Giunti a questo punto, avendo analizzato gli atti fondamentali dell’attività umana, giudizio e scelta; avendo individuato gli strumenti che ne permettono l’esecuzione, istinto, ragione e volontà; avendo in più osservato come sia possibile il passaggio dall’attività teoretica a quella pratica, possiamo definire ancor meglio il termine scelta, ultimo passaggio della catena decisionale illustrata. Per raggiungere tale scopo è utile fare qualche passo indietro.
Il giudizio, come già rilevato, è espressione di una valutazione su ciò che dovrebbe essere; esso, perciò, ha in sé la duplice possibilità della corrispondenza e della divergenza fra la situazione esistente e quella che dovrebbe idealmente verificarsi. La constatazione della divergenza può essere considerata come un errore. Chiaramente, tale fatto esula
149 I. PASCAL, È possibile perdonare?, op. cit., p. 25.
150 C. BAGNOLI, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, op. cit., p. 37.
151 G.R. EVANS, Getting it wrong: the medieval epistemology of error, Leiden, Boston, 1998, p. 70.
dalla correttezza del giudizio; se esso avviene secondo una logica errata ci può condurre alla convinzione della validità di un’affermazione quando questa, in realtà, non la possiede. Il complicato meccanismo che sottostà a tale questione, vale a dire l’epistemologia, non verrà ora preso in considerazione, essendo oggetto specifico del secondo capitolo del lavoro. Per quanto concerne il campo della valutazione dell’azione, entro il quale si inserisce la questione morale, visto che questa si presenta fondamentalmente di fronte all’esistenza di relazioni interpersonali, il giudizio verifica se l’inclinazione della volontà è nel senso del bene oppure in direzione divergente od opposta ad esso. Come abbiamo già spiegato, però, non possiamo giudicare né la volontà né il concetto di bene. La prima, infatti, è uno strumento, come l’istinto e la ragione, per cui, sul piano morale, se ne può valutare solamente l’impiego. Il secondo è un concetto che, a livello formale, può essere identificato secondo la propria struttura, bene universale o particolare, ma, a livello di contenuto, non presenta oggetti propri ed universali. In quest’ottica risulta chiaro come non si possa giudicare la struttura, dato oggettivo ed invariabile, e nemmeno l’oggetto, definibile tramite un processo di verifica di corrispondenza fra un criterio ed una situazione. Il criterio in questione è l’impiego strumentale di quelle idee che chiamiamo, di conseguenza, valori. Quali siano questi valori lo possiamo stabilire per il tramite della scelta antropologica che ognuno effettua e che abbiamo definito, anche, come atto di fede, intendendo con ciò che l’opzione verso la quale ci si dirige, benché sostenibile con motivazioni razionali, non può trovare un fondamento universale, richiedendo un’adesione che può essere sollecitata ma non pretesa da parte di altri. In questa prospettiva possiamo parlare di giudizio di valore, nel duplice senso che avviene attraverso esso e su di esso. Vedremo tra poco in dettaglio cosa comporta tutto ciò. Eccoci giunti ad un punto di svolta.
Possiamo al momento definire la scelta come giudizio di valore. Se si accetta che la volontà è obbligatoriamente orientata al bene, risulta conseguentemente logico, per quanto detto, che la scelta di agire in un modo preciso non può che seguire l’orientamento derivante dal giudizio di corrispondenza fra l’opzione considerata e l’idea di bene che otteniamo mediante l’identificazione e l’applicazione al singolo caso dei valori guida del nostro agire. Da quanto detto appena sopra risulta piuttosto chiaro il motivo per cui si può parlare di giudizio “tramite” il valore, intendendo questo come lo strumento per mezzo del quale controllare le condizioni che permettono di definire come bene o male una situazione. Invece, va specificato meglio il perché il giudizio sia anche “sul” valore.
Sottoporre a giudizio un valore vuol dire farne una critica, applicare ad esso quegli
strumenti di impiego comune, dati dalla ragione, al fine di avvalorare o rifiutare la naturale propensione, proveniente dall’istinto, verso determinati valori. Come già accennato, facendo riferimento all’indeterminatezza propria sia dell’istinto sia della ragione, non possiamo pretendere di avere la certezza della correttezza nella scelta dei valori. Ciò nonostante, la critica è necessaria per rilevare i limiti o gli errori presenti in una proposta, scartando così alcune ipotesi verificatesi infondate, considerato comunque che, citando e sostenendo quanto diceva Roger Martin du Gard, «è già qualcosa sapere dove non si trova la verità»152. Tutto ciò si renderà concreto nella proposta dei valori fondamentali che faremo fra poco.
Al fine di giungere all’opzione concreta per tali valori guida, va antecedentemente introdotto un termine basilare che sarà di riferimento nei passaggi seguenti. Inoltre, tale operazione si rende necessaria visto che il termine in questione viene spesso considerato, secondo noi erroneamente, un valore: la giustizia. Chiaramente, considerato il nostro ambito di riflessione, con giustizia non intendiamo il complesso di regole o leggi vigenti in una comunità di persone, indifferentemente che si tratti di una famiglia, uno Stato o un’organizzazione di nazioni. Nessuna legge, infatti, coincide con la giustizia nella sua completezza. Le leggi, si stima, vanno nel senso della giustizia, si conformano ad essa, tanto da poter variare per numero e forma. Per questo la giustizia non può essere una legge ma il riferimento di questa, l’orizzonte entro il quale la legge si deve collocare. In quest’ottica la giustizia diviene la modalità dell’agire correttamente, non definibile con l’atto specifico, che, proprio perché specifico, è determinato solamente in riferimento alla singola situazione. Tutt’al più possiamo tentare di individuare i criteri che ci permettono di stabilire se l’azione è orientata nel senso del bene e può, quindi, essere definita giusta. Tali criteri, come già detto, sono i valori. Se riflettiamo attentamente, possiamo comprendere come le leggi di uno Stato, idealmente, non sono che i criteri concreti dell’agire, desunti da quelli universali una volta che sono stati calati nel caso particolare. Anche le leggi, quindi, sono strumenti di cui far uso, ma dopo un accurato vaglio critico, poiché potrebbero corrispondere ai criteri ideali solo apparentemente. Prima di addentrarci in un’analisi più approfondita del termine giustizia, cercando di darne una definizione, ci sembra utile fare alcune premesse.
D’ora in avanti tenteremo di giungere all’identificazione di quei valori che individuano il bene universale e nulla più; una volta trovati questi, corrispondenti alle caratteristiche essenziali dell’individuo, sarà relativamente semplice, applicando lo schema
152 La citazione si trova in K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, op. cit., vol. II p. 475.
che delineava le tipologie universali e particolari sia di bene sia di male, verificare la validità di un’azione ed il livello a cui si pone. Va chiarito che lo scopo di questo capitolo non è elaborare una teoria etica bensì delineare gli aspetti antropologici idonei a presentare l’uomo e come essere fallibile e nella sua essenza, per cui negarli significa commettere l’errore di abusare indebitamente della persona, orientandoci verso ciò che è male. Pertanto, le riflessioni che elaboreremo d’ora in avanti sul tema della giustizia non possono nascere dall’ambito giudiziario, come confronto e ragionamento sulle leggi esistenti in vari contesti, benché quest’ambito potrebbe risultare confortante. Un ragionamento di tale tipo rischierebbe di non andare oltre il puro utilitarismo, oltre la valutazione riguardante le ripercussioni che una legge può avere sullo sviluppo sociale, con il rischio grave di accettare un orientamento che nega anche i valori fondamentali in favore di un successo materiale, economico o politico. Ecco, quindi, che l’utilitarismo «può arrivare solo fino alla legalità»153, con la tragica possibilità di sviluppare una ragione egoistica dell’azione. Se pensiamo ai regimi totalitari del XX secolo, possiamo notare come il loro successo in ambito economico e di sviluppo industriale sia sempre collegato ad un assetto legislativo fortemente strutturato e assolutamente chiuso alla diversità d’opinione e d’azione. Le conseguenze tragiche sono tristemente note e spaziano dal rifiuto totale della persona considerata diversa (pensiamo ai morti nei campi di concentramento nazisti) alla negazione di alcuni fra i diritti ormai considerati inalienabili (pensiamo al divieto imposto dal comunismo russo di adoperare a livello privato uno strumento di comunicazione come la fotocopiatrice). È per questo che «non possiamo esser soddisfatti del principio di utilità come unico criterio base del giusto e del torto nella moralità»154. In quest’ottica risulta conseguente un’opzione di fondo completamente opposta, che vede la giustizia come un ideale proveniente «dal trascendente verso l‘immanente»155.
Ancora una volta può essere utile prendere avvio dalle riflessioni di alcuni pensatori classici della storia della filosofia.
Nel mondo greco, a livello generale, la giustizia era intesa come «una virtù definita essenzialmente dall’idea dell’uguaglianza»156. Tale definizione dà forza alla nostra idea secondo la quale la giustizia non è un valore. I greci, identificandola come virtù, la delineano, secondo quello che è il significato comune, come «disposizione morale che
153 R. BUBNER, Azione, linguaggio e ragione, op. cit., p. 235.
154 W. FRANKENA, Etica. Un’introduzione alla filosofia morale, op. cit., p. 110.
155 P. RICŒUR, Finitudine e colpa (trad. dal francese), op. cit. , p. 404.
156 H. COHEN, Etica della volontà pura, op. cit., p. 429.
induce l’uomo a perseguire il bene e a praticarlo costantemente, tanto nell’ambito della sua vita privata che di quella pubblica»157, vale a dire, secondo Socrate, come strumento che perfeziona la natura umana, cioè l’attività razionale.
Platone, ponendosi anch’esso nell’ottica della giustizia come virtù, la interpreta come l’armonia che si instaura fra altre tre virtù (temperanza, fortezza e sapienza): quando ciascun cittadino e ciascuna classe sociale attendono alle funzioni che sono loro proprie nel modo migliore e fanno quello che per natura e per legge sono chiamati a fare, allora si realizza la perfetta giustizia. Infatti, per bocca di Socrate, egli dice che nella vita un uomo non deve comportarsi in riferimento ai guadagni o agli svantaggi ai quali va incontro, all’opposto, «nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e se si comporta da uomo onesto o da malvagio»158. Di conseguenza, per il filosofo «il giusto (…) è il bene desiderabile e piacevole per sé»159, avallando la tesi della naturale propensione dell’uomo verso il bene.
Fortemente significativa è la posizione di Aristotele, esponente dell’orientamento sopra illustrato. Per il filosofo, fra tutte le virtù etiche fa spicco la giustizia, che è la “giusta misura” secondo cui si distribuiscono i beni, i vantaggi, i guadagni e i loro contrari.
Pertanto, agire secondo giustizia significa perseguire l’uguaglianza, intendendo con tale termine l’intenzione di adoperare gli stessi criteri nell’elaborazione di un giudizio nei confronti di qualunque persona. Ne è esempio chiaro il governo della città, nel quale «tutte le costituzioni che hanno di mira l’interesse comune sono costituzioni rette in quanto conformi all’assoluta giustizia, mentre quelle che hanno di mira l’interesse dei governanti sono errate e costituiscono delle degenerazioni rispetto alle costituzioni rette: infatti sono dispotiche, mentre la città è una comunità di liberi»160. Raggiungere tale obiettivo significa attuare tutte le altre virtù.
Il mondo romano, in seguito alla grande importanza data al diritto, identifica la giustizia proprio come «la virtù della filosofia del diritto»161, ponendola, quindi, come ideale regolativo dell’elaborazione delle leggi. Esse si fondano, principalmente, sul principio di equità; forse, proprio da ciò deriva il motto latino “in medio virtus stat”.
Spinoza si pone su posizioni fortemente utilitaristiche, considerando come bene, e perciò giusto, ciò che è utile alla sopravvivenza e al soddisfacimento di bisogni e desideri, tanto che bene e male «devono essere considerati come esseri di ragione; poiché nulla è
157 AA.VV., Zingarelli 2004. Vocabolario della lingua italiana, op. cit., p. 2022.
158 PLATONE, Apologia di Socrate (trad. dal greco), La Scuola, Brescia, 1959, p. 32.
159 H. SEIDL, Sintesi di etica generale: coscienza, libertà e legge morale, op. cit., p. 21.
160 ARISTOTELE, Politica (trad. dal greco), III, 6, 1279a, 21-25.
161 H. COHEN, Etica della volontà pura (trad. dal tedesco), op. cit., p. 432.
chiamato bene se non in rapporto a qualche altra cosa»162. Ciò si esplica in modo chiaro e completo nell’organizzazione dello Stato e nell’elaborazione del patto sociale che trae origine dall’utilità che ne consegue, e su essa si fonda. In questo senso la realtà coincide con la perfezione dello stato delle cose.
Con l’Illuminismo la riflessione riguardante la giustizia focalizza la propria attenzione sul campo del diritto penale. Importantissimo risulta l’apporto kantiano in favore della giustizia retributiva, vale a dire di quell’orientamento secondo il quale è corretto che ad un’azione buona ne segue un’altra dello stesso segno, così come che ad un’azione cattiva se ne contrapponga una dello stesso genere. La giustificazione di tale scelta risiede in una ben precisa motivazione. Tale orientamento, infatti, adempie all’imperativo di trattare
«l’uomo come un fine»163, non come un mezzo. Pertanto, se si contrappone un male ad un reato si rispetta la volontà dell’uomo, che nella sua libertà ha scelto un’azione meritevole di castigo. Se, in opposizione, si decidesse per un intervento di tipo educativo, questo diventerebbe il fine, mentre l’uomo sarebbe solo il mezzo attraverso cui attuarlo.
Anche G.W.F. Hegel, riflettendo sulla questione, giunge a sostenere la medesima tesi, benché argomentata con differenti motivazioni. Per lo studioso, infatti, se l’uomo è assolutamente libero significa che, scegliendo, pone nell’oggetto la propria volontà personale, così che tale oggetto identifica l’uomo stesso. Un contratto è un accordo fra due volontà, ma sulla base dell’arbitrio e della cosa accidentale, vale a dire sulla volontà accidentale che non è concorde con il diritto, generando così, spesso, l’illecito. Questo, però, non cancella il diritto in sé e per sé, che interviene per risolvere i diverbi, visto che non ha interesse nella cosa particolare. Con il diritto l’uomo stabilisce una legge universale valida per sé e la sua negazione è la vendetta, che però viene anch’essa da una volontà particolaristica, quindi è una nuova lesione; tale gioco potrebbe continuare all’infinito. Solo l’intervento di una persona estranea ai fatti, che rappresenta una volontà particolare ma conforme al diritto, può risolvere tutto questo e tale «realizzazione del diritto nel caso particolare, senza il sentimento soggettivo dell’interesse particolare, spettano a un potere pubblico, al giudice»164. La pena inflitta dal giudice nega, infatti, la negazione posta dal delinquente, facendo sì che tutto torni allo stato iniziale di giustizia. Impossibile, all’opposto, è stabilire quale sia la pena giusta per un reato, ma la legge, con la relativa punizione, deve sempre esistere, dato che la giustizia è il fine ultimo assoluto, l’opera universale.
162 B. SPINOZA, Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità (trad. dal tedesco), Sansoni, Firenze, 1953, p. 45.
163 I. KANT, Introduzione alla metafisica dei costumi (trad. dal tedesco), Laterza, Bari, 1997, p. 95.
164 G.W.F., HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (trad. dal tedesco), Laterza, Bari, 1965, p. 192.
Fa ritorno a posizioni utilitaristiche il pensiero di F. Nietzsche, secondo il quale le leggi in vigore sono l’espressione della morale inventata dai deboli, molti e paurosi, per soggiogare i forti. A tale scopo sono stati promossi valori quali il disinteresse, il sacrificio di sé e la sottomissione165.
Per concludere questa carrellata di autori, ricordiamo la teoria di H. Bergson, secondo il quale le norme sono soltanto il frutto della pressione sociale, non rappresentando affatto la giustizia. L’essenza di questa può essere colta solamente da persone quali Socrate e Gesù, capaci di andare oltre i valori del gruppo, scoprendo che il fondamento dell’agire rettamente è l’amore.
Dagli spunti offertici dagli autori appena richiamati, si può notare come la riflessione sul termine in esame sia nata ad un livello prettamente etico per declinare, col tempo, sul piano giuridico e politico. Essa, la giustizia, rappresenta il quadro di riferimento «dei principii etici che oggi riteniamo patrimonio valoriale universale»166 e, soprattutto nel passaggio dal piano ideale della riflessione filosofica a quello concreto della stipulazione di leggi, incarna l’idea della liberazione dall’oppressione del più forte. In quest’ottica la giustizia diviene «il diritto dell’uomo nello Stato»167, che si pone, così, come l’ideale base di ogni nazione. Questa deve, attraverso la stipulazione di leggi che tendano alla promozione del bene, garantire ad ogni singolo individuo la possibilità di crescere nella pienezza delle proprie potenzialità, così da permettere «il pieno sviluppo della persona»168. L’ottica di promozione della persona, facendo i conti con la necessità di raffrontare le differenti situazioni dei singoli per realizzare un’efficace distribuzione «di diritti e doveri, di obbligazione e compiti, vantaggi e svantaggi, responsabilità e onori»169, ha fatto sì che lo Stato procedesse a quella che viene comunemente denominata giustizia distributiva, dato che concerne la «distribuzione del bene e del male» e «il trattamento comparato degli individui»170. Essa non rappresenta, però, l’unica prospettiva. Per esempio, esiste la giustizia retributiva, riguardante la risposta da offrire ad un atto; tale risposta, in quest’ottica, deve essere un bene se l’atto era orientato in tal senso, oppure un male se l’atto seguiva quest’altra direzione. Opposta a questa è una visione della giustizia di stampo rieducativo che, andando oltre l’idea che «essere giusti (…) significa dare a
165 In riguardo a ciò si leggano i paragrafi 7, 8, 9 e 10 di F. NIETZSCHE, Genealogia della morale (trad. dal tedesco), Mondatori, Cles (TN), 1979, pp. 21-27.
166 L. TUNDO, Principi etici e agire pratico, in ID. (a cura di), Etica e società di giustizia, Dedalo, Bari, 2001, p. 9.
167 H. COHEN, Etica della volontà pura, op. cit., p. 441.
168 P. NEPI, Quale valore uomo? Quale senso dello Stato?, in G. GALEAZZI (a cura di), Stato democratico e personalismo, Vita e Pensiero, Milano, 1985, p. 310.
169 A. DANESE, Il senso dello Stato in Maritain e in Mounier, in G. GALEAZZI (a cura di), Stato democratico e personalismo, op. cit., p. 116.
ciascuno quanto gli spetta»171, propone il perdono come uno dei termini fondamentali per la sua identificazione, dato che, essendo «un atto di misericordia, esso è dunque più che giustizia»172. In ogni caso, indifferentemente dalla prospettiva in cui ci si pone, risulta chiaro come l’ideale della giustizia sia l’ottica nella quale lo Stato si pone al fine di garantire il bene ai propri cittadini e, proprio in vista di ciò, elabora proposte di leggi e riforme che accrescano l’offerta di ciò che è ritenuto bene, nella convinzione che esso è ciò che deve essere giustamente ricercato ed ottenuto. J. Lacroix, rifacendosi all’ispirazione di P.J. Proudhon, afferma che «il motore di tutta l’evoluzione umana è (…) il sentimento della giustizia»173, ribadendo, ancora una volta, quale sia la naturale tendenza dell’uomo e la sua innata incapacità di aderire a ciò che considera male.
Ora che è stato specificato cosa intendiamo con giustizia, ma prima di proporre quelli che secondo noi sono i valori fondamentali ad essa orientanti, è essenziale specificare l’oggetto primo a cui essi si devono riferire, benché implicitamente già affermato. La giustizia, da quanto esplicitato, è una virtù dell’uomo e per l’uomo. Con l’espressione “dell’uomo” intendiamo dire che essa necessita di una riflessione razionale per una continua rielaborazione della sua consistenza e, in particolare, per una sua corretta applicazione nell’agire pratico e nell’elaborazione delle leggi. Quando affermiamo che è una virtù “per l’uomo” sottolineiamo la sua utilità, o forse necessità, nell’intrecciare rapporti stabili e formativi fra le persone. Agire secondo giustizia, perciò, è la corretta modalità per creare relazioni distinte dal rispetto reciproco e fondate sulla fiducia nell’uomo come essere capace di con-vivere, vale a dire di crescere con gli altri tramite l’aiuto reciproco. Una minima speranza nell’altro è la base indispensabile per ogni convivenza e deve sussistere in qualsiasi situazione. Kant ci ricorda che «anche in guerra deve persistere una qualche fiducia nel modo di pensare del nemico, perché altrimenti non potrebbe concludersi nessuna pace»174. Ecco, quindi, che i valori fondamentali che garantiscono l’atto giusto devono avere come riferimento primo la persona.
La definizione del termine persona presenta non poche difficoltà. Tale obiettivo, infatti, richiede di identificare caratteristiche comuni a tutti gli uomini e che li differenziano dagli altri esseri viventi. Un tentativo di soluzione è già stato abbozzato nella prima parte del capitolo, quando abbiamo affermato che l’uomo è identificato dalla comunicazione significativa. Essa, sulla base delle caratteristiche che la contraddistinguono, richiede il
170 W. FRANKENA, Etica. Un’introduzione alla filosofia morale, op. cit., p. 118.
171 I. PASCAL, È possibile perdonare?, op. cit., p. 92.
172 Ibidem, p. 93.
173 J. LACROIX, Il personalismo come anti-ideologia (trad. dal francese), Vita e Pensiero, Milano, 1974, p. 140.
174 I. KANT, Per la pace perpetua (trad. dal tedesco), BUR, Milano, 2003, p. 53.