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La trattazione nel processo di classe - Judicium

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Academic year: 2022

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MAURO BOVE

La trattazione nel processo di classe

SOMMARIO: 1. La struttura bifasica del processo di classe. – 2. Il principio della deformalizzazione. – 3. Allegazioni e rilievo delle questioni. – 4. Attività istruttoria. – 5. I tempi del gioco processuale.

1. La struttura bifasica del processo di classe.

Il comma 5 dell’art. 140-bis cod. cons. stabilisce che l’azione di classe si esercita proponendo una domanda secondo la tecnica dell’atto di citazione, da notificare, oltre che ovviamente al professionista che sarà convenuto, anche al pubblico ministero presso il tribunale adito, che può intervenire limitatamente al giudizio di ammissibilità.

Già da questa disposizione emerge la peculiarità della fase introduttiva del processo di classe, che, se può richiamare il rito di cui agli articoli 163 ss. c.p.c. per il fatto che la domanda si propone con la notifica di un atto di citazione, immediatamente, però, mostra di discostarsene nel momento in cui pone al centro di detta fase introduttiva il giudizio di ammissibilità della domanda, disciplinato poi dai commi successivi.

Senza indugiare sui contenuti, sulla disciplina e sui possibili esiti di detto giudizio di ammissibilità, cosa che non rientra nel nostro compito presente, a noi basti qui rilevare come la stessa disciplina della fase introduttiva del processo di classe, anche in ciò che la legge non dice espressamente, non possa che essere condizionata dal fatto che qui si debba passare da un preliminare vaglio di ammissibilità della domanda. Invero, se così è, evidentemente, posta al più la possibilità di far valere anche nel processo di classe i termini a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., per il resto è improbabile che si possano richiamare altre disposizioni che valgono nell’ambito del processo da svolgere secondo il rito ordinario.

Già il contenuto della domanda, proposta con la notifica dell’atto di citazione, deve necessariamente presentare delle peculiarità. Essa, se deve individuare l’oggetto del processo, nei limiti del possibile, visto che detto oggetto non può che delinearsi “strada facendo” nel seguito delle adesioni, è anche l’atto con cui chi agisce si propone come attore di classe, per cui ben si dovrà qui affermare, non solo il diritto individuale dell’attore, ma anche la plurioffensività dell’illecito e il conseguente insorgere di una pluralità di diritti dei consumatori in ipotesi titolari di pretese omogenee tra loro, oltre a far emergere la non manifesta infondatezza della domanda e l’idoneità dell’attore a tutelare gli interessi della classe. Ciò perché il primo scoglio da superare sta appunto nel vaglio di ammissibilità della domanda, posto che il processo instaurato come processo di classe

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www.judicium.it o va avanti come tale o si chiude in rito, non potendo certo esso proseguire per la tutela del solo diritto individuale dell’attore.

Ma, allora, anche la comparsa di risposta del convenuto, per un verso, e la prima udienza di cui parla il comma 6 dell’art. 140-bis, per altro verso, hanno solo alla lontana qualcosa a che fare con gli articoli 167 e 183 c.p.c.

Se la prima udienza nell’ambito del processo ordinario è dedicata alla trattazione nel merito della causa, la prima udienza nell’ambito del processo di classe è dedicata piuttosto al giudizio di ammissibilità della domanda. Solo dopo il vaglio positivo dell’ammissibilità della domanda si tratterà il merito del processo.

Se, poi, ai sensi dell’art. 167 c.p.c. nell’ambito del rito ordinario il convenuto deve svolgere nella comparsa di risposta certe attività a pena di decadenza, può essere assai dubbio che lo stesso valga anche nel processo di classe. Oltretutto, anche a voler richiamare qui l’art. 167 c.p.c., esso potrebbe valere comunque in modo limitato a ciò che nel momento in cui il convenuto deve depositare la comparsa di risposta egli può concretamente fare. Invero, se, al più, egli potrebbero essere onerato della necessità di spendere eccezioni in senso stretto in relazione ai diritti già fatti valere in giudizio, lo stesso non può ripetersi in relazione ai diritti che emergeranno solo successivamente a seguito delle adesioni. Mentre, ammettendo la chiamata in causa di un terzo ai sensi dell’art. 106 c.p.c.1, cosa certamente ragionevole se la chiamata ha una valenza comune, come accade quando il professionista indica un terzo quale vero obbligato, ma direi inevitabile anche quando si tratti di una chiamata in garanzia, a condizione che la si limiti nel senso che il presunto garante possa essere coinvolto nel processo di classe al solo fine di opporgli il giudicato, senza poter proporre la domanda di garanzia2, si potrebbe discutere sul se per essa il convenuto debba

1 In senso affermativo si è espresso il tribunale di Napoli, per il quale vedi riferimenti e commenti in MENCHINI, I primi provvedimenti relativi all’azione di classe dell’art. 140-bis cod. consumo, in www.judicium.it, § 1.

2 Negano l’ammissibilità nel processo di classe di una chiamata ai sensi del’art. 106 c.p.c. COSTANTINO, CONSOLO, Prime pronunce e qualche punto fermo sull’azione risarcitoria di classe, in Corr. Giur. 2010, 985 ss., spec. 989-990, perché una complicazione nel processo di classe non sarebbe gestibile a causa della diversità dei riti e perché così ha voluto il legislatore vietando l’intervento ai sensi dell’art. 105 c.p.c. Ma, per la chiamata del vero obbligato non dovrebbero esserci problemi, perché la causa alternativa sarebbe pur sempre “di classe” e perché comunque, se la si negasse, si attenuerebbero le potenzialità difensive dell’interessato alla chiamata, in quanto il giudicato non sarebbe poi opponibile al c.d. vero obbligato rimasto terzo rispetto al processo. Non si può obiettare che a ciò si opporrebbe il divieto d’intervento ai sensi anche del secondo comma dell’art. 105 c.p.c, perché detto divieto è palesemente incostituzionale nella misura in cui impedisce l’intervento adesivo anche di colui che comunque è soggetto al giudicato altrui. Quanto alla chiamata in garanzia, ancora non mi sembra che si possa diminuire le potenzialità difensive di colui che è interessato alla chiamata. Piuttosto, mi sembra che la chiamata non possa andare oltre la pretesa di assoggettare all’efficacia del giudicato il chiamato, perché la causa di garanzia in se fuorisce dall’ambito di applicazione dell’art. 140-bis cod. cons., per cui ad essa dovrebbe applicarsi il rito ordinario con complicazioni insormontabili. Invero, se non è pensabile che il simultaneo processo possa seguire riti diversi per le diverse cause in

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www.judicium.it attivarsi immediatamente ai sensi appunto dell’art. 167 c.p.c. oppure se, al contrario, non valendo qui la preclusione di cui al citato art. 167 c.p.c., il convenuto possa attivarsi anche in un momento successivo, fondandosi su una certa deformalizzazione del processo di classe come emerge dal comma 11 dell’art. 140-bis cod. cons.

Fermo restando che, vista la scarsa precisione del dato normativo, in astratto si potrebbero sostenere entrambe le soluzioni, un argomento a favore della soluzione più rigida sta nella considerazione che anche l’eventuale domanda dell’attore nei confronti del vero obbligato dovrebbe passare il vaglio di ammissibilità3. Ma ad esso si potrebbe obiettare, per un verso, che lo stesso vaglio non sembra certo necessario anche nell’eventualità della chiamata in garanzia, che in ogni caso, anche se si dovesse ammettere una sua innovatività sull’oggetto del processo, eventualità qui negata4, avrebbe ad oggetto una domanda (quella di garanzia) tra il professionista ed il terzo che certo non richiede alcun vaglio di ammissibilità, e, per altro verso, che la chiamata in sé, anche quella fondata sulla c.d. contestazione della legittimazione passiva, non comporta un automatico

“accrescimento” dell’oggetto del processo, potendosi la sua valenza limitare al solo fine di allargare l’efficacia del giudicato al terzo chiamato5. Solo se l’attore decide di proporre una domanda anche nei confronti del terzo chiamato si porrà il problema della ammissibilità, problema, però, a quel punto di difficoltà assai inferiore a quella originaria, perché, se l’originaria domanda è stata ammessa, è difficile che non lo sia anche quella successiva ed alternativa nei confronti del chiamato.

Da quanto detto emerge la peculiarità del processo bifasico. Nella prima fase introduttiva, pur fissato l’oggetto del processo, ancorché in modo non definitivo, l’obiettivo sta nel passare positivamente il vaglio di ammissibilità della domanda. Solo a seguito di questo passaggio,

esso cumulate, qui non è neanche pensabile che, applicando l’art. 40 c.p.c., il rito ordinario “attragga” il rito speciale, perché evidentemente la “specialità” del processo di classe è intrinsecamente legata alla sua complessità. Né è pensabile che la causa di garanzia sia trattabile in termini deformalizzati a causa della sua convivenza con l’azione di classe.

3 Argomento utilizzato da MENCHINI, op. cit., il quale rileva come sarebbe contrario al principio della ragionevole durata del processo immaginare una chiamata successiva con successiva domanda alternativa dell’attore, che finirebbe per ritardare il corso del processo al fine di svolgere il vaglio di ammissibilità. Per giustificare l’applicabilità della preclusione di cui all’art. 167 c.p.c., l’autore rileva anche come il terzo chiamato sia interessato a partecipare alla fase dedicata al giudizio di ammissibilità. Ma francamente non mi sembra che un simile, ipotetico, interesse possa essere tale da giustificare l’imposizione al convenuto di un onere a pena di decadenza, difficilmente ricostruibile sulla base delle norme.

4 Vedi nota 2, nella quale abbiamo riferito le ragioni che ci spingono ad ammettere qui solo una chiamata in garanzia non innovativa.

5 Anche se non sempre la giurisprudenza comprende questa ridotta valenza della chiamata.

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www.judicium.it ovviamente se viene ammessa la domanda, si apre la fase propriamente dedicata al merito del processo, quindi alla trattazione ed eventualmente all’istruzione della causa.

Ciò è direi scolpito nel comma 11 dell’art. 140-bis cod. cons., il quale così recita: “Con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale determina altresì il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o successiva ordinanza, modificabile o revocabile in ogni tempo, il tribunale prescrive le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione delle prove o argomenti; onera le parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti; regola nel modo che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”. Norma questa non del tutto chiara neanche nel suo quasi totale affidarsi alla discrezionalità del giudice nel porre le regole della procedura, nel momento in cui non si capisce bene quanto il giudice debba dire nella prima ordinanza, quella con cui ammette la domanda, e quanto invece egli possa anche rinviare ad un’ordinanza successiva.

La verità è, o così a me sembra, che anche in questo aspetto, fermo restando il rispetto del diritto di azione e di difesa delle parti, il giudice può scegliere. Egli nell’ordinanza di ammissione della domanda, oltre alle disposizioni di cui al comma 9 dell’art. 140-bis, può limitarsi a fissare un’udienza per la successiva prosecuzione del processo, fermo restando che poi a quella udienza assumerà altre determinazione in ordine al prosieguo del processo6, oppure egli in quella stessa ordinanza può fare di più: può fissare il corso della procedura, può prescrivere le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione delle prove o argomenti, onerando le parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti, può regolare nel modo che ritiene opportuno l’istruzione probatoria, può disciplinare in genere ogni questione di rito, quindi ogni questione attinente al processo. Fermo restando, comunque, che tutto questo lavoro d’individuazione del “come procedere” resta, se così si può dire, un lavoro in progress, perché ogni determinazione è rivedibile, posto che l’ordinanza o le ordinanze con cui il giudice determina il corso della procedura è ovvero sono modificabili e revocabili.

2. Il principio della deformalizzazione.

Ammessa la domanda e chiusa la successiva fase delle adesioni, il processo di classe ha a questo punto individuato il suo oggetto, che sta nella pluralità dei diritti degli aderenti7. Da questo

6 Così MOTTO, in MENCHINI, MOTTO, Art. 140bis, in www.judicium.it, § 11.

7 Non ci occupiamo del caso spinoso in cui, a seguito dell’ammissione della domanda, non vi siano state adesioni, caso patologico e forse astratto, ma che pur può verificarsi. In una simile eventualità le soluzioni oscillano. O si ritiene che il processo di classe debba chiudersi in rito, con una rinnovata valutazione di ammissibilità della domanda, essendosi in concreto l’attore di classe rivelato inidoneo, avendo egli subito una vera e propria bocciatura da parte del mercato.

Oppure si ritiene che esso debba procedere, ma con un oggetto modificato, ossia trattandosi a questo punto del solo

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www.judicium.it momento in poi si apre la fase della trattazione-istruzione nel merito, la fase in cui l’attenzione si sposterà sulle allegazioni dei fatti rilevanti, oltre a quelli già allegati per individuare i diritti fatti valere8, devono rilevarsi le eccezioni di merito, insomma spendersi i vari mezzi di attacco e di difesa, oltre a produrre prove precostituite e chiedere l’assunzione di mezzi di prova in ordine ai fatti rilevanti.

Questa attività è disciplinata nel processo ordinario dalle norme del codice di procedura civile, le quali stabiliscono quali sono i poteri processuali delle parti e del giudice in ordine alle allegazioni, al rilievo delle questioni ed alle iniziative istruttorie, ed inoltre stabiliscono tempi e modi per esercitarli. Nel processo di classe, invece, il già citato comma 11 dell’art. 140-bis cod.

cons. si affida al potere discrezionale del giudice, senza predeterminare quei poteri né le modalità ed i tempi del loro esercizio. La regola del procedere non è predefinita dalla legge, ma va trovata caso per caso nel processo ad opera del giudice, al quale il legislatore fornisce solo due indicazioni.

La prima attiene all’obiettivo, che sta nell’assicurare l’equa, efficace e sollecita gestione del processo, che fra l’altro si risolve, a detta della stessa norma, nella necessità di evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti. La seconda attiene ad un requisito strutturale imprescindibile, visti gli artt. 3, 24 e 111, 2° comma, Cost., che sta nel rispetto del principio del contraddittorio, che consiste nella necessità di assicurare alle parti, attore di classe e professionista9, il diritto di essere ascoltate, ovvero di interloquire al fine di influenzare quello che sarà il contenuto della decisione finale, e ciò su un piano di parità tra esse e tra esse ed il giudice10.

accertamento della questione di comune rilevanza, che sta nell’accertamento dell’illecito e della sua imputabilità al professionista convenuto, scontando però in tal caso il fatto che l’unica azione di classe esercitabile per una certa vicenda sia gestita da chi non ha avuto alcun seguito tra i consumatori potenzialmente coinvolti.

8 Sia l’attore di classe sia gli aderenti hanno a questo punto già allegato i fatti individuatori dei diritti fatti valere. Ogni allegazione successiva non potrà incidere su di essi, perché, se nella fase successiva a quella introduttiva è possibile allegare ogni fatto, non è però possibile mutare l’oggetto del processo, ossia, in altri termini, fare domande nuove.

9 Non quindi gli aderenti, che non possono esercitare poteri processuali, salvo quelli inerenti all’esercizio dell’azione:

l’impugnazione del provvedimento del giudice che rifiuta l’adesione e, dopo l’adesione, la sua eventuale revoca, che emerge come una rinuncia alla domanda, che deve essere accettata dal convenuto nei limiti di cui all’art. 306 c.p.c.

10 Si aggiunga anche che l’atipicità della trattazione non implica certo una diminuzione del principio di terzietà del giudice, da cui deriva, fra l’altro, il principio della domanda. Se, quindi, riprendendo quanto riferito nella precedente nota 7, si ritiene che il processo di classe possa, in certe situazioni (quando non ci sono adesioni o quando emerge una serie di questioni individuali che rendano ingestibile il processo di classe), mutare il suo oggetto “naturale” (la richiesta di una tutela di condanna in favore di una pluralità di diritti individuali) nell’accertamento dell’illecito e della sua imputabilità al professionista convenuto, una simile affermazione non potrebbe essere giustificata dalla detta atipicità, che gioca su tutt’altro piano e comunque non potrebbe mettere in discussione principi di ordine pubblico processuale. Piuttosto, pare potersi dire che il citato mutamento dell’oggetto sembrerebbe giustificarsi in quanto il giudice si limiterebbe solo a fornire all’attore collettivo un minus, e non certo un aliud, rispetto alla tutela che si voleva

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www.judicium.it Di fronte ad un impianto processuale così “leggero” la prima ed immediata domanda che emerge agli occhi dell’interprete è la seguente: è questa disposizione compatibile con l’art. 111, 1°

comma, Cost., che prevede che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo “regolato dalla legge”?

È noto come anche alla luce di questo disposto costituzionale sia diffusa l’idea per cui non si può giungere all’accertamento dei diritti con una sentenza che abbia l’efficacia della cosa giudicata (sostanziale) se non sia prevista a monte la possibilità di svolgere almeno un grado di giudizio a cognizione piena. Ed è altresì noto come, da questo punto di vista, il concetto di “cognizione piena”

si identifichi con un processo nel cui ambito le regole dell’esercizio del potere giurisdizionale siano predefinite dal legislatore e non “trovate” caso per caso dal giudice. Ciò, si dice, rappresenta una fondamentale garanzia del cittadino di fronte al potere statale, perché la procedimentalizzazione dell’esercizio del potere rende prevedibile appunto il modo in cui il singolo deve aspettarsi di subire la sua soggezione al potere.

Ebbene, è evidente come il citato comma 11 dell’art. 140-bis cod. cons. contraddica questa idea di fondo. Ma a me sembra inevitabile che un processo nel cui ambito si prevede la massima complicazione oggettiva possibile, potendosi in esso discutere di migliaia o forse di milioni di diritti individuali, si debbano adottare misure del tutto peculiari, che magari non sarebbero immaginabili in altri contesti. Così accade che nel processo di classe i titolari dei diritti in gioco non abbiano poteri processuali da spendere, affidandosi essi al solo gioco processuale dell’attore di classe. Ed accade anche che non tutte le attività che in un normale processo sarebbero concepibili sono ripetibili pure nel processo di classe. Si pensi all’impedimento esplicito degli interventi di cui all’art. 105 c.p.c. Ma si pensi anche all’impedimento, non esplicito ma inevitabile, di domande riconvenzionali che non abbiano una valenza comune11.

in origine perseguire. Del resto, l’alternativa a questa soluzione, starebbe nel rigetto in rito della domanda, per il sopraggiungere di situazioni che rendono impossibile la concessione del tipo di tutela che si pretendeva.

11 Ma vedi in senso contrario GIUSSANI, Il nuovo art. 140 bis c. cons., in Riv. dir. Proc. 2010, 595 ss., spec. 607, il quale ritiene ammissibile la domanda riconvenzionale del convenuto sia nei confronti del proponente sia nei confronti degli aderenti, con l’unica avvertenza in quest’ultimo caso che la domanda debba essere notificata ai sensi dell’art. 292 c.p.c. A me francamente una simile scelta non pare ragionevole, perché essa sarebbe fonte di grandi complicazioni che, peraltro, mi sembra il legislatore abbia voluto evitare nell’impedire gli interventi. Insomma, a me sembra che la logica delle cose e l’impianto della legge consentano solo quelle attività attinenti alla azione di classe e che non possono essere impedite se non si vuole vulnerare il diritto di difesa. Via libera allora alla chiamata ai sensi dell’art.

106 c.p.c., che fonda la sua ratio proprio su esigenze difensive. Ma, per il resto, bisogna essere rigidi nell’evitare ulteriori complicazioni, soggettive e oggettive, di un processo che già nasce complicato. Non si possono porre limiti, invece, per il rilievo delle eccezioni, proprio in virtù del rispetto del diritto di difesa del convenuto. Altro è che, a seguito di queste attività, emergano troppe questioni individuali che possano rendere difficile il proseguimento del processo. Qui si apre ancora l’alternativa: o il processo di classe si chiude in rito, perché a posteriori emerge una non omogeneità dei diritti individuali o si procede, ma solo per un accertamento della questione comune, trasformandosi

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www.judicium.it E così accade anche per la disciplina del “come” debba svolgersi la trattazione-istruzione.

Invero qui, ancorché gli aderenti non spendano poteri processuali, tuttavia il processo si occupa pur sempre dei loro diritti, in riferimento ai quali, potendo trattarsi di migliaia o milioni di pretese, possono emergere numerose questioni ed istanze istruttorie, che vanno in qualche modo gestite, senza che il legislatore possa avere la capacità di prevedere le varie situazioni immaginabili. Ecco perché era ragionevole e forse inevitabile che il legislatore si affidasse al giudice, caso per caso, con l’ovvia e imprescindibile esigenza di salvaguardare il valore fondamentale che fa di un processo un

“giusto” processo: il principio del contraddittorio.

Il primo strumento per rispettare detto principio è assicurare alle parti la conoscenza delle regole dello svolgimento del processo. Ecco perché la legge prevede la possibilità per il giudice di fissarle già con l’ordinanza di ammissione della domanda. È possibile, però, che questo accada dopo o anche dopo, nel senso che il giudice sia portato a rivedere sue precedenti determinazioni;

l’importante è che le parti abbiano una previa conoscenza delle regole per poter in concreto svolgere le loro attività, senza che sia vulnerato il diritto ad allegare e provare, in modo pieno e paritario.

Insomma, il principio di economia processuale, che traduce il principio costituzionale per cui il processo deve avere una ragionevole durata (art. 111, 2° comma, ult. inciso, Cost.), che implica la necessità di utilizzare forze adeguate all’obiettivo, può consentire o addirittura imporre al legislatore di allentare le maglie delle ordinarie previsioni processuali per affidarsi al case management del giudice. Nel sistema della giustizia civile questa opzione è consentita quando la causa è, nella concretezza del caso specifico, semplice, soprattutto nei suoi aspetti istruttori: a ciò provvedono gli articoli 702-bis seg. c.p.c., che disciplinano una procedura eventuale, da adottare, nell’ambito delle controversie per le quali il tribunale giudica in composizione monocratica, sulla base della scelta dell’attore con il beneplacito del giudice, il quale fa appunto la valutazione nel caso concreto in ordine a quella semplicità. La stessa opzione è invece imposta dalla logica delle cose quando il processo è talmente complesso da non poter essere calato nei binari dell’ordinario: a ciò provvede il comma 11 dell’art. 140-bis cod. cons. per il processo di classe, che rappresenta il massimo della complessità immaginabile, almeno in astratto, per un processo civile, ossia un processo che deve essere adatto ad occuparsi della tutela di migliaia o milioni di diritti individuali omogenei.

Ma, se è vero che qui ci troviamo, se così possiamo dire, in balia del giudice, è anche vero che pure il potere discrezionale del giudice ha i suoi limiti, dati, oltre che dalla necessità già rilevata di osservare il principio del contraddittorio in funzione dell’obiettivo di garantire una gestione equa, efficace e sollecita del processo, dal fatto che comunque ci troviamo di fronte ad un processo in cui l’oggetto del processo di classe, che non porrà più capo ad una sentenza di condanna a favore dei singoli consumatori, ma giungerà solo all’accertamento dell’illecito e della sua imputabilità al professionista.

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www.judicium.it si tutelano diritti soggettivi, che vanno accertati con forza di giudicato. Ciò significa certamente che il giudice deve dare alle parti termini idonei per allegare i fatti rilevanti, per rilevare le questioni sulla loro base e, quindi, per allegare prove precostituite ovvero effettuare istanze istruttorie al fine dell’assunzione di prove costituende. Insomma, se si tratta di accertare con forza di giudicato dei diritti, è necessario dare alle parti l’opportunità di allegare e provare tutti i fatti potenzialmente rilevanti (costitutivi, estintivi, modificativi ed impeditivi)12. Il giudizio non può accontentarsi della verosimiglianza di quei fatti né tantomeno il processo può limitarsi ad accertare solo una parte della fattispecie. Ed anche sempre si tratterà, alla fine del gioco, di giudicare in base alla regola dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.13.

In definitiva, il principio di deformalizzazione non implica qui, a differenza di quanto avviene ad esempio nel processo cautelare, la possibilità di allegare e provare “meno” di quello che sarebbe necessario allegare e provare in un ordinario processo di cognizione: bisogna sempre occuparsi, potenzialmente, dell’intera fattispecie dei diritti in gioco e su di essi il giudice deve farsi un convincimento pieno, non potendosi accontentare di un giudizio di probabilità o addirittura di mera verosimiglianza. Ciò, si ripete, per il semplice fatto che comunque il processo in questione giunge e deve giungere ad un accertamento con forza di giudicato in ordine ai diritti fatti valere.

3. Allegazioni e rilievo delle questioni.

Delineato nella fase introduttiva l’oggetto del processo, si tratta, dopo l’ammissione della domanda, di individuare l’oggetto della cognizione del giudice, ovvero su quali mezzi di attacco e

12 Riprendendo un accenno già fatto, se nel processo di classe è possibile limitare le attività che allargano l’oggetto del processo oltre quella che è la “causa comune”, inibendo domande riconvenzionali o interventi di terzi, non è però pensabile che ad esempio al professionista convenuto sia impedito il rilievo di qualche eccezione, attinente a fatti impeditivi, modificativi od estintivi, anche se questi possono rivelarsi come fondanti questioni personali, ossia inerenti solo a singoli diritti, quindi questioni non comuni.

13 Su questi aspetti cfr. MOTTO, op. cit., §14, il quale trae dall’assunto di base le seguenti regole applicative: «a) devono essere assegnati alle parti termini per l’allegazione dei fatti e per la proposizione di eccezioni, ed a ciascuna deve essere assicurato il diritto di replica rispetto alle allegazioni compiute da controparte; b) alle parti devono essere concessi termini per le richieste istruttorie e per le produzioni documentali concernenti i fatti rilevanti e bisognosi di prova, garantendo a ciascuna il diritto di prova contraria; c) il giudice può chiudere l’istruttoria solo allorché siano stati assunti tutti i mezzi di prova rilevanti richiesti, oppure allorché risulti superflua l’assunzione di ulteriori (art. 209 c.p.c.);

la prova è superflua allorché l’ufficio si sia già formato il pieno convincimento riguardo l’esistenza del fatto che il mezzo di prova richiesto è diretto a dimostrare; d) il tribunale non può chiudere l’istruttoria, senza assumere mezzi di prova rilevanti, diretti a provare l’esistenza o l’inesistenza di un fatto, ed adottare una decisione che vada a danno della parte che li abbia richiesti; quindi, non è possibile ritenere inesistente il fatto che il mezzo di prova era diretto a dimostrare come esistente e ritenere esistente il fatto che il mezzo di prova era diretto a dimostrare come inesistente».

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www.judicium.it di difesa si fonderanno le parti. La delineazione di detti mezzi implica un duplice passaggio: la risultanza agli atti dei fatti di base ed il rilievo delle questioni che su di essi si può fare.

I fatti risultano agli atti se sono allegati dalle parti ovvero se essi comunque risultano dall’attività di trattazione-istruzione (fatti avventizi). Sulla base di questi, sia il giudice sia le parti possono fare questioni, con l’unico limite per il primo di non poter utilizzare fatti che individuano l’oggetto del processo né poter rilevare le c.d. eccezioni in senso stretto. In ciò il processo di classe segue i principi del processo ordinario, compresi il principio della domanda ed il divieto di scienza privata. Invero, è quello ad impedire l’utilizzazione d’ufficio dei fatti individuatori del diritto fatto valere ed è questo ad impedire l’utilizzazione d’ufficio di fatti che non risultano dagli atti. Inoltre, come nel processo ordinario, il giudice, se rileva questioni sulla base dei fatti che risultano dagli atti, deve stimolare su di esse il contraddittorio con e fra le parti, perché non sarebbe legittima una sentenza “a sorpresa”, fondata su una questione rilevata d’ufficio in sede di decisione senza che le parti siano state previamente poste in grado di interloquire su di esse.

La peculiarità del processo di classe sta nell’occuparsi di una pluralità di pretese individuali omogenee, ossia tali per cui le questioni comuni dovrebbero essere esclusive o almeno prevalenti.

Qui si tratta di occuparsi di migliaia o milioni di pretese che nascono da un medesimo fatto illecito ovvero dalla ripetizione da parte dello stesso professionista di più comportamenti illeciti sostanzialmente identici. Insomma, se è vero che sono in gioco più diritti, è anche vero che detti diritti hanno un substrato fattuale e giuridico comune, al punto da poterli accorpare in una classe e così poter, con tutte le cautele del caso, parlare di una “causa comune”. Insomma, dal lato dell’attore il fatto fondamentale costitutivo dei diritti dovrebbe essere lo stesso o, se non è lo stesso, dovrebbe consistere nella ripetizione di un identico comportamento illecito del professionista14. E così dal lato del convenuto, se il professionista si difende facendo valere fatti impeditivi, modificativi od estintivi, dovrebbe trattarsi essenzialmente di questioni a rilevanza comune, questioni che riguardano tutti i diritti dei consumatori che a lui si contrappongono nella classe.

Se così è, ovviamente l’allegazione del fatto, sia dal lato dell’attore di classe (fatti costitutivi) sia dal lato del convenuto (fatti impeditivi, modificativi ed estintivi), vale all’interno della “causa comune” o se si vuole per ogni diritto individuale, fermo restando che, comunque, ogni aderente deve nell’atto di adesione indicare gli elementi costitutivi del suo diritto (comma 3). E così la sua prova. Qui il giudice deve rispettare il monito del legislatore che gli dice di evitare ripetizioni e complicazioni.

14 Ciò che dovrebbe, ma non necessariamente, divergere è l’ammontare della pretesa restitutoria o risarcitoria. Ma qui è pure auspicabile che il giudice segua logiche di standardizzazione, a cui in fondo si richiama lo stesso art. 140-bis quando al comma 12 dice che le somme dovute sono liquidate ai sensi dell’art. 1226 c.c., norma che, se nel sistema generale della responsabilità civile ha una valenza residuale, assume una valenza primaria nell’azione di classe.

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www.judicium.it Le cose si complicano se emergono questioni individuali, fatti impeditivi, modificativi o estintivi che rilevano solo per certe posizioni individuali e non per altre. Complicazione questa che non può essere impedita inibendo il rilievo di questioni del genere, ma che, se sorge, mette a rischio la gestione del processo di classe.

4. Attività istruttoria.

Nel processo di classe i fatti a cui applicare le norme di diritto sono accertati dal giudice essenzialmente attraverso gli stessi strumenti di fissazione previsti nell’ambito del processo ordinario di cognizione. Tuttavia, una certa cautela si deve avere a fronte degli strumenti di fissazione dei fatti di tipo “dispositivo”.

È noto come i privati possano disporre dei diritti non solo direttamente, per mezzo di negozi giuridici, ma anche indirettamente, per mezzo dell’utilizzazione di mezzi che impongono al giudice nell’ambito di un processo la fissazione dei fatti che riguardano il diritto in contestazione senza alcun tipo di valutazione. Si tratta, insomma, di mezzi c.d. legali, nel senso che il giudice non può fare altro che fissare i fatti così come da essi risultano. Tra questi emerge, per un verso, il meccanismo della mancata contestazione specifica di cui al primo comma dell’art. 115 c.p.c., in virtù del quale si assolve la controparte dall’onere di provare il fatto appunto non specificamente contestato, e, per altro verso, le prove c.d. legali, tra le quali si faccia l’esempio della confessione.

Ebbene, posto che l’attore collettivo non ha il potere di disporre dei diritti degli aderenti, come, del resto emerge chiaramente dal comma 15 dell’art. 140-bis e dall’art. 15 del d.lgs. n. 28 del 2010, in virtù dei quali l’eventuale transazione stipulata dall’attore di classe vincola solo gli aderenti che vi abbiano espressamente consentito, evidentemente egli non può confessare e non contestare con le stesse conseguenze di cui, rispettivamente, agli articoli 2733, 2° comma, c.c. e 115, 1° comma, c.p.c. in riferimento ai diritti degli aderenti15.

A mio parere, se la mancata contestazione da parte dell’attore collettivo a fronte di un fatto allegato dal professionista convenuto può, al più, avere il valore di un contegno dal quale il giudice può trarre argomenti di prova ai sensi del secondo comma dell’art. 116 c.p.c., per quanto riguarda la confessione, posto che l’attore di classe è l’unico ad avere poteri processuali in luogo dei singoli danneggiati, le soluzioni prospettabili in astratto sono tre.

Si potrebbe sostenere che essa non sia un mezzo di prova ammissibile nel processo di classe, proprio per la carenza di capacità soggettiva di disporre dei diritti in gioco in capo all’attore di classe. Si potrebbe sostenere che, pur essendo la confessione un mezzo di prova ammissibile, essa tuttavia non possa essere valutata come prova legale, ma solo come prova liberamente valutabile dal

15 Dal lato del professionista, invece, non vi sono problemi.

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www.judicium.it giudice. O, infine, si potrebbe sostenere che la confessione, ammissibile pure nel processo di classe, abbia efficacia di prova legale solo in riferimento alla causa individuale dell’attore collettivo.

A mio sommesso avviso, tra tutte queste soluzioni quella che certamente è da scartare è la terza, perché essa, utilizzando in ipotesi un principio valevole nell’ambito di un ordinario processo litisconsortile, dimentica la peculiarità del processo di classe, nel quale si deve giungere ad un accertamento unico sulla “causa comune”16. Rimanendo, allora, in campo le altre due soluzioni, non nascondo le mie perplessità. L’idea che qui la confessione resa dall’attore collettivo scada da prova legale a prova libera sembrerebbe essere smentita dal terzo comma dell’art. 2733 c.c., che sancisce un simile principio solo nel caso di litisconsorzio necessario, quindi quando il processo, nonostante la pluralità di parti, abbia un solo oggetto. Ma è anche vero che giungere a negare del tutto la possibilità di acquisire nel processo di classe una confessione dell’attore collettivo mi sembrerebbe eccessivo ed, inoltre, posto che qui, alla complessità oggettiva del processo, corrisponde una sua semplicità soggettiva e considerando anche l’aspirazione ad un sostanziale accertamento unitario della “causa comune”, sarei più propenso ad ammettere la confessione dell’attore di classe con l’avvertenza che essa debba essere liberamente valutata dal giudice.

Oltre agli strumenti tipici, perché esplicitamente previsti dalla legge, di fissazione dei fatti, sembra che nel processo di classe non vi siano ostacoli all’utilizzazione di prove atipiche ovvero all’assunzione in modo atipico di prove atipiche. A questo proposito non credo che si possa enucleare un principio di prevalenza della prova tipica, in virtù del quale ammettere la prova atipica solo ove non sia possibile fondare il convincimento del giudice sulla base di una prova tipica17. Ciò per la duplice ragione per cui, per un verso, non sembra che un simile assunto possa fondarsi su qualche norma o principio, potendosi fare sull’ammissibilità della prova atipica solo una scelta netta, escludendola o ammettendola18, e, per altro verso, non sembra che viga nel sistema, almeno nell’ambito della giustizia civile, il principio per cui la prova debba formarsi in contraddittorio tra le parti, valendo un simile principio al più solo per le prove costituende19.

Per quanto riguarda, poi, il riparto dei poteri istruttori tra giudice e parti, a me non sembra francamente che qui possa valere il principio di fondo ricavabile dall’art. 115 c.p.c., in virtù del

16 A meno che il fatto oggetto della confessione non abbia una valenza esclusivamente individuale per l’attore.

17 Così invece MOTTO, op. cit., § 14.

18 Insomma, o si ammettono le prove atipiche, ed allora non si vede perché esse dovrebbero poter venire in gioco solo in via subordinata, oppure si ritiene che un qualche principio ineludibile ne impedisca l’utilizzazione.

19 Ritenere che nel processo civile siano ammissibili solo mezzi di prova che si formano in contraddittorio significa dimenticare che in esso ben sono ammissibili prove precostituite, che certo non si formano in contraddittorio. La verità è che nel processo civile la necessità del contraddittorio emerge solo in riferimento al momento valutativo della prova.

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www.judicium.it quale nel silenzio della legge i mezzi di prova sono proponibili solo dalle parti. Invero, la deformalizzazione dell’istruttoria dovrebbe andare a vantaggio del principio inquisitorio a discapito del contrario principio dispositivo, per cui nel processo di classe ben il giudice può disporre d’ufficio l’assunzione di mezzi di prova che non potrebbe disporre nell’ambito di un processo di cognizione ordinario. Fatto, ovviamente, sempre salvo il divieto di scienza privata.

Piuttosto, è soprattutto in riferimento alle prove che sembra valere il monito del legislatore in virtù del quale “il tribunale prescrive le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione delle prove o argomenti”.

Si faccia il caso della responsabilità da prodotto difettoso. Provata la difettosità di un certo prodotto messo in commercio dal professionista convenuto, da cui è derivato un danno ad una pluralità di consumatori, è inutile cercare la prova della difettosità di ogni singolo prodotto. Certo, è anche possibile che il singolo prodotto fosse immune dal difetto che ha, invece, afflitto altre centinaia o migliaia di esemplari dello stesso prodotto. Ma, se così è, starà al professionista convenuto allegare e provare l’elemento di diversità del singolo caso20.

Con ciò non si abbandona l’idea, pur in precedenza sostenuta, per cui nel processo di classe il giudice deve farsi un convincimento pieno in ordine all’esistenza dei diritti fatti valere, quindi in ordine all’esistenza di tutta la loro fattispecie costitutiva, non potendosi accontentare della mera verosimiglianza, ma semplicemente si cala questa idea in quella che è, e non può non essere, la dinamica di un’azione di classe. Qui non si tratta di negare la necessità di provare tutti i fatti costitutivi dei diritti fatti valere, ma solo di ripartire gli oneri probatori in modo adeguato alla logica di un’azione di classe. Invero, se è provata la difettosità di un prodotto uscito da un’azienda, ben si può ritenere che tutti coloro che abbiano acquistato quel prodotto, abbiano acquistato appunto un prodotto difettoso, da cui sia scaturito il danno. Se poi nel caso concreto è accaduto che un singolo prodotto non presentasse quel difetto, è ragionevole onerare della relativa allegazione e prova il professionista.

5. I tempi del gioco processuale.

Se nel processo ordinario sono disciplinati i tempi del gioco processuale, ossia la legge stabilisce fino a quando le parti possono fare questioni (rilevare eccezioni da parte del convenuto, modificare, ancorché non mutare, la domanda da parte dell’attore) e allegare documenti ovvero presentare istanze istruttorie, nel processo di classe questi tempi devono essere disciplinati dal giudice.

20 Sul punto in modo convincente MOTTO, op. cit., § 14.

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www.judicium.it Qui c’è poco da aggiungere in astratto, dovendosi aspettare una certa sperimentazione. Certo, sarebbe opportuno che il giudice desse delle disposizioni tali da poter svolgere un gioco ordinato, ossia un gioco in cui prima si delinea l’oggetto della cognizione, poi si ammettono le prove, ove vi siano istanze istruttorie, ed infine si assumano le prove ammesse. Ma questo ordine può anche saltare e del resto le determinazioni del giudice sono comunque rivedibili. L’importante è sempre che il giudice, anche quando rivede le sue determinazioni, non alteri la parità tra le parti. Ed anche quando lui stesso rileva una questione o dispone l’assunzione di un mezzo di prova si dia sempre alle parti la possibilità di replicare in termini di allegazione, rilievo di questioni e prova.

Ma, tra i primi commentatori, già si è posto in astratto un problema di non poco conto. Ci si chiede: può il giudice fissare delle preclusioni?

Abbiamo in precedenza visto come sia difficile immaginare che nel processo di classe valgano le preclusioni disciplinate dalla legge, in particolare quelle di cui trattano gli articoli 183 e 167 c.p.c. nell’ambito del processo ordinario di cognizione. Invero nel processo di classe tutte le attività della fase introduttiva (atto di citazione, comparsa di risposta e successiva prima udienza) sono rivolte essenzialmente a risolvere il problema dell’ammissibilità della domanda e non ad affrontare i temi di merito del processo. Questi sono trattati dopo l’ammissione della domanda. Ed, allora, alla ripresa del processo dopo l’ammissione non vi è dubbio che le parti, attore di classe e professionista convenuto, debbano poter allegare fatti, fare questioni sulla base di essi e provare, rimanendo preclusa solo la possibilità di allargare l’oggetto del processo21, ormai cristallizzato con l’atto di citazione e le successive adesioni22.

Ma, se tutte queste attività dovranno potersi compiere dopo l’ammissione della domanda, resta però il quesito: esse possono sempre compiersi per tutto il corso del processo oppure il giudice può indicare dei tempi a pena di decadenza?

Alcuni hanno già dato risposta negativa al dubbio, essenzialmente sulla base del primo comma dell’art. 152 c.p.c., alla luce del quale il giudice può stabilire termini a pena di decadenza solo se la legge lo permette. Ebbene, si dice, posto che nel citato art. 140-bis cod. cons. non vi è

21 Salva l’eventualità dell’ammissione di una chiamata di terzo ai sensi dell’art. 106 c.p.c. per comunanza di causa. Per la chiamata in garanzia ribadisco che essa è ammissibile solo come strumento di estensione della cosa giudicata al chiamato, senza che possa essere innovativa: cfr. supra nota 2.

22 L’attore di classe ha affermato il suo diritto nell’atto citazione. Lo stesso ha fatto ogni singolo aderente nell’atto di adesione che ai sensi del comma 3 dell’art. 140-bis deve indicare gli elementi costitutivi del diritto fato valere. Di conseguenza, successivamente, non si possono allegare solo quei fatti che individuerebbero diritti diversi da quelli fatti valere, restando invece impregiudicata l’allegabilità di ogni altro fatto.

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www.judicium.it traccia dell’attribuzione di un simile potere, evidentemente il giudice del processo di classe, pur potendo dettare la regola del procedere, non può tuttavia stabilire preclusioni23.

Ma, a parte il fatto che la Corte di cassazione ha pur voluto di recente, in virtù del principio della ragionevole durata del processo, superare l’idea per cui la differenza tra termini ordinatori e termini perentori starebbe nel fatto che solo la violazione dei secondi comporterebbe la perdita del potere processuale24, è anche vero che, a voler mantenere l’opinione tradizionale in ordine a quella differenza, sembra comunque difficile poter richiamare l’art. 152 c.p.c. all’interno di un “ambiente”

processuale in cui non vige il principio della predeterminazione legale delle regole. Ed, allora, a me sembra più ragionevole ritenere che ben il giudice possa fissare termini a pena di decadenza, avendo come suo unico limite sempre e solo la necessità di rispettare il principio del contraddittorio.

23 Così MOTTO, op. cit., § 14. In senso contrario vedi SANTANGELI-PARISI, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria: l’azione di classe dopo le recenti modifiche all’art. 140-bis cod. cons., in www.judicium.it, § 10.

24 Vedi, se vuoi, ragguagli in BOVE, Il principio della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Napoli 2010,38-39.

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