A questo punto del lavoro, avendo individuato cosa si intende per errore a livello antropologico, dobbiamo domandarci come esso possa venir impiegato per ampliare la nostra conoscenza. A tale scopo è bene ribadire sia cosa si intende per errore sia a cosa ci riferiamo quando parliamo di conoscenza. Questa può essere definita come il processo che ci avvicina alla verità riguardante l’oggetto in analisi. La verità, sebbene non possiamo avere la certezza del suo raggiungimento, come ampiamente spiegato da Popper, rimane un riferimento orientativo che ci sprona alla ricerca e al tentativo continuo di migliorare il nostro stato esistenziale. Da quanto detto in precedenza, possiamo affermare che la conoscenza si snoda su due piani: quello teoretico, che trova incarnazione nel giudizio, e quello pratico, che si esprime nella scelta. Il primo, pertanto, coinvolge gli strumenti dell’istinto e della ragione; il secondo si fonda essenzialmente sull’intervento della volontà.
Se ci riferiamo al giudizio, abbiamo messo in evidenza che possiamo parlare di errore nel senso dell’imprecisione degli strumenti d’analisi disponibili all’uomo, i quali non offrono la certezza assoluta della valutazione. Se parliamo di scelta, identifichiamo l’errore come negazione degli aspetti fondamentali dell’uomo, tanto da non poterlo più considerare come persona. Il compito che ora ci spetta di svolgere è capire come tali errori possano entrare
221 In riguardo a ciò si faccia riferimento al mito di Hestia ed Hermes, raccontato ed analizzato in V. IORI, Lo spazio vissuto, La Nuova Italia, Scandicci (FI), 1996, pp. 168-171.
222 F.J. VERELA, Un know-how per l’etica, op. cit., p. 5.
attivamente nel processo conoscitivo per migliorarlo, tanto da poter essere ricalibrato e reso più affidabile nelle successive sue applicazioni. Ancora una volta è da richiamare che questo capitolo ha un taglio prettamente antropologico, intendendo con ciò che nelle seguenti pagine non dovremo elaborare una classificazione delle tipologie di errore e dare una spiegazione delle cause specifiche di ognuna di esse, essendo tale lavoro di natura epistemologica. Quello che in questa sede dovremo fare è verificare la spendibilità dell’errore nella ridefinizione delle strutture fondamentali della persona, quelle che la contraddistinguono a livello antropologico. Per far ciò in modo chiaro seguiremo lo schema individuato, affrontando l’analisi dell’errore nel giudizio in prima battuta e nella scelta in seconda.
Iniziamo, pertanto, dal giudizio. Esso, come già detto, può essere considerato come l’assenso o il dissenso verso un’ipotesi che lega un’idea alla realtà. Se ci affidiamo al significato etimologico della parola, intendendo l’errore «come sviamento, smarrimento o abbandono della retta via»223, possiamo concepire un giudizio come errato nel momento in cui sostiene la validità di una relazione effettivamente non sussistente. L’affermazione di una tale supposizione può limitare i propri effetti negativi alla questione in esame ma, altre volte, essa diviene la base di ulteriori supposizioni che, prendendo le mosse da un iniziale errore, saranno necessariamente false. Se il giudizio errato deriva da una valutazione fatta esclusivamente dall’istinto, esso può essere riconosciuto solamente dal riscontro con il dato reale, vale a dire per il tramite della verifica empirica. Il giudizio dell’istinto è stato fatto coincidere per molti secoli e secondo considerevoli autori, fra i quali Bacone e Cartesio, con la «parte umana (…) che è fonte delle nostre opinioni fallibili (doxa), dei nostri errori, della nostra ignoranza»224. A ciò è stata contrapposta la conoscenza basata sulla ragione ed avente la presunzione della certezza (episteme). Tale concezione, da noi già valutata come imperfetta, considerata in primo luogo la fallibilità della ragione, ci risulta comunque utile per sottolineare la necessità del riscontro empirico per verificare il giudizio effettuato dall’istinto. Esso, infatti, essendo fondamentalmente un’intuizione, perciò slegato dalla logica di causa ed effetto, non può essere verificato grazie allo strumento della ragione. L’unica verifica possibile, a tal punto, diviene, nell’immediato, il confronto con la realtà empirica. Abbiamo specificato la questione temporale per un motivo molto importante. Il giudizio dato dall’istinto afferma una supposizione che il soggetto giudicante non riesce a risolvere, in quell’istante, in altro modo. Non è detto, però, che in seguito lo stesso soggetto possa trovare motivazioni valide e di diversa natura, vale a dire quella
223 AA. VV., Il problema dell’errore nelle concezioni multiprospettiche della verità, op. cit., p. 224.
razionale, a quello stesso giudizio, oppure che tale compito possa essere svolto, sempre nell’ottica della razionalità, da un’altra persona nello stesso frangente temporale. Tutto ciò ci sprona a fare un uso attento dell’istinto, strumento comunque di grande validità, nel giudizio, soprattutto quando passiamo da un giudizio effettuato per il tramite dell’istinto ad un altro giudizio che si basa su di esso. «L’errore (…) sorge quando, sulla base di una certa illusione, saltiamo ad un’altra suggerita da essa, e pensiamo che qualcosa è, o era, o sarà, quando non ne è veramente il caso»225, così da innescare una potenziale catena di errori che si rafforza, di passaggio in passaggio, traendo consistenza dalla sicurezza offerta dalla razionalità causale che connette il secondo giudizio al primo, il terzo al secondo e così via. Ciò significa che il ragionamento più attento e logico perde tutta la sua validità se prende le mosse da un presupposto falso.
La verifica empirica, quando rileva un errore, afferma l’inesistenza del legame supposto. Il problema che ci si pone ora d’innanzi, e che rappresenta l’oggetto di questa sezione del lavoro, riguarda l’impiego che dobbiamo fare di questa falsa supposizione. Per affrontare al meglio la questione dobbiamo introdurre un termine di fondamentale importanza: la retroazione. Per comprendere il significato di tale termine ci rifaremo ai già citati studi di L. Von Bertalanffy, presentati nel suo noto volume Teoria Generale dei Sistemi. Lo studioso parla di retroazione durante l’analisi dello schema base di un sistema.
Questo è composto da un recettore, un apparato di controllo ed un effettore. Il primo riceve stimoli che trasmette sotto forma di messaggio al secondo, il quale li elabora e, sempre sotto forma di messaggio, li invia ad un effettore che genera una risposta. A questo punto «il funzionamento stesso dell’effettore viene retrocontrollato sul recettore, il che rende il sistema capace di auto-regolarsi, e cioè di garantire una stabilità oppure una direzione d’azione»226. Questa caratteristica dei sistemi offre la possibilità di auto-regolare il proprio agire, tenendo in considerazione le azioni che hanno dato esito negativo.
L’archiviazione di tali dati permette di creare una casistica che, sebbene non è utile ad indicarci la via corretta da seguire, risulta essere indispensabile per identificare le molteplici opportunità da scartare. Questo fatto, considerata l’amplissima, quasi infinita, gamma delle possibilità dell’esperienza, può quasi apparire come un aiuto assolutamente irrilevante. Secondo noi, però, non è così. Vedremo più avanti che questo strumento di conoscenza, se adoperato in contemporanea con la critica razionale, può dare notevoli risultati. I meccanismi retroattivi, se impiegati in questa ottica, si rivelano essere
224 K.R. POPPER, Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, op. cit., p. 67.
225 L.W. KEELER, The problem of error from Plato to Kant, op. cit., p. 207-208.
226 L. VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, op. cit., p. 80.
fondamentali nella prospettiva di un comportamento che non si limita all’istante, ma che si apre e si rivolge al futuro. Tale predisposizione d’intenti sottrae importanza al risultato immediato che, sebbene conservi un proprio valore effettivo, può essere compreso appieno solo se considerato come parte di un processo più ampio e complesso. Per queste ragioni, sempre Von Bertalanffy afferma che «i meccanismi di natura retroattiva costituiscono la base del comportamento teleologico, ovvero dotato di fini»227.
Non sono da sottovalutare anche i risvolti positivi che un’attività di questo tipo, definibile come autocontrollo, può avere in campo educativo. Infatti, comprendere in prima persona quali sono i propri sbagli vuol dire avere piena coscienza della fallibilità del proprio agire e significa, inoltre, imparare ad accettare gli sbagli altrui come possibilità endemica dell’essere, non come atto di natura diabolica da biasimare e punire come se fosse stato compiuto di proposito. Ecco, pertanto, che «sotto il profilo strettamente pedagogico, l’autocorrezione ha grande valore, poiché chi riesce ad individuare da solo i propri errori è di certo capace di continue revisioni e rielaborazioni sul proprio operato e ciò è garanzia di buone capacità euristiche, oltre che segno inequivocabile di maturità ed acutezza»228. Tale tesi era sostenuta con tenacia anche da M. Montessori, secondo la quale «il controllo (…) è, in primo luogo, un autocontrollo. I fanciulli che frequentano le scuole che si rifanno a i suoi insegnamenti pedagogici sono chiamati in prima persona a correggere i loro errori»229. Da quanto detto, possiamo affermare che l’errore provocato dall’istinto, sebbene non classificabile entro categorie logiche che ne consentono un uso sistematico, può essere comunque considerato uno strumento di conoscenza se, grazie al meccanismo della retroazione, lo valutiamo e lo immagazziniamo come esperienza negativa da non ripetere.
Se l’errore provocato dall’istinto può essere riconosciuto solamente tramite la verifica pratica, non si presenta la stessa situazione quando è causato dalla ragione.
Quest’ultima si basa essenzialmente sulla connessione di causa ed effetto, nella convinzione che ogni evento derivi direttamente da un altro o dall’interazione di altri che lo antecedono. Tale legame vale essenzialmente per quanto riguarda gli oggetti delle scienze della natura ed apre la strada all’idea di prevedibilità di ciò che sarà. Pertanto, movendo da una situazione conosciuta, possiamo desumere in modo sequenziale e certo ciò che avverrà attraverso l’applicazione di schemi logici. Si verifica l’errore quando gli schemi che applichiamo non coincidono con le leggi effettivamente esistenti in natura e la
227 Ibidem, pp. 81-82.
228 G. MANCA, “Le possibilità pedagogiche dell’errore”, op. cit., p. 78.
229 M. BALDINI, Epistemologia e pedagogia dell’errore, La Scuola, Brescia, 1986, p. 120.
situazione prevista si discosta da quella effettivamente presente. In tal caso, «lo scacco e l’errore esprimono il fatto che è l’individuo ad infrangersi necessariamente contro una legge inviolabile; con o senza il nostro consenso la legge avrà la meglio»230. Altre volte, sebbene il caso possa apparire simile, l’errore deriva dal «non applicare la regola in realtà competente»231. Ciò può essere causato sia da una lettura non corretta della situazione sia da una cattiva comprensione della regola stessa. In entrambi i casi si verifica una divergenza fra i due termini, tale da precludere il corretto svolgersi del processo conoscitivo. In ognuno di questi casi, derivando l’errore da un processo logico, esso può divenire oggetto d’analisi e di comprensione, così da «cogliere l’insegnamento di valore permanente che è implicito in ogni errore contingente»232.
A questo punto possiamo notare due differenze essenziali rispetto al caso dell’errore provocato dall’istinto. La modalità di rilevazione dell’errore e la generalizzazione, l’uso che di esso si può fare una volta che lo si è compreso. Se l’errore generato dall’istinto è compreso direttamente dalla verifica pratica, quello derivante dalla ragione, oltre alla stessa modalità di riconoscimento, può essere rilevato a prescindere dalla situazione concreta. Dinnanzi ad un problema sono proposte soluzioni che, prima di essere verificate empiricamente, possono essere discusse razionalmente. In alcuni casi questo passaggio si rivela indispensabile. Se pensiamo alla costruzione di un palazzo, ci accorgiamo immediatamente che, per capire se il nostro piano di lavoro è valido, non possiamo aspettare che le persone ci vivano, con il rischio che l’edificio crolli. Oltre a verificare la corrispondenza fra il lavoro degli operai e le indicazioni degli ingegneri, dobbiamo prima appurare che le regole impiegate per il calcolo dei materiali e degli spessori siano valide. Tale tipo di controllo può avvenire solo per il tramite della critica razionale delle regole utilizzate, ma ciò avviene difficilmente se una persona effettua una critica ad un proprio ragionamento. In tal caso, infatti, può capitare di rilevare uno sbaglio, ma difficilmente un errore. Il primo può essere considerato come un’errata applicazione di un procedimento del quale se ne conosce la struttura e la spendibilità nel caso concreto; il secondo si riferisce ad un’inesattezza compiuta nella creazione di un procedimento nuovo.
A dar man forte a tale distinzione ci viene in soccorso il pensiero di M. Baldini, secondo il quale «mentre lo sbaglio lo si compie, in genere, quando non si applica correttamente una regola o una teoria di cui si è (o si dovrebbe essere) a conoscenza, l’errore, invece, lo si
230 V. JANKÉLÉVITCH, La cattiva coscienza (trad. dal francese), Edizioni Dedalo, Bari, 2000, p. 82.
231 R. BUBNER, Azione, linguaggio e ragione, op. cit., p. 162.
232 M. BALDINI, Epistemologia e pedagogia dell’errore, op. cit., p. 72.
incontra quando si cerca una nuova teoria»233. Pertanto, lo sbaglio può tranquillamente non ripetersi in una situazione immediatamente successiva a quella in cui è stato commesso, dato che dipende da circostanze puramente contingenti. Il secondo, all’opposto, deriva dalla certezza che si ripone in una teoria, la quale necessita di molta energia e profonda riflessione per essere confutata. Inoltre, la persona deve essere disposta ad impiegare le proprie convinzioni ad un livello sempre più profondo, arrivando a riconsiderare anche le certezze più semplici.
Certamente si ottengono maggiori risultati quando più persone con idee differenti si incontrano, si confrontano e, per difendere la propria convinzione, oltre ad analizzarla nel dettaglio, tentano di far cadere quelle altrui. La critica eseguita da chi possiede convinzioni differenti è spesso più efficace, poiché esula dal facile errore di dare per assodate e certe alcune nozioni che, in realtà, generano non poche insidie. Pertanto, «la pratica autoriflessiva è più efficace se viene coltivata in un contesto intersoggettivo, se diventa cioè auto-eco-riflessività. (…) L’autoriflessività porta a preferire la ricerca-condivisa-con- altri alla ricerca-in-solitudine, perché l’autoosservazione, mancando della problematizzazione autentica che viene dal confronto col differente da sé, rischia di ridursi a una descrizione inerte, mancante di provocazioni trasformative»234.
Tutto ciò si pone in accordo con quanto detto nel primo paragrafo dove, lo ricordiamo, abbiamo affermato che la dimensione propria dell’uomo è quella della comunicazione significativa, che, fra le sue caratteristiche, ha quella dell’apertura all’altro diverso da sé. L’altro diventa interlocutore attivo, partecipe del proprio processo di crescita ma anche di quello altrui, nel quale interviene in modo diretto. Da questo assunto di base deriva la convinzione che «l’eterocontrollo è indispensabile per poter correggere errori riconducibili ad aspetti soggettivi della elaborazione concettuale, all’impostazione teorica di fondo che, proprio in quanto soggettiva, apparirà all’autore come corretta»235.
Sulla scorta delle riflessioni effettuate, possiamo sostenere che, nel caso dell’errore derivante dalla ragione, esso, sebbene impossibile da debellare in maniera definitiva, può essere previsto ed evitato nella gran parte dei casi. Le cause che portano sia all’errore sia allo sbaglio, perciò, possono essere identificate ed evitate proprio perché soggette a critica, universalizzabili e, quindi, discutibili nel tempo. In quest’ottica, «la limitatezza delle informazioni o degli errori cognitivi sono da considerare “mere interferenze” alle quali,
233 Ibidem, pp. 90-91.
234 L. MORTARI, Aver cura della vita della mente, op. cit., pp. 306-307.
235 G. MANCA, “Le possibilità pedagogiche dell’errore”, op. cit., p. 78.
almeno in linea di principio, si può porre rimedio»236. Pertanto, sebbene l’errore sia una caratteristica endemica anche della ragione oltre che dell’istinto, nel primo caso esso è maggiormente soggetto a controllo, dato che richiede caratteristiche specifiche perché avvenga. L’errore, infatti, «richiede 1) un giudizio; 2) uno stato di cose oltre ciò che il giudizio afferma, e conseguentemente differente dal giudizio stesso; 3) un soggetto che è erroneamente convinto che il giudizio è vero»237.
Se la possibilità di rilevare una struttura dell’errore facilita gli atti di identificare ed evitare lo stesso, dobbiamo porre attenzione a non cadere nel rischio opposto, vale a dire nella convinzione che esistano schemi di ragionamento e controllo universalmente validi, quindi applicabili ad ogni situazione e completamente affidabili. Ogni schema risulta di grande utilità se si adatta perfettamente alla situazione a cui si riferisce; anche una piccola discrepanza fra le due realtà può provocare errori di notevole rilevanza. Possiamo pertanto dire che «gli schemi sono utili ma non garantiscono una decisione efficace. Il problema sta nel modo in cui vengono adoperati. Un eccessivo ricorso ad essi porta alla rigidezza»238. Anche quest’ultima considerazione è di notevole importanza. Se ci si abitua a fare un uso eccessivo delle schematizzazioni, si rischia di diventare puri ed efficienti esecutori di ordini prestabiliti, ma incapaci di creare percorsi propri in base a ciò che richiedono le circostanze, aperti alla sterile via dello sbaglio e chiusi a quella, ben più proficua, dell’errore. Lo sbaglio può apparire meno grave, dato che dipende da cause contingenti e di scarso rilievo; all’opposto, secondo noi, esso è degno di maggiore imputazione poiché indica un coinvolgimento minore della persona nell’atto del giudizio.
Commettere un errore vuol dire aver tentato una nuova via per ampliare la conoscenza, provando ad offrire, così, il proprio contributo all’umanità, non solamente applicando ciò che da altri era stato scoperto. Anche effettuando un errore compiamo una conquista, dato che non si sceglie semplicemente la strada non corrispondente alla realtà ma si capisce anche il perché di ciò, con la possibilità di rendere condivisibile tale conoscenza e di capire quando essa può essere riutilizzata e quando no. Proprio sulla base di tale convinzione, Popper non ha formulato un metodo ma ha elaborato una modalità di approccio ai problemi definita con il termine di critica. Questa, a suo dire, deve stare alla base di qualsiasi riflessione e deve essere trasmessa agli alunni, i quali, una volta compresa ed assimilata, avranno gli strumenti per creare conoscenza. Lo studioso, infatti, sogna «di poter un giorno fondare una scuola in cui si possa apprendere senza annoiarsi, e si sia
236 C. BAGNOLI, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, op. cit., p.198.
237 L.W. KEELER, The problem of error from Plato to Kant, op. cit., p. 225.
238 A. LEIGH, Le perfette decisioni (trad. dall’inglese), op. cit., p. 32.
stimolati a porre problemi e a discuterli; una scuola in cui non si debbano sentire risposte non sollecitate da domande non poste; in cui non si debba studiare al fine di superare gli esami»239.
Possiamo ora passare al secondo aspetto che distingue l’errore causato dall’istinto da quello scaturito dalla ragione, benché sia già stato accennato nella discussione riguardante la rilevazione di esso. Se l’errore dell’istinto permette di creare una casistica utile alla previsione in situazioni simili, ma che non garantisce la propria spendibilità, l’errore della ragione, se compreso, offre la possibilità, una volta individuate le cause, di applicare queste, diventate criteri di valutazione, ad altre situazioni anche dissimili. Un errore particolare, pertanto, non si limita più ad una determinata e limitata realtà ma si estende anche ad altri ambiti, nei quali può svolgere il proprio lavoro di prevenzione.
Questa, in realtà, non è svolta tanto dall’errore in sé, quanto dalla comprensione delle cause che lo hanno suscitato e che sono trasferibili in qualsiasi altro giudizio, dato che questo, considerato l’ambito della nostra attuale analisi, è un processo puramente logico.
Al riguardo concordiamo decisamente con S. Agostino quando afferma che la verità si libera da ogni errore e che «ogni bellezza e forma del corpo sussiste grazie alla forma di tutte le cose, cioè alla verità»240. Siffatto processo, però, dà i suoi frutti solamente se la persona è disposta ad accettare il fallimento del proprio giudizio, rielaborandolo e traendo da esso precise conclusioni. L’atteggiamento di superbia ed eccessiva sicurezza nei propri mezzi, all’opposto, ostacola in modo determinante tale possibilità di crescita.
Fino ad ora abbiamo analizzato istinto e ragione in modo separato, come se la loro attività fosse indipendente. In realtà, come spiegato nella prima parte del capitolo, essi, nella maggior parte dei casi, agiscono in sincronia nell’elaborazione di un giudizio. La ragione critica l’intuizione dell’istinto. Pertanto, le considerazioni effettuate vanno sommate e valutate con attenzione in riferimento alla fase del giudizio che si sta attuando.
A conclusione di questa riflessione sull’impiego dell’errore derivante dal giudizio, possiamo affermare che esso si presenta come strumento di conoscenza poiché dà luogo a elementi da ricordare e da tener in considerazione per il futuro, se parliamo dell’istinto;
permette di elaborare categorie di ragionamento universalmente valide e riutilizzabili in qualsiasi tipo di elaborazione, se parliamo della ragione.
Se passiamo alla scelta, ci troviamo dinnanzi ad uno scenario completamente differente. L’errore, come anticipato, si verifica nell’istante in cui l’atto nega i valori di
239 K.R. POPPER, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale (trad. dall’inglese), Armando Armando, Roma, 1976, p. 43.
240 S. AGOSTINO, De libero arbitrio, op. cit., p. 359.