica dimensione della politica. La fabbri- cazione di opere è invece a-politica: richiede l’isolamento, che permette di “esser soli con l’‘idea’, l’immagine mentale della cosa da creare”. Nel lavoro, infine, l’uomo “è solo col proprio corpo, occupato a far fronte alla nuda necessità di rimanere in vita”.

14

Gli stessi gruppi di lavoro, necessari per lo svolgersi del processo, annullano “qualsiasi consapevolezza di individualità e identità”;

15

la vita sociale dell’animal laborans è “priva di mondo e simile a quella del gregge”

16

e la sua intrinseca “anti-politicità”

è confermata dall’assenza, in ogni epoca storica, di “serie” ribel- lioni di schiavi.

Eppure, nel corso dei millenni il lavoro è diventato “l’origi- ne di tutti i valori sociali”.

17

Alla visione dell’uomo come zoon politikon e zoon logon echon è subentrato il predominio dell’ho- mo faber impegnato nella fabbricazione di oggetti e poi l’avven- to dell’animal laborans. Arendt attribuisce alle visioni teoriche un ruolo importante in questa genealogia, dalla filosofia di Platone al pensiero cristiano, a Descartes, a Locke e Smith. Marx ha por- tato a compimento la tradizione del pensiero filosofico occidenta- le sostenendo che è il lavoro a creare l’uomo e a distinguerlo da- gli animali e definendo il lavoro “il metabolismo dell’uomo con

12. Id., Vita activa, cit., p. 99.

13. Ivi, pp. 120-121.

14. Ivi, p. 156.

15. Ivi, p. 157.

16. Ivi, p. 115.

17. Id., Marx, cit., p. 42.

(29)

Potere al popolo?

Una nota su Arendt e il populismo teorico contemporaneo

ALESSANDRO DAL LAGO

L’enorme macchina amministrativa dell’assassinio di massa, al cui servizio potevano essere, e furono impiegate, non solo migliaia di persone e persino migliaia di assassini scelti, ma un intero popolo.

H. Arendt, Ebraismo e modernità

1. Un problema diventato cruciale nell’a- nalisi politica è ciò che recentemen- te Ágnes Heller ha definito nuovo

“bonapartismo”.

1

In termini molto semplici si tratta di una no- ta aporia della democrazia rappresentativa. Che succede se un leader democraticamente eletto riesce a trasformare il suo gover- no nel potere di uno solo, eliminando il pluralismo che ha reso possibile la sua elezione? La risposta è banale: nient’altro che l’in- staurazione di una dittatura inizialmente legalizzata. Napoleone III , seguendo l’esempio dell’insigne zio, ha dato l’esempio già nel se- colo XIX trasformando la repubblica francese, proclamata dopo la fine del regno di Luigi Filippo, in una monarchia assoluta. Il caso storico esemplare, comunque, è rappresentato nel XX seco- lo dall’ascesa al potere del nazismo. Come è noto, Hitler, che nel 1932 aveva ottenuto il 37% dei voti, guidò dal gennaio 1933 un governo di coalizione con la destra non nazista, che si illudeva di manovrarlo, e in pochi mesi, dopo le elezioni del marzo 1933, in cui prevalse con il 44%, conquistò il potere assoluto. Il modello, ovviamente, era quello della presa del potere di Mussolini, undici anni prima, ma il regime hitleriano si era costituito in modo for- malmente legale. Se Mussolini aveva minacciato un colpo di Stato

1. G. Battiston, Ágnes Heller: rifugiati e terrorismo. L’Europa a un bivio, “L’Espresso”,

26 aprile 2016.

(30)

170

per farsi dare dal re l’incarico di formare un governo, Hitler an- dò al potere legalmente e poi fece il suo colpo di Stato.

2

“Legalità” dovrebbe significare conformità a un sistema ba- sato sulla divisione dei poteri e sul rispetto delle procedure pre- viste dalla legge e dei diritti civili e politici. In realtà, tuttavia, la

“legalità”, nel caso del nazismo, si limitò alla partecipazione for- male alle elezioni (che già nel 1932 erano state condizionate dalla violenza di SS e SA ). Subito dopo l’incendio del Reichstag (27 feb- braio 1933), che gli storici considerano unanimemente il punto di svolta tra democrazia e dittatura in Germania, Hitler eliminò i diritti civili e politici, incarcerò i leader dei partiti di sinistra e scatenò le sue milizie armate contro gli oppositori. Ora, la giusti- ficazione di un aspirante dittatore – il quale si appresta ad aboli- re l’indipendenza dei poteri e i diritti individuali – è che, avendo riscosso la maggioranza (nel caso di Hitler, relativa) dei suffragi alle elezioni, e quindi essendo stato legittimato dal “popolo”, può trasformarsi, in nome di quest’ultimo, nell’esclusivo detentore del potere – e perciò sospendere il regime costituzionale che pure gli ha permesso di vincere le elezioni. Una giustificazione che solita- mente si appella anche all’esistenza di crisi sociali acute, conflitto politico estremo, guerra civile e così via.

Sto parlando di una situazione classicamente weimariana, quella in cui Carl Schmitt ha elaborato la nota o famigerata teo- ria dello stato di eccezione, che riconosceva – sia pure con una certa ambiguità e con accenti diversi a seconda delle fasi del suo pensiero – il diritto del detentore legale del potere di sospende- re i diritti per difendere la Costituzione dalla guerra civile.

3

Nella sonnolenza teorica della filosofia politica del secondo dopoguer- ra si dava per scontato che l’epoca dell’ascesa dei regimi totali- tari fosse definitivamente tramontata – e che quindi non avesse

2. Sull’illusione di controllare Hitler nella destra tedesca tra 1932 e 1933 si veda H.

Mommsen, Aufstieg und Untergang der Weimarer Republik 1918-1933, Ullstein, Berlin 2016

4

, p. 593 sgg.

3. I testi fondamentali di Carl Schmitt sullo stato d’eccezione sono: Id., Le categorie

del “politico”. Saggi di teoria politica (1922-53), il Mulino, Bologna 1972; Id., La dittatu-

ra (1921), Laterza, Roma-Bari 1975; Id., Teologia politica

II

. La leggenda della liquidazione

di ogni teoria politica (1970), Giuffré, Milano 1992; Id., Dottrina della costituzione (1928),

(31)

più molto senso preoccuparsi di un’eventuale crisi delle democra- zie.

4

Poi, alcuni fatti hanno costretto l’opinione pubblica occiden- tale, o una sua parte significativa, a interrogarsi sulle forze bona- partiste che stavano emergendo in Europa, nell’apparente rispet- to dei fondamenti dello Stato liberale. Penso all’ascesa del leader ungherese Orbán, ma anche a esempi di casa nostra, evidenti nel- la pretesa dell’ex ministro degli Interni italiano Salvini, per il mo- mento puramente verbale e vagamente ridicola, di ottenere “pie- ni poteri”. Si tratta di bonapartismi ancora in nuce o, se vogliamo, all’acqua di rose; e tuttavia in questo campo è necessario tenere l’attenzione teorica e pratica all’erta. Come dimostrano i casi del- la Brexit, dei conflitti tra Stati europei sulla gestione dei migranti e delle guerre nell’area mediterranea, che ormai lambiscono l’Eu- ropa, equilibri politici che sembravano stabilizzati si stanno di- mostrando fragili e soggetti a mutamenti imprevedibili persino nel breve termine. E quindi il terreno di coltura del bonaparti- smo – conflitti politici interni, difficoltà economiche, crisi inter- nazionali e così via – si sta allargando.

Ora, un aspetto essenziale del bonapartismo è il suo appel- lo al “popolo”, in base allo scambio, implicito o esplicito, pro- posto da chi vuole il comando incondizionato: “Io vi proteg- go (dalla guerra civile, dagli stranieri, dall’Europa, dalla cultu- ra LGBT ecc.) e voi, se volete essere protetti, mi consegnate il po- tere esclusivo”. E così Schmitt, che sembrava ormai relegato nel- la storia del pensiero giuridico e politico, insomma per lo più un oggetto di tesi di dottorato, ancorché suggestivo a destra e a sini-

Giuffré, Milano 1984. Sul ruolo dello stato d’eccezione in Schmitt si veda C. Galli, Genea- logia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 2010. Per gli sviluppi critici della teoria, cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Borin- ghieri, Torino 2003. In estrema sintesi, lo stato d’eccezione per Schmitt si situa all’interno dello spazio della legalità, mentre per Agamben si colloca in uno spazio prepolitico in cui domina la forza.

4. A dire il vero, Samuel P. Huntington, che a metà degli anni novanta del

XX

secolo

sarebbe diventato famoso per la teoria dello scontro di civiltà, parlava di crisi della demo-

crazia nei primi anni settanta. Cfr. M. Crozier, S.P. Huntington e J. Watanuki, La crisi del-

la democrazia (1975), Franco Angeli, Milano 1977. Ma, secondo questi autori, all’epoca sa-

rebbero stati i movimenti post-Sessantotto a provocare eccessi democratici che avrebbero

portato alla crisi.

Riferimenti

Documenti correlati

Secondo la ricostruzione proposta da Peker (2016, che cita sul fronte del- la ricostruzione storica solo la letteratura appar- sa fino al 2000, ignorando alcuni titoli successi-

CASSIBBA F., La completezza e la conducenza delle indagini alla luce della rinnovata udienza preliminare, in Cass.. CHIAVARIO M., Diritto processuale penale profilo

Questi passaggi, con la loro insistenza sul rapporto tra inizio e pluralità – a riprova del fatto che l’inizio tematizzato dalla Arendt non è quello che inerisce alla decisione

There, the new SuperKEKB collider has been made together with an improved detector system, with respect to its predecessor Belle, in order to collect data up to a total

Duso (a cura di), Storia dei concetti e filosofia politica, Franco Angeli, Milano 2008. Sull’analogia tra il concetto di essere-al-mondo in Heidegger e in Arendt, così

Authorized licensed use limited to: University of

The ability of mAbs to inhibit HGF- induced cell scattering (antagonistic activity) was determined using HPAF-II cells (see Figure 7) and is expressed using a scoring system