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Dr. Luigi Mastroroberto

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Academic year: 2022

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Dr. Luigi Mastroroberto

Consulente Medico centrale Unipol, Bologna

LA VALUTAZIONE DEL DANNO ALLA CAPACITA’ LAVORATIVA IN ASSENZA DI ELEMENTI DI DANNO PATRIMONIALE

DA LUCRO CESSANTE

La nota sentenza n. 184 del 1986 della Corte Costituzionale, fra le altre cose, ha sancito che la quantificazione economica del danno alla persona in ambito di responsabilità civile si articola su tre sole voci di danno risarcibile: il danno alla salute del leso, il danno patrimoniale (sia emergente che da lucro cessante) ed il danno morale (l’apprezzamento di tale ultima voce di danno esula dalla competenza medico legale e non riveste quindi alcun interesse ai fini delle seguenti considerazioni).

Il danno alla salute o “danno biologico” è l’essenza stessa del danno, in quanto rappresenta la compromissione dell’intero modo di essere della persona, cioè del suo stato di benessere nell’espletamento delle consuete attività sia lavorative, sia extralavorative e, in ultima analisi, delle sue facoltà di interagire con l’ambiente che lo circonda.

Nel danno biologico sono dunque compresi tutti quei danni cosiddetti “non reddituali” (alla vita di relazione, alla vita sessuale, alla efficienza estetica, alla gioia di vivere....e via elencando) elaborati in passato dalla Giurisprudenza con l’intento di risarcire quelle conseguenze dannose di un determinato evento colposo che un sistema imperniato su criteri rigidamente patrimonialistici non consentiva di riconoscere.

Il danno patrimoniale, invece, pur oggi risarcibile in maniera “autonoma” rispetto al danno biologico, è però ritenuto una entità solo “eventuale”, riconoscibile, secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti, unicamente nel caso in cui sia probabile che dal nocumento alla salute del leso discenda anche un nocumento al suo patrimonio.

Di fronte però a questa rigida impostazione concettuale, vi sono alcune situazioni che assai di frequente possono generare divergenze di interpretazione ed essere fonte di contenzioso.

Ed una di queste è certamente quella in cui, pur non essendo dimostrabile un lucro cessante in quanto il leso continua a produrre lo stesso reddito che produceva prima dell’evento colposo, ciò avviene a prezzo di una maggiore difficoltà rispetto a quanto il lavoro specifico richiederebbe, con conseguente maggior affaticamento ed impegno delle energie di riserva e più precoce usura. Si tratta in sostanza di quelle situazioni in cui pur, ripetiamo, non essendo dimostrabile un lucro cessante, vi è però una indubbia alterazione peggiorativa della “cenestesi lavorativa”.

Un giudizio su tale specifico parametro di danno, che ovviamente non può e non deve costituire una voce aggiuntiva a quelli che la dottrina e la giurisprudenza individuano, è senza dubbio un momento delicato e difficile per quanto riguarda sia la sua valutazione medico legale sia, conseguentemente, la sua monetizzazione.

E la difficoltà appare ancora maggiore nella prassi quotidiana.

Se infatti il Magistrato, che solitamente esamina il caso ad anni di distanza dal sinistro, può risolvere il problema ricorrendo ad un giudizio equitativo, magari invocato dallo stesso medico legale quando, come Consulente Tecnico d’Ufficio, lo informa della incidenza che la menomazione determina nei confronti di una dato profilo professionale, è chiaro che tale metodologia trova una assai più difficile applicazione nella fase di trattativa stragiudiziale che, ricordiamo, porta a soluzione risarcitoria la stragrande maggioranza delle vertenze in Responsabilità Civile.

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Sul piano concettuale e della tecnica valutativa appare dunque indispensabile tentare di individuare una metodologia idonea ad inquadrare l’aspetto valutativo inerente al pregiudizio della cenestesi lavorativa. E ciò sia per fornire al Magistrato, in caso di vertenza giudiziaria, utili elementi per la formulazione di un giudizio equitativo, sia, nella stessa fase del contenzioso, per uniformare l’operato di quei Consulenti Tecnici d’Ufficio i quali, spontaneamente o in risposta ad uno specifico quesito, forniscono oggi semplicemente un valore percentuale della riduzione della capacità lavorativa specifica, portando così troppe volte a monetizzazioni di danni patrimoniali inesistenti o comunque non corrispondenti alla realtà.

Una tale metodologia inoltre - forse a maggior ragione - si rivelerebbe poi indispensabile anche per orientare la trattativa nei casi che è possibile risolvere stragiudizialmente.

Lo scopo di questa metodologia, da applicare nei casi di reale pregiudizio della cenestesi lavorativa ma in assenza di lucro cessante dimostrabile, è quello di giungere ad una monetizzazione del danno che sia maggiore di quanto competerebbe in caso di danno biologico “puro”, ma evidentemente minore di quanto si otterrebbe nel caso di danno biologico si rendesse responsabile anche di un reale e dimostrabile lucro cessante.

Ponendoci dunque questo obiettivo, un esempio di procedimento tecnico-valutativo potrebbe essere il seguente (ipotesi formulata dal prof. Giancarlo Bruno):

La valutazione medico legale dovrebbe essere basata innanzitutto sulla individuazione di due differenti valori, il primo riferito alla alterazione della salute del leso nella sfera di vita extralavorativa, il secondo riferito alla alterata cenestesi lavorativa, ossia a quella modificazione dell’impegno psicofisico che la menomazione impone durante lo svolgimento della attività lavorativa.

Per questo secondo valore, alla ricerca più che altro di un parametro uniforme di quantificazione del pregiudizio, si potrebbe prendere a riferimento le percentuali di invalidità previste dalla normativa INAIL.

Procedendo quindi in tal modo e ponendo ad esempio il caso di un operaio dipendente che a seguito di un sinistro riporta alla fine una anchilosi della tibiotarsica ma che nonostante ciò non presenta un reale danno patrimoniale da lucro cessante, la duplice valutazione di cui sopra di diceva porterebbe a riconoscere un danno biologico

“puro” del 12% ed un danno alla cenestesi lavorativa del 20%.

Orbene, se si considera che nella vita ordinaria di un soggetto come quello preso ad esempio circa 1800-2500 ore/anno sono dedicate alle occupazioni lavorative (8-10 ore/dì per 225 giorni all’anno) e che le restanti 3600-4040 ore /anno (con esclusione quindi delle ore dedicate al riposo notturno) rappresentano la quantificazione orientativa del tempo dedicato alle attività extralavorative, ne consegue che all’incirca il 30-38%

della vita dell’individuo riguarda il suo impegno professionale, mentre il restante 62- 70% interessa le altre sue occupazioni.

Partendo da questi presupposti risulta dunque che per la maggior parte dei casi circa 2/3 della vita attiva del leso sono interessati dal cosiddetto danno biologico “puro”, mentre la restante frazione attiene il danno alla cenestesi lavorativa.

Riprendendo l’esempio precedente, si giungerebbe allora la seguente calcolo:

vita extralavorativa: danno biologico 12% x 2 = 24 alterata cenestesi lavorativa: 20% x 1 = 20

danno biologico ponderato: 44 : 3 = 15%

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Ovviamente questo modo di procedere finalizzato alla valutazione del danno biologico ponderato, utilizzabile solo nei casi in cui non vi siano dubbi sul fatto che nel corso del lavoro il danno sia più invalidante di quello presente nelle ore extralavorative, deve essere applicato con criterio logico che tenga conto delle possibili variabili che caratterizzano ogni caso.

Alcuni altri esempi possono meglio chiarire il concetto:

a) la amputazione della f.u. del pollice dx, che comporta il riconoscimento di un danno biologico del 10% in un insegnante di Lettere o in un custode, viene ad essere valutata al 13% in un operaio falegname in base al seguente calcolo:

vita extralavorativa: danno biologico 10% x 2 = 20

alterata cenestesi lavorativa: 15% x 1 = 15 danno biologico ponderato: 35 : 3 = 13%

b) la pseudoartrosi serrata di radio-ulna dx in avvocato o in un impiegato amministrativo porta ad una valutazione del 20%, che sale al 25% nel caso di commerciante di frutta e verdura, per il quale si può ritenere che le ore di lavoro superino quelle di uno stipendiato, raggiungendo circa la metà delle ore/anno. In questo caso il calcolo viene ad essere:

vita extralavorativa: danno biologico 20% x 1 = 20 alterata cenestesi lavorativa: 30% x 1 = 30

danno biologico ponderato: 50 : 2 = 25%

c) la patellectomia è valutata al 15% in un dirigente o in un ecclesiastico, mentre un coltivatore diretto può essere elevato al 22-23%. Infatti in questa situazione non solo la durata dell’attività lavorativo impegna circa la metà delle ore di veglia, ma nel corso della stessa l’utilizzo dell’arto inferiore è particolarmente gravoso (guida disagevole di trattori, deambulazione prolungata su terreno accidentato, protratta stazione eretta, frequente necessità di spostare pesi), per cui il 25% riferito alla tabellazione INAIL, può essere considerato restrittivo, e quindi dovrebbe essere elevato al 30%.

In questo caso il calcolo viene ad essere:

vita extralavorativa: danno biologico 15% x 1 = 15 alterata cenestesi lavorativa: 30% x 1 = 30

danno biologico ponderato: 45 : 2 = 22-23%

In sostanza quindi, calando questa metodologia di calcolo nella prassi valutativa, sia essa giudiziale, sia essa stragiudiziale, nei casi in cui vi sia un danno biologico (evidentemente di entità non trascurabile) che determini una alterazione della cenestesi lavorativa, ma che non si renda per questo responsabile di un danno patrimoniale da lucro cessante, potrebbe essere sufficiente concludere il giudizio fornendo le seguenti, semplici, indicazioni:

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alle lesioni iniziali sono residuati i postumi permanenti, che determinano il riconoscimento del danno biologico:

- dell’X% nel corso della vita extralavorativa che occupa i 2/3 ( o altro) della vita attiva del soggetto

- dell’X% nel corso delle ore dedicate alle occupazioni professionali, che rappresentano 1/3 ( o altro) della vita attiva, dal momento che i postumi hanno caratteristiche tali da alterare la cenestesi lavorativa del soggetto leso, senza però ripercuotersi negativamente sulla sua capacità di produrre reddito.

Un altro possibile metodo per valutare il pregiudizio alla cenestesi lavorativa è ipotizzabile prospettando l’aumento del valore economico del punto di danno biologico, di modo che lo stesso valga di più in caso ricorra il citato pregiudizio (ipotesi del prof.

Alessandro Chini.)

Così se diamo un’ipotetica quantificazione di 2000 al valore di un punto

“puramente” biologico questo, qualora ricorra danno alla cenestesi lavorativa, deve aumentare il suo significato economico partendo da tale base ( per esempio 2001) per giungere ad un limite massimo ( con un incremento ad esempio ipotizzabile come la metà del valore economico di un punto e quindi, nella specie, 1000), il quale, per ovvie ragioni, deve comunque sempre rimanere inferiore a quell’apprezzamento economico che deriverebbe all’infortunato se allo stesso venisse riconosciuto un reale pregiudizio alla capacità reddituale.

Una volta riconosciuto il diritto del periziando ad usufruire di questo incremento del valore punto perché si è ritenuto che lo stesso abbia un pregiudizio lavorativo non reddituale, bisognerà poi determinare quale valore dovrà essere riconosciuto a tale incremento (ovviamente ciò vale soltanto per menomazioni di una significativa rilevanza e non anche per quel danno cenestesico, del tutto aleatorio, che potrebbe fare da corollario ad un danno biologico di contenuta rilevanza).

In altre parole, nel momento in cui si evidenzia un danno lavorativo non reddituale, si riconosce al paziente la possibilità di accedere ad una sopravvalutazione del valore economico del punto del danno biologico; la quantificazione di tale surplus, diciamo anche di tale bonus, (contenuto come detto tra il valore base del danno biologico e la metà del valore punto dello stesso) deve essere vincolata alla globale percentuale di danno biologico.

Ciò non solo gradua il cursore sulla più solida delle scale possibili ma, similmente a ciò che avviene per la quantificazione economica del valore punto del danno biologico, si inscrive nel solco della giustizia distributiva che nello specifico si à già realizzata assegnando un valore economico minore ai procenti delle cosiddette micropermanenti onde rendere invece più consistente il corrispettivo monetario dei punti percentuali indicanti le gravi lesioni, seriamente pregiudizievoli del benessere psicofisico.

In tale ottica noi crediamo che la crescita a scalino della quantificazione economica non giovi certamente alla serena determinazione peritale dei valori percentuali di confine tra le varie fasce e, da un punto di vista naturalistico, non si può accettare la sperequazione prevedibilmente esistente a cavallo di un determinato procento di invalidità con il suo corrispondente economico anche nell’apprezzamento della cenestesi lavorativa.

La quantificazione economica di un pregiudizio alla cenestesi lavorativa non deve quindi procedere a scatti, semmai in modo lineare il che renderebbe ragione anche di un metodo pratico di facile attuazione laddove un danno biologico ad esempio del 15% con

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incidenza sul parametro valutativo in oggetto, significherebbe un incremento del valore punto pari al 15% del possibile bonus economico legato al ricorrere del danno alla cenestesi lavorativa.

Parimenti, se il danno biologico è del 25% si pagherà il normale valore punto se non vi è incidenza sulla cenestesi lavorativa, altrimenti il valore punto avrà un incremento del 25% del possibile ristoro globale legato a questo parametro.

Tale pura interpretazione lineare, sebbene migliore del metodo a scalini, presenterebbe però ancora delle incongruenze in parte economiche ed in parte biologiche, dato che da una parte vi sarebbe il verificarsi di un incremento economico ad intervalli analoghi di danno biologico anche per menomazioni a tipo micropermanente, e dall’altro non si arriverebbe mai al 100% del potenziale incremento per danno alla cenestesi lavorativa, essendo evidente, per così elevati valori di anno biologico, la impossibilità che il danno non si correli ad un lucro cessante.

Ecco quindi l’importanza di arrivare a definire il tutto secondo una linea diversa che non gratifichi le micropermanenti ( e quindi) la percentuale di bonus legata alla cenestesi lavorativa) ma che concretizzi il diritto all’integrità risarcitoria dell’indicato bonus per percentuali di danno biologico già oscillanti intorno al 30%.

Si può quindi ipotizzare una linea che distribuisca il bonus derivante dalla cenestesi lavorativa in modo da non prevedere incidenza sulla medesima per danno biologici inferiori al 10%, mantenere contenuto il sovrapprezzo del punto per le permanenti del 10-15%, concedere un incremento più significativo tra il 20 ed il 25% onde poi giungere alla sua totalità per importanti percentuali di danno biologico ( 30%).

D’altro canto ipotizzare danni biologici inferiori al 10% con ripercussioni sulla cenestesi lavorativa o di contro danni biologici maggiori del 30% senza ripercussione cenestica ci pare forse possibile ma certamente di assai difficile riscontro pratico.

Rifacendosi all’esempio già proposto, noi riteniamo che qualora il bonus della cenestesi sia pari ad un valore di 1000 la quota parte di questo da usufruire andando ad aumentare il valore punto sia da riferirsi all’entità del danno biologico di base con una distribuzione la quale preveda che, per un danno biologico del 15% con incidenza sulla cenestesi lavorativa, il valore economico di ogni punto debba essere aumentato del 20%

del bonus previsto per il ricorrere della descritta fattispecie, mentre, qualora un danno biologico del 25% abbia un’incidenza sulla cenestesi lavorativa, il valore economico di ogni suo punto deve essere aumentato dell’80% del bonus previsto, con un ulteriore progressivo incremento del valore punto, sino al completo usofrutto del bonus, per danni biologici del 30%.

Ne consegue che, secondo il precedente esempio, dato 2000 il valore di ogni punto di danno biologico e dato 1000 il bonus complessivo della cenestesi lavorativa, nel primo caso si sommerà il 20% di 1000 al 2000 del valore punto che così diventerà 2200 e nel secondo l’80% per cui il valore di ogni singolo punto sarà 2800.

Riteniamo sia ovvio evidenziare come la precisa identificazione dei valore numerici sulla base dei quali si debba disegnare la curva distributiva in oggetto richiede l’ausilio tecnico di statistici ed attuariali ma , da parte nostra, desideravamo proporre un metodo valutativo in grado di far convivere importanti necessità applicative con quei presupposti dottrinari e fisiopatologici che sempre debbono informare la nostra attività medico legale.

La terza ipotesi, già peraltro presa in considerazione da recenti pronunce giurisprudenziali e che tiene conto delle necessità pratiche sollevate dalle note sentenze della Corte Costituzionale in tema di diritto di surroga degli enti previdenziali sul danno biologico, viene formulata dal Dott. Claudio Lorenzi.

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In sostanza detta ipotesi, riassumendo in essa quanto già prospettato nelle due precedenti, ma articolandosi su di un criterio pratico di semplice applicazione, propone, ovviamente nei soli casi di concreta interferenza del danno biologico sulla cenestesi lavorativa nei quali non ricorrano però gli estremi per riconoscere un danno patrimoniale da lucro cessante, di assegnare ad un terzo del valore del danno biologico

“puro” individuato una monetizzazione differenziata, calcolata col criterio del cosiddetto “punto pesante”.

Gruppo di Studio Consulenti Medici Centrali di Imprese Assicuratrici Il documento è stato discusso e sottoscritto dai seguenti professionisti:

Dott. G. Avolio, Prof. G. Bruno, Prof. L. Cattinelli, Prof. A. Chini, Prof. De Ritis, Dott. E. Galizio, Dott. Grassi, Dott. M. Lazazzera, Dott. C. Lorenzi, Dott. G. Maltoni, Dott. . Martelli, Dott. F. Massaria, Dott. L. Mastroroberto, Prof. L. Palmieri, Dott. G.

Persich, Dott. D. Ruggeri, Dott. G. Traverso, Dott. V. Tripodi, Dott. A. Vincenti

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