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CENTO ANNI DEL CODICE DEONTOLOGICO Prof. Francesco Introna

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CENTO ANNI DEL CODICE DEONTOLOGICO

Prof. Francesco Introna*

La storia del codice deontologico dei medici inizia nel 1903 con il "Codice di Etica e Deontologia" di Sassari, seguito, nel 1912 da quello di Torino. La cronistoria (fino al 1998) è la seguente:

1) II Codice di Etica e di Deontologia dell'Ordine dei Medici di Sassari venne approvato dal Consiglio il 18 Gennaio del 1903 e dall'Assemblea degli iscritti il successivo 26 Marzo e fu pubblicato nel mese di Aprile dello stesso anno dalla Tipografia e Libreria Gallizzi & C. "di Sassari".

L'Ordine dei medici non aveva nel 1903 la veste giuridica di ente di diritto pubblico che acquisì solo nel 1910 con l'approvazione della legge istitutiva degli Ordini n. 455 del 10 Luglio il cui testo nasceva da un disegno di legge approvato dal Governo Giolitti il 29 Marzo 1909 e riprendeva gli statuti delle associazioni nate, su base volontaria, dopo il 1880 e già allora denominate "Ordini".

Anche i medici della Provincia di Sassari si erano associati in un "ordine" e all'epoca dell'approvazione del Codice ne era presidente il Professor Angelo Roth giunto a Sassari nel 1890 come Professore di Chirurgia presso l'Università, dove avrebbe ricoperto anche le cariche di Preside della Facoltà medica e di Rettore. Ricercatore noto e stimato oltre i confini della Sardegna, aveva portato nell'isola le esperienze maturate durante il suo soggiorno nelle grandi città del nord Italia (Torino) e all'estero (Londra e Parigi).

Molte riflessioni di ordine deontologico erano state pubblicate da singoli medici durante il secolo precedente in Italia e negli altri paesi europei e si rivolgevano ai colleghi ed ai pazienti. Molte di queste pubblicazioni prendevano il nome di "galateo medico" (vedi oltre il "Galateo" di G. Pasta) e costituivano un tentativo di rispondere alla numerose critiche che l'opinione pubblica rivolgeva ai medici. Tali pubblicazioni avevano lo scopo di disegnare le qualità ideali delprofessionista.

Il Codice di Sassari si differenzia da queste pubblicazioni per il fatto di costituire non più

*Professore emerito di Medicina Legale e delle Assicurazioni nell’Università di Padova

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l'espressione del pensiero di singoli medici, ma uno strumento di autoregolamentazione della categoria professionale che non solo propone modelli comportamentali, ma impone il rispetto di regole. L'inosservanza comporta, infatti, come prevede l'articolo 49 dello stesso Codice, sanzioni disciplinari nei confronti degli iscritti, che vanno dall'ammonizione, alla censura, alla sospensione e all'espulsione. Sono sanzioni che ricalcano quelle poi adottate dalla legge istitutiva degli Ordini.

Dopo il Codice sassarese seguirono:

2) 1912 - L'Ordine dei medici di Torino, per iniziativa, tra gli altri, di Garosci, Oliaro, Boccasso, Garzino, Maffei, Mattioli, Bertachini, Sosso, Valombra, procede alla pubblicazione del Codice deontologico.

3) 1948 - Il Consiglio dell'Ordine di Torino, per iniziativa del Presidente Stefano Perrier, procede all'aggiornamento ed alla revisione del Codice deontologico.

4) 1948 - La FNOM porta a conoscenza di tutti i medici, attraverso la pubblicazione in più numeri di «Federazione Medica», il Codice deontologico dell'Ordine di Torino, ponendolo a base di un referendum tra i medici italiani in vista della redazione di un Codice deontologico nazionale.

5) 1953 - La FNOM nomina una Commissione per la redazione dei Codice deontologico nazionale, presieduta da Frugoni e composta da: Bonomo, Palmieri, Perrier, Piccinni e Maranelli. La Commissione prende come punto di partenza il Codice elaborato dall' Ordine dei Medici di Torino.

6) 1954 - In seno alla Società Romana di Medicina Legale e costituita una Commissione di studio della quale fanno parte Gerin, Battaglini, Chiappelli, Didonna, Grasso Biondi, Pera per prendere in esame, su richiesta della FNOM, il progetto di Codice deontologico.

7) 1954 - La Commissione Frugoni conclude i suoi lavori. La FNOM porta conoscenza dei medici italiani, mediante l'integrale pubblicazione su «Federazione Medica» il testo dei

«Codice di Deontologia Medica» noto a tutti come «Codice Frugoni».

8) 1972 - La FNOM istituisce una Commissione per la revisione dei Codice deontologico composta da De Lorenzo, Spinelli, Gerin, Di Raimondo, Testa, Borghi, Artuso, Pirolo, Peratoner, Ferrarotti, Minafra.

9) 1976 - La FNOM nomina un Comitato ristretto per concludere i lavori di

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aggiornamento dei Codice Deontologico. Detto Comitato composto da: Olivetti, Barucchello, Galeazzo, Rossolini, con un lavoro protrattosi circa un anno, provvede alla stesura del testo definitivo del «Codice di Deontologia medica» integrandolo con le osservazioni della Società Italiana di Deontologia Sanitària (SI.De.S) intervenuta nelle fase finale dei lavori con il Presidente Prof Massone e con il Prof Palenzona.

10) 1977 - Il Comitato ristretto sottopone all'approvazione del Comitato Centrale della FNOM il testo proposto che, dopo alcune modifiche, viene assunto dal Comitato Centrale stesso come testo da presentare al Consiglio Nazionale.

11) 7 gennaio 1978 - Il Consiglio Nazionale approva il nuovo «Codice di Deontologia Medica».

12) 20 gennaio 1985 - il Comitato Centrale nomina una Commissione per la revisione del Codice deontologico.

13) 15 luglio 1989 - Il Consiglio Nazionale approva il nuovo «Codice di Deontologia Medica».

14) 15 luglio 1989 - Il Consiglio Nazionale delibera di trasformare la Commissione di studio in Commissione permanente al fine di studiare eventuali modifiche che nel corso del tempo si renderanno necessarie a portare un costante aggiornamento del Codice Deontologico.

15) 24-25 giugno 1985 - Il Consiglio Nazionale pubblica l'attuale Codice Deontologico.

16) Ottobre 1998 - La Federazione degli Ordini approva il Codice deontologico tuttora in vigore.

Il Codice di Sassari è diviso in tre capitoli: uno sui doveri e sui diritti dei sanitari verso il pubblico, uno sui doveri verso i colleghi e il terzo sui provvedimenti disciplinari.

L' articolo 1 richiama il principio del segreto professionale, appartenente alla tradizione medica fin dai tempi di Ippocrate (tutto quello che durante la cura e anche all'infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra) e definisce quelle che erano (e sono) le caratteristiche essenziali dei buon medico "il sanitario sarà diligente, paziente e benevolo ". Il richiamo alla benevolenza potrebbe far pensare a un Codice ispirato esclusivamente al principio di beneficialità (che caratterizzava all'epoca il rapporto medico-paziente), ma tale

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impressione viene superata dall'articolo 4 che tratta il problema dei consenso informato:

"non intraprenderà alcun atto operativo senza aver prima ottenuto il consenso dell'ammalato o delle persone dalle quali esso dipende, se e minore o civilmente incapace”. Il Codice sassarese prevede la sola eccezione del caso di urgenza con l'indicazione di condividere (se possibile) la responsabilità della scelta con un collega.

Il secondo capoverso dell'articolo 1 sottolinea la necessità di garantire pari trattamento a tutti i pazienti, prescindendo dalle loro condizioni economiche: "sarà affabile con i poveri, non mostrerà ossequio servile verso i ricchi e curerà gli uni e gli altri con la stessa abnegazione". Doveva essere diffuso all'epoca un diverso atteggiamento se gli estensori del Codice sentirono l'esigenza di affermare un simile principio proprio all' articolo 1.

Ma esso era già stato stabilito da Ippocrate in ("qualunque casa sarò chiamato entrerò col solo fine di essere utile agli ammalati, astenendomi da ogni ingiustizia o corruzione con i pazienti, siano essi uomini o donne, liberi o schiavi ").

L'articolo 3 tratta il problema dell'informazione nei casi con prognosi sfavorevole ed il principio del 1903 non è molto diverso da quello del 1998 (articolo 30) Nel 1903 si affermò che il medico era tenuto ad informare la famiglia, ma nulla si diceva dell'eventuale necessità di informare il paziente. Oggi le cose sono cambiate e l'articolo 30 del vigente Codice stabilisce che l'informazione ai familiari è ammessa solo con l'esplicito consenso dell'interessato.

Gli articoli dal 5 all' 11 regolavano i rapporti dei medici con istituzioni ed enti e la riscossione degli onorari. È un insieme di norme che affrontano il problema della

"concorrenza sleale", allora una delle principali fonti di contenzioso tra medici. Tale problema ritorna nei successivi articoli che regolamentano più specificamente i rapporti tra colleghi. L'obbligo di evitare di lasciar trapelare opinioni discordanti rispetto ad altri colleghi, che hanno visitato il paziente, è sicuramente uno dei più sottolineati. È probabile che alla base di tale norma vi fosse l'esigenza di salvaguardare l'immagine della categoria, ma non è escluso che allora la fallibilità dell'arte medica, fosse più sentita di quanto non lo sia oggi. Il principio è rimasto fino ai nostri giorni, "il contrasto di opinioni non deve violare i principi di un collegiale comportamento e di un civile dibattito" il (articolo 57 del Codice del 1998), ma da questa formulazione piuttosto generica è facile dedurre che è diventata difficile la sua applicabilità. Più perentorie sono le disposizioni del codice

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sassarese: "si asterrà sempre scrupolosamente dal fare critiche ed osservazioni sulla diagnosi e sul metodo di cura prima seguito".

Molto dettagliate erano le norme relative ai rapporti fra colleghi nel campo dei consulti, una pratica molto diffusa all'epoca. Un esempio di grande attenzione al problema può essere dedotto dall' articolo 23 che stabiliva il comportamento da seguire nel caso di un ritardo del consulente: "il medico chiamato a consulto si guarderà bene dal visitare l'infermo prima che sia giunto il collega; potrà tutt'al più occuparsi di raccogliere l'anamnesi remota. Però, quando il curante fosse in ritardo di oltre venti minuti e non avesse mandato alcun avviso, il consulente potrà procedere da solo all'esame del malato".

Dal confronto dei diversi codici deontologici che si sono succeduti nel tempo in Italia, si deduce la progressiva perdita di importanza del tema. Infatti mentre, per esempio, nel Codice del 1978 erano dedicati al problema delle consulenze 11 articoli (dal 75 all' 82), nel codice del 1998 la materia è sintetizzata in due soli articoli (59 e 60).

Si potrebbe considerare singolare il fatto che, all'articolo 21, venga sconsigliato il consulto tra medico allopatico e omeopatico. Il fatto che sia stata prevista una simile norma lascia immaginare che all'epoca convivessero, anche in una piccola realtà di provincia, medici allopatici ed omeopatici e che fosse esperienza assodata l'impossibilita di far conciliare le posizioni degli uni con quelle degli altri.

Comunque, dopo un secolo, è ancora molto vivo e forse più acuto di allora (ari 13 del vigente Codice).

È molto importante (ed oggi ignorata ! ! !) la definizione di medico specialista di cui all'articolo 31. Infatti, per essere considerato "specialista" non era sufficiente aver acquisito particolare competenza in una branca della medicina o della chirurgia, ma era necessario aver rinunciato ad esercitare in tutte le altre branche dell'arte medica. Tale rinuncia veniva in qualche misura compensata con la previsione di "compensi più lauti"

rispetto ai medici generici (come prevede l'articolo 11).

Il Codice affronta anche quelli che, alla fine dell' 800, dovevano essere i principali motivi di contenzioso tra medici e la pubblica amministrazione: gli incarichi nelle condotte. A tale proposito tre sono i principi che il Codice afferma: il primo riguarda il rispetto di un diritto acquisito che interessa chi ha svolto, per un certo periodo, una attività come interino; in tal caso, al momento del concorso, gli altri medici sono invitati ad astenersi

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dal partecipare per evitare la concorrenza. Il secondo si riferisce a quello che oggi definiremmo "licenziamento senza giusta causa" da parte dell'amministrazione: In questo caso prima di accettare di sostituire il collega dispensato dal servizio, il medico doveva ottenere l'autorizzazione del Consiglio dell'Ordine. Infine veniva affermato il principio che un medico residente in un comune diverso da quello per il quale era stato bandito il concorso, non potesse fare concorrenza ad un collega residente nel posto.

Un altro principio, che mantiene intatta la sua validità ancora oggi, era sottolineato all'articolo 43: "e indegno affatto di un medico il rendere direttamente o indirettamente obbligatorio il ricorrere alla proprie cure ". Qualcosa di simile, almeno nelle intenzioni, lo si ritrova nella realtà di oggi nell'articolo 73 del Codice del 1998 (conflitto di interessi).

Infine una norma spesso trascurata, oggi come cento anni fa: "ogni ricetta medica deve essere chiara, ben leggibile in ogni sua parte" Un tentativo di inserire una norma simile in un codice deontologico venne fatto nel 1989, ma alla fine non venne approvata in considerazione delle evidenti difficoltà di applicazione.

Lo scopo di questo Congresso non è certo quello di un sistematico confronto fra il Codice sassarese del 1903 ed il Codice nazionale del 1998. Infatti la dimensione assunta dagli attuali 79 articoli (con il richiamo alla sperimentazione, ai trapianti, all'eutanasia, alla procreazione assistita e quant'altro) è notevole e nessuno di questi (od altri) problemi eticodeontologici era prevedibile un secolo fa. Basti pensare alla "Dichiarazione anticipata di trattamento" approvata dal Consiglio Nazionale per la Bioetica il 18 Dicembre 2003.

Sul punto, si rinvia ai volumi di Introna e Coll.1 e di Fineschi e Coll.2

Entrambe queste opere comprendono centinaia di voci bibliografiche e la prima contiene anche 62 allegati (leggi, Dichiarazioni della Assemblea medica mondiale, Raccomandazioni del Consiglio d'Europa ecc.).

L'una e l'altra si sono fermate al Codice del 1995, avendo rinunciato gli Autori a ricominciare ex novo con il successivo Codice emanato nel 1998, dopo appena tre anni. Nei 44 anni trascorsi tra il primo (1954) ed il quarto (1998) Codice nazionale ve ne sono stati

1 Introna F. e Coll. Il codice di Deontologia medica del 1995 commentato con leggi e documenti.

Giuffrè Ed. 1996.

2 Fineschi V. e Coli. Il Codice di Deontologia medica del 1995. Giuffrè Ed. 1996.

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un secondo (1978) ed un terzo (1995) il che dimostra come sia difficile adeguare tempestivamente un Codice di "Etica e di Deontologia" al progresso tumultuoso delle scienze biomediche. Senza soffermarsi sulle leggi olandese (2000) e belga (2002) sulla eutanasia ( che non entreranno nei nostri sistemi penale e deontologico ma che hanno aperto un forte dibattito nel nostro Paese) basta ricordare la legge del 19 Febbraio 2004 sulla "procreazione medicalmente assistita" che è in totale contrasto con l'articolo 42 del vigente codice deontologico.

Non si può divagare e restiamo nella "filosofia" di questo Congresso per riflettere sul fatto che un secolo fa l'Ordine di Sassari decise di dare ai suoi iscritti un Codice che fu intitolato di "Etica e di Deontologia" ma che era, in buona sostanza, un "Codice di autoregolamentazione".

Sembra infatti che per colpa di alcuni, la categoria medica fosse allora alquanto screditata:

perfino Moliere ne fece una satira nelle sue commedie "Le Medicina malgrè lui" (1666) e

"Le malade immaginaire" (1673).

Per porre fine a questo discredito, un medico veneto ( Leonardo Vordoni) scrisse un volume di 850 pagine intitolato "Saggio di un metodo per formare dei buoni medici"

stampato nel 1808 dalla Tipografia Zanon-Bettoni di Padova.

Vordoni invocava l'intervento dello Stato (allora il Veneto faceva parte del Regno d'Italia, con Re Napoleone Bonaparte) per regolamentare il comportamento dei medici e definirne la responsabilità.

Scriveva Vordoni parlando del medico: "Un uomo che in mezzo alla società esercita un potere senza limiti; che viene ciecamente obbedito, e senza appellazione; che sovranamente decide della felicità dello Stato in un ben regolato governo (intanto che tutti gli altri sono circoscritti dalla potestà delle leggi, e sono tenuti a rendere conto delle loro procedure) non dovrebbe essere lasciato ei solo a sé stesso, né si dovrebbe supporre, che di una facoltà così illimitata, non potesse mai abusare, od almeno non la potesse amministrare malamente; ma si dovrebbe con tutto il rigore ridurlo ad agire colla maggiore circospezione possibile: render conto esattissimo delle sue operazioni, essendo sicuro che sarebbe severamente punito se agisse senza la dovuta attenzione e proporzionatamente compensato se procedesse come conviene".

Dacché la Medicina esiste, ci siamo sempre lamentati dé' suoi abusi, ma per una

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inconseguenza inconcepibile dello spirito umano, ci siamo limitati a scherzare soltanto su di un oggetto. Percorrendo le legislazioni di tutti lì paesi, se si trova sparsa qualche legge relativa ai Medici, non se ne trova mai alcuna che abbi un'influenza immediata su l'esercizio della Medicina e su i suoi progressi e che stabilisca la responsabilità di quelli che la professano.

Si può assicurare con verità, che oggidì come tremille anni fa, tutto è garantito nella società eccettuata la vita dell'uomo e che il Medico continua ad essere il più assoluto dei despoti, esercitando la sua autorità su i re, su i grandi, su le armate, sul popolo, senza freno, senza giudice, ne sopravvigilanza. Oso affermare che la giustizia, la politica, e l'umanità domandano al Legislatore che vogli fare di questo disordine l'oggetto delle sue attenzioni.

Non può appartenere che ad un medico munito di una lunga esperienza di analizzare gli inconvenienti e le conseguenze di questo vizio che esiste tra noi, non può appartenere che ad un medico onesto di farne lo spaventevole ritratto; ma non può appartenere che ad un gran Monarca di portare il lume della ragione e dell'equità in questo caos, e di togliere dalla anarchia questa importante provincia dell'ordine sociale.

Il Legislatore che oserà sottoporre la Medicina, e quelli che la esercitano, ad una disciplina severa e giusta; che saprà combinare nelle sue leggi i progressi dell'arte, facilitando l'istruzione, e stabilendo la necessità del rendimento di conto, stabilendo la responsabilità dei Medici, o sottomettendoli alla vigilanza attiva di giudici dotti ed imparziali, farà finalmente gli interessi dei <Medici stessi>, separandoli dalla massa dei ciarlatani, e assicurando a questo ministro rispettabile la giusta considerazione che merita. Con ciò il Monarca avrà riempita una delle più funeste lacune del sistema sociale; si coprirà di gloria alla quale ninno ha mai osato pretendere: sarà il benefattore del suo secolo, del suo paese, ed il modello degli altri ".

Dopo il Dottor Vordoni, l'argomento fu trattato dal Dottor Giuseppe Pasta 3 (1742-1823) il quale conseguì la laurea in Medicina a Padova divenendo poi medico ospedaliero a Bergamo e Protofisico della Provincia dì Bergamo.

Il «Galateo dei Medici» fu stampato a Bergamo nel 1791, a Padova nel 1821 ed infine

3 Introna F. Il Medico e le regole di buona creanza, ovvero il Galateo dei Medici. Rivista Italiana di Medicina Legale 19, 233,1997.

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Venezia nel 1829. Il testo è un esempio di correttezza deontologica e di esperienza medica maturata con il quotidiano contatto con gli ammalati come sapevano fare quelli che una volta erano definiti «medici di famiglia» e che oggi sono burocraticamente declassati con la definizione di «medici di base».

Nel linguaggio fiorito di oltre 200 anni fa Pasta ha anticipato quelle che sono la Deontologia e l'Etica medica ed ha sviluppato i principi ippocratici. Monsignor Della Casa (1503-1556) aveva scritto tre secoli prima il suo «Galateo» ovvero le regole di buona creanza nel comportamento fra le persone e Pasta ritenne giustamente che, in quel rapporto irripetibile che lega la persona-medico alla persona-malato, le regole di buona creanza (il Galateo appunto) devono avere una peculiarità che unisce la buona educazione umana alla buona preparazione professionale.

Pasta sottolinea che l'attività del medico è unica perché non v'è altro lavoro o professione umana che, come quella medica, venga praticata non su materiali inerti ma su una persona che per di più è timorosa e debole in quanto è malata. Per tal motivo poiché i beni primari della persona sono la salute e la vita «deve arrossire» il medico che sia appena mediocre o, peggio, «inferiore o dappoco».

Per fare bene il medico sono necessari «sublimi studi» ma anche tratti particolari di personalità: grave (pensoso e riflessivo), eloquente (che sappia ben parlare e ben farsi capire), instancabile (nell'impegno professionale) docile (non «testereccio» ovverosia testardo), civile (cioè educato e corretto), religioso (e gia Ippocrate giurava in Apollo medico, Igea e Panacea che era come giurare sulla «Dea Medicina»).

«I vizi morali se sono odiosi fra i galantuomini, nel Medico sono incomportabili» e così come Ippocrate impegnava il medico a salvaguardare la professione anche «con la castità e la santità della vita», del pari con il Giuramento che precede il vigente Codice deontologico il medico deve «evitare, anche al di fuori dell'esercizio professionale, ogni atto o comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della professione». La Medicina è l'arte della prudenza, scrive Pasta, e ben si sa che la persona prudente è sempre consapevole dei propri limiti e delle eventuali incognite del proprio agire per cui difficilmente provoca danno a se o agli altri. Il medico deve essere affabile ed il malato deve trovare in lui «un amico che lo incoraggia e lo conforti» perché un vero amico e una persona schietta «che non lusinga invano e non tradisce».

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Non deve accadere che il medico diventi cinico ed indifferente per il fatto di avere quotidiana consuetudine con le malattie e le sofferenze degli altri. Il medico vero deve dunque avere sempre «dolcezza ed umanità» ed anche il suo modo di vestire (cioè la forma esteriore) deve essere «signorile ma non superfluo, pulito ma non pomposo, moderno ma non caricato».

La preparazione del medico deve essere profonda e se allora bastavano «l'anatomia, la chimica, la botanica» oggi sono necessarie ben più ampie conoscenze e soprattutto si deve far tesoro dell'esperienza pratica perché «i libri ed i maestri insegnano l'ampia via…ma gli ammalati...additano la vera meta».

Ma l'esperienza deve essere una somma di autoverifiche continue «perché chi vede male seguita a veder male» tanto che «il vecchio non è sempre il migliore» se ha disperso i suoi anni nel non conoscere bene le malattie e gli ammalati.

Il paragrafo «Il visitare» (nel senso di fare visite non richieste) è superato dall'organizzazione creata dal Servizio Sanitario Nazionale ma contiene principi di costante valore etico: «è meglio aver pochi malati in cura che parecchi, è meglio curar bene che curare molto;.... il povero ed il ricco, il potente e l'imbelle hanno sul cuore di un tal medico un uguale diritto». E se al medico accade di curare una «persona cospicua o imperiosa o sovrana» egli non deve titubare, o avere «soverchia premura» o «variare il suo metodo per timori né andare a seconda degli altrui capricci o voleri». Si tratta di osservazioni molto acute e sagge perché se da sempre l'imperativo ippocratico ricorda che per il medico tutti i malati «liberi o schiavi» sono uguali, è certo che nel curare il potente, il ricco ecc. il medico potrebbe avere minore serenità di giudizio e/o maggiore timore di insuccesso.

E Pasta prosegue ricordando che se anche un infermo è «insolente, ingrato, indocile,....

rare volte lice a' medici di negargli la loro servitù... ».

Questo millenario principio etico che fa capo al rapporto di fiducia, e codificato dal D.P.R.

22 luglio 1996 n. 484 (Accordo collettivo nazionale per i medici di medicina generale):

l'assistito può revocare in ogni tempo la sua scelta e non è tenuto a dare spiegazioni (art.

24-1) mentre il medico che intende ricusare la scelta deve motivare «con la turbativa del rapporto di fiducia» e la ricusazione decorre solo dal 16° giorno successivo alla comunicazione (art. 24-2) ed infine la ricusazione non è consentita quando nel Comune non sia operante altro medico (art. 24-3).

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Ciò si ritrova nel vigente Codice deontologico sul «dovere di assicurare al paziente la continuità delle cure» e come deve comportarsi «qualora abbia avuto prove di sfiducia da parte del paziente...».

Nel parlare della visita, Pasta ricorda che già dalla prima fase di approccio il medico deve sapere ispirare conforto e speranza e non deve «precipitare il giudizio.... (bensì deve avere) ....ponderazione». Inoltre «è impropria cosa l'abbandonare un infermo perché se lo giudichi indisposto per male che non ammette cure merita egli, ciò nulla ostante, assistenza continuata; per disperato che sia il malanno, non intermetta il medico le sue visite. Servirà almeno a lenire i dolori, le veglie, le inquietitudini .... ». Il medico, pertanto, deve rifuggire dall'accanimento terapeutico (art. 14 del Codice deontologico) ma in caso di malattia a prognosi infausta e pervenuta alla fase terminale <<...può limitare la sua opera all'assistenza morale ed alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza....» (art. 37).

Pasta aveva anche intuito il bilancio rischio-beneficio (che oggi e una costante della pratica medica) e scrive che non sono da «adoperarsi armi potenti contro una malattia che sia di per se benigna (perché) i metodi debbono essere proporzionati ai casi».

Il Galateo di Pasta ribadisce che «il segreto in medicina è il santuario della politica» e quanto al sempre delicato problema sul dire la verità al malato nelle infermità «dubbie e minacciose (l'informazione) dà eccitamento a compiersi quei doveri che sono necessari per gli affari spirituali e temporali di esso ammalato» (art. 30 e 31 del Codice deontologico).

Nel paragrafo «La diagnosi» Pasta ricorda che la premessa sta in una attenta anamnesi raccogliendo con cura notizie «dall'ammalato, dai congiunti e dai servi ecc....» cui segue l'esame obiettivo nel corso del quale il medico deve essere «esatto e minuto scrutatore»

(ovverosia diligente) conservando i dati «a maniera di diario....a fine che la memoria.... nei nuovi incontri si ravvivi....» ricorrendo ai dati dell'esperienza ricavati da fatti analoghi e molto utili per le nuove esigenze.

Talora è necessario «sospendere nelle prime visite il giudizio....» ed è ben noto che in seno alla logica delle diagnosi (oggetto di studio finalizzato nella moderna Medicina) può accadere che una diagnosi avventata spesso si radichi nella mente del medico il quale resta poi ancorato ad essa e sottovaluta o trascura successivi sintomi più chiarificatori.

L'interpretazione dei sintomi va integrata nella totalità della persona e del suo stile di vita:

«Il sesso, il temperamento, l'età, le consuetudini....» e tuttavia «malgrado tutte le

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indagini, resta frequentemente il morbo involuto, oscuro, indefinibile....». In tal caso il medico saggio deve saper ammettere l'esisténza di limiti alle possibilità diagnostiche, deve saperlo far capire e tener sempre c<fitto in capo» il principio «si non juves, saltem non noceas» che è poi l'antico prècetto salernitano «primum non nocere».

Nel paragrafo su «La prognosi» Pasta scrive che «il pronostico è la pietra di paragone dei Medici.... (ed è necessario) lo studio assiduo di un tal ramo della nostra scienza.... non si deve mai promettere con certezza la salute.... e non mai predire fermamente la morte....

Tuttavia alla volte bisogna pronosticare ed e allorquando l'infermo ha da sapere lo stato suo minaccioso o pericolante onde a sé provveda ed alle cose sue». Ma la formulazione delle prognosi, precisa Pasta, non e solo un problema di eccessiva prudenza (riservarsi il più possibile) o, al contrario, di eccessiva sicurezza (prevedere sempre e quindi avventatamente) bensì è in primo luogo frutto della meditata esperienza pratica perché «il medico a teorie pronostica sempre ed il medico di sana pratica quasi mai»; infatti il secondo sa comparare il caso singolo in cui si cimenta con la serie di casi analoghi (ma di rado identici) accumulati con la sua esperienza mentre il primo prevede l'evoluzione delle malattie solo sulla base dello standard teorico scritto nei libri.

Quanto a «La terapia» il medico non deve andare più o meno a tentoni perché «quando hai stabilito un metodo, fa mal dire che passi ad un altro e poi ad un altro....»; d'altro canto il medico non si deve intestardire nel tipo di cura intrapresa perché deve ricordare

«le tenebre in cui siamo dell'azione dei rimedi e della reazione dei corpi..». Vale a dire che a parità di malattia il metodo terapeutico può variare da un caso all'altro perché non sempre un determinato metodo ha valore assoluto e costante dovendosi considerare la diversa reattività individuale, le reazioni anomale, gli effetti collaterali, gli eventi avversi, la patologia iatrogena; ancora una volta viene fatto di pensare al bilancio rischio-beneficio perché dalla terapia «... può venire e sollievo e discapito e vita e morte... (per cui) ... non devi essere timido ... ma nemmeno temerario e precipitoso». Ma ciò non basta perché (prosegue Pasta anticipando il divieto all'accanimento terapeutico) «io non intendo che si debbano tentar cose che possano anco ammazzare».

Il paragrafo de «La consulta» ancora oggi invariato e quello che il Codice deontologico dice negli articoli 59 e 60, scriveva gia Pasta in tre nitide pagine di stampa nelle quali domina il principio secondo cui è opportuno che il Medico non attenda la richiesta di

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consulto da parte del malato... «anzi tu stesso il dimanda, se il caso lo merita e c'intravedi l'altrui desiderio».

Quanto a «L'onorario» esso è regolato sia per deontologia che per legge, ma Pasta conferisce ad esso una dimensione etica perché non e ammissibile arricchirsi approfittando delle malattie degli altri mentre «Alle volte val più un tratto cortese, una lode, un animo obbligato, che un premio metallico ... Il povero remunera coll'encomiare e col servire, il ricco coll'esborso spontaneo o colla sua stessa mortificazione, la quale alla fine proficua diventa».

Per concludere, è utile riflettere, dopo oltre 200 anni, sulle regole di buona creanza che Pasta suggerisce ai medici e che egli condensa nella breve presentazione: «La scienza fa l'uomo dotto, siffatte leggi lo rendono caro; l'aver l'una senza l'altra non ci fa gloriosi che per la metà».

Un tentativo di parafrasare questa parole può essere il seguente: vi sono medici bravi (per scienza) e medici buoni (d'animo); l'ideale è un medico bravo e buono.

Avviandosi alle conclusioni (e proprio perché il Codice sassarese è intitolato "Etica e Deontologia") è da riflettere sul fatto che si assiste all'uso sempre più frequente del termine «Etica medica» ed all'uso sempre più limitato del termine «Deontologia medica»

in base all'assunto secondo il quale il primo si riferisce ai principi generali della morale medica mentre il secondo riguarderebbe solo l'insieme delle norme scritte.

A prescindere dal fatto che, salvo variazioni storiche e politiche, le norme scritte ed aventi valore legale discendono dai principi etici (ovverosia dai costumi) di una determinata collettività, ed a prescindere anche dal fatto che si parla indifferentemente di Codice di Deontologia medica (vedi quello italiano) o di Codice di Etica medica (vedi quello brasiliano; in Riv. Ital, Med. legale, fasc. 2, 1983), giova ricordare che

«Deontologia» è un termine filosofico usato per la prima volta da

Geremia Bentham (1748-1832) il quale intitolò «Deontology, or Science of Morality» la sua opera pubblicata postuma (1848) e dedicata alla «Teoria della virtù ed alla Dottrina della pratica della virtù». Bentham definì la deontologia come «la parte delle nostre azioni cui il diritto positivo lascia campo libero» ed è pertanto basata su regole della tradizione e del costume.

Quanto all'aggettivo «deontologico» esso ha acquisito un significato più universale

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perché, opponendosi ad «ontologico», serve per designare la antitesi che esiste «fra quello che deve essere» rispetto a «quello che è».

Va anche notato che, ove si volesse prescindere dall'origine filosofica del termine

«deontologia» (origine che lo collega strettamente all'etica) il suo significato etimologico di «discorso sui doveri» non autorizza ad affermare che tali doveri siano solo quelli contenuti in norme aventi valore legale e non siano (come in realtà sono) anche quelli

«non scritti» e più propriamente «etici».

Si deve parlare dell'etica dei medici e non dell'Etica come la più antica fra le discipline filosofiche nata fin da quando l'uomo ha cominciato a meditare sui concetti di bene e di male, di giusto e di ingiusto. Già nell'epoca presofistica con le massime morali attribuite ai Sette Savi, e con quelle di Eraclito, di Démocrito e dei Pitagorici, si posero le basi dell'Etica diretta ad identificare una norma che si presentava o come religiosamente imposta o come scaturita da lunga esperienza umana ed in ogni caso dettata da una «autorità» (la divinità o le consuetudini, ovverosia i costumi, ovverosia la morale).

L'Etica propriamente detta sorse più tardi, quando venne meno la fede in tali norme obiettive e l'uomo tentò di darsi una legge morale attraverso l'autonoma riflessione sui motivi del suo operare. Da allora l'Etica è alla ricerca della «norma» (che potremmo definire «naturale») attraverso Socrate, Platone, Aristippo, Epicuro, gli stoici, i precetti evangelici, Duns Scoto, Machiavelli, Guicciardini, Bacone, Hume, Hobbes, Locke. Kant, Hegel, Marx, Croce, e via dicendo.

È stato detto che l'Etica è immutabile mentre è mutevole (nella storia ed a seconda dei costumi) la Deontologia. In realtà se l'Etica fosse immutabile, essa avrebbe già raggiunto il suo fine (identificare il bene ed il modo di riconoscerlo e per raggiungerlo) e non continuerebbe ad essere oggetto di riflessione ed anche di polemica.

Persino l'etica religiosa cristiana (che impregna di sé la civiltà occidentale) ha subito qualche aggiustamento nel tempo pur non derogando dai principi fondamentali. Non è quindi esatto dire che l'Etica è tutta immutabile e basti riflettere, ad esempio, a come si è venuta modificando l'etica sessuale (ovverosia la morale sessuale) per cui taluni comportamenti sessuali giudicati riprovevoli nel passato non sono più riprovevoli oggi.

Per tornare all’etica medica, essa nacque con il giuramento di Ippocrate e non risulta che essa abbia subito modificazioni sostanziali né si può negare che essa sia ancora la matrice

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della «deontologia medica» (ove si volesse insistere nel tenere distinti i due termini). Il Giuramento ippocratico continua ad essere attuale e basta saperlo leggere per comprendere come esso sia ancora valido in un epoca in cui i problemi morali (etici o deontologici che dir si voglia) sono divenuti più complessi rispetto a più di 2000 anni addietro.

Il medico di allora giurava in Apollo (dio protettore della Medicina), in Igea (mitica dea della sanità, ritenuta moglie o figlia di Esculapio) ed in Panacea (simbolo della guarigione dai mali). Orbene, chi volesse affermare che il giuramento ippocratico è «confessionale»

dovrebbe riflettere che in realtà Ippocrate giurava «per la medicina e nella medicina», che la medicina esiste ancora mentre le divinità non sono più quelle di allora e che tuttora non esiste una divinità unica per le diverse religioni le quali sono peraltro accomunate dal principio secondo cui la divinità rappresenta il bene, il buono ed il giusto e detta «norme»

ai suoi fedeli perché tendano a perseguire questi fini.

La dea "medicina" deve dunque essere l'unica guida morale per il;medico, a prescindere dalla fede (religiosa o politica) che egli pratica.

La "divinità" compare in qualche Codice deontologico come nel "Codice islamico di Etica medica" (1981) (in Riv. it. Med. leg. p. 1176, 1984) ed una "morale" non medica compariva nel "giuramento del medico sovietico: "Giuro di fondare tutti i miei atti sul principio della morale comunista".4

Ciò sta a dimostrare che non esiste una «etica» assoluta, che essa può essere influenzata dall'ideologia (religiosa o politica), e che la medicina esiste ancora mentre le divinità non sono più quelle di Ippocrate.

Prescindendo dalle varianti storico-politiche e religiose, resta certo che ancora oggi l'impegno morale del medico (il suo codice di condotta ovvero la sua deontologia professionale) è ancorato ai principi ippocratici.

Qualche commentatore, incapace di andare al di la del significato formale delle singole parole, sostiene che il modo ippocratico di intendere la professione medica è segno di

4 Boll. Del Soviet supremo della U.R.S.S 1991 approvato con Decreto del Presidium del Soviet supremo in data 14 Marzo 1971.

In "Deontologia e responsabilità professionale del medico sovietico" di Aleksandr Petrovic Gromov, Professore di Medicina Legale nella Università di Mosca. Traduzione di Drenka Dreska commento di F.

Introna e S.D. Ferrara. Stampato dalla CLEUP, Padova, 1975.

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«corporativismo». Che l'ethos ippocratico sia l'esatto contrario dei corporativismo medico, è dimostrato dal fatto che Ippocrate volle allargare l'esercizio alla Medicina (allora «corporativamente» riservata alla casta degli Asclepiadi) a chiunque si impegnasse a rispettare l'etica medica tradotta nel suo Giuramento. Trattasi di un fatto di portata storica: i medici non costituiscono una casta né devono provenire da questa o quella casta (oggi diremmo classe sociale). Chiunque può diventare medico perché esiste il diritto allo studio per i «capaci ed i meritevoli» come recita la nostra Costituzione, ma tutti coloro che diventano medici devono sentirsi subordinati all'etica medica (etica ippocratica) e sentire il dovere di rispettarla. Questo, altro non è che deontologia.

Nella concezione ippocratica, la figura del medico discendeva dalla preparazione tecnica e dal comune denominatore etico ed oggi nulla è cambiato anche se le forme sono diverse. Si spiega dunque perché colui che esercita la medicina senza essere laureato in questa disciplina, abilitato ed iscritto all'albo incorre nel reato di esercizio professionale abusivo (art. 348 C.p.). Questa norma esiste (per quanto concerne i medici) non per lasciare ai medici il monopolio della medicina, ma per garantire al cittadino che la competenza di coloro i quali si occupano della sua salute è verificata e controllata dallo Stato. E l'importanza che lo Stato riconosce a questa categoria di cittadini, si desume anche dal fatto che gli esercenti le professioni sanitarie sono (insieme con altre professioni per l'esercizio delle quali è richiesta la speciale abilitazione dello Stato)

«esercenti un servizio di pubblica necessità» (art. 359 C.p.).

Il medico d'oggi deve dunque sapere identificare il suo ruolo nella Società perché, come scriveva Charles Nicolle: (La Società delega ad alcuni suoi membri un mandato ed i medici ricevono quello di vegliare sulla salute dei cittadini).

Spostiamo ad oggi (e a domani) i principi del Codice sassarese e riflettiamo a quella che, nel terzo millennio, è la deontologia della ricerca biomedica. La riflessione è necessaria perché nell'arco di meno di un secolo si è passati dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione tecnologica pervenendo ora alla rivoluzione biologica che suggerì a G. Rattray Taylor il volume «The Biological Time Bomb» (Thames a. Hudson, Londra 1968). Si ha timore della bomba atomica ma non ci si rende ancora conto dei pericoli suscitati dalla bomba biologica. Sembra che quasi tutto sia possibile in seno alla ricerca biomedica e forse sta per diventare vero quel che Diderot scrisse (1769) ne «II sogno di D'Alembert»

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prevedendo la «coltivazione artificiale» di embrioni umani. Il suo eroe vide «una stanza calda con il pavimento ingombro di piccoli vasi, ciascuno dei quali contrassegnato da un'etichetta: soldati, magistrati, filosofi, poeti, cortigiani in conserva, re in conserva....».

A questo punto l'etica della ricerca biomedica diventa etica della scienza che ha dato il primo segno di sé con la crisi di coscienza di alcuni fisici atomici i quali videro trasformarsi i frutti delle loro ricerche in strumento di distruzione.

Questa riflessione fece dire, nel 1955, a Wolfgang Pauli (il quale aveva fatto parte della famiglia degli scienziati atomici fin dall'inizio) che «la scienza dell'età moderna è stata finora animata dal superbo desiderio di dominare la natura....(ma) lo scienziato si è spaventato della sua somiglianza con Dio». In precedenza, il giorno 29 ottobre 1949 Fermi e Rabi (che pure avevano collaborato alla progettazione della bomba atomica) avevano diffuso un memorandum per opporsi al proseguimento delle ricerche dirette alla realizzazione della bomba termonucleare: «....essa è necessariamente qualcosa di cattivo, comunque la si consideri. Per questa ragione noi diciamo al Presidente degli Stati Uniti, all'opinione pubblica americana ed al mondo che per principi etici fondamentali consideria- mo un errore dare, noi scienziati, il via alla costruzione di una tale arma». (Jungk R., Gli apprendisti stregoni, storia degli scienziati atomici. Ed. Einaudi, Torino, 1958).

Nella ricerca biomedica, il codice etico è facilmente identificabile: così come unico scopo della Medicina deve essere quello di aiutare la salute individuale e collettiva, del pari la ricerca biomedica non deve sconvolgere l'equilibrio della natura bensì operare per rafforzarlo. E sorprende che i molto attivi movimenti ecologisti impegnati a combattere contro l'inquinamento dell'aria, del suolo e delle acque non si siano ancora accorti di un ben più grave pericolo: l'inquinamento della specie umana ad opera di una ricerca biomedica condotta da schiere di apprendisti stregoni i quali non conoscono o non ricordano quel passo della preghiera di Mosè Maimonide che dice. «Dio allontana da me l'idea che io possa tutto.

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