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L’uomo come essere capace di riscattarsi dall’errore

Nel documento CAPITOLO I ANTROPOLOGIA DELL'ERRORE (pagine 78-92)

L’errore è una realtà endemica all’essere umano e, perciò, inevitabile. Tale tesi ci porta, conseguentemente, ad affermare che una persona non può essere valutata in modo negativo e definitivo sulla base di uno o più errori, altrimenti ci troveremmo tutti nella condizione di essere perennemente sotto accusa. Non solo; se adottassimo tale ottica l’uomo verrebbe continuamente caricato del peso di ogni suo errore, che finirebbe con il

253 Ibidem, p. 189.

diventare un fardello insopportabile per chiunque. A livello razionale, pertanto, si è portati a tentare di comprendere ogni errore senza estremizzarne le conseguenze, movendo dal presupposto ottimistico che la strada della perfettibilità è percorribile. L’idea di questa via come un percorso tortuoso, irto e colmo di insidie, ci fa accettare la possibilità di una o più eventuali cadute e di un incedere lento ed affannoso, il quale, tuttavia, rappresenta l‘unico mezzo per giungere alla vetta della conoscenza. Questa, infatti, si pone oltre il livello quotidiano della riflessione, richiedendo all’uomo impegno e dedizione totali. Cosa ancora più importante, però, è che essa si presenta come un obiettivo che deve essere perseguito, poiché «l’uomo (…) non si realizza se non nella conoscenza»255.

L’ottimismo a cui facevamo riferimento si basa sull’idea del futuro come apertura, come opportunità e come possibilità. Il futuro, pertanto, è visto come qualcosa che si rinnova di continuo sulla base di quello che noi vogliamo diventi, in considerazione, certamente, delle circostanze ambientali e dell’interazione con le altre persone. Questo spazio di apertura, incerto ma esistente, è la possibilità, considerata «come l’orizzonte per il quale l’essere si costituisce sempre di nuovo, (…) per il quale l’essere (…) si fa storia non secondo la forma della certezza o della necessità, ma secondo la forma dell’apertura, del rischio, del non-totalmente-prevedibile»256. Questa prospettiva, oltre che da una riflessione razionale sul processo di sviluppo della conoscenza, deriva da un intrinseco ottimismo, che poggia sulla fiducia nelle proprie e nelle altrui capacità, nonché sulle buone intenzioni del prossimo. Inoltre, per far ritorno ad un tema a noi ormai caro, la negazione della suddetta apertura negherebbe all’uomo la libertà, annullata dall’insorgere dell’errore nella vita.

Da tali presupposti possiamo dedurre che l’ottica opposta a quella proposta può essere definita come pessimismo, identificato da Kant come «il male radicale»257. L’autore tedesco elabora tale definizione per sottolineare che le persone pessimiste non riescono ad immaginare ciò che ancora non è se non in prospettiva negativa, attivando un circolo vizioso che, alla situazione iniziale di negatività, aggiunge male su male, tendendo a mortificare la persona piuttosto che ad avvalorala come soggetto capace di raggiungere una situazione esistenziale conforme alla propria natura. L’idea di un percorso aperto alla possibilità è la condizione necessaria alla concezione dell’uomo come essere contraddistinto dall’educazione. Solamente tramite essa, infatti, ogni persona può tendere

254 Cfr. V. SKLOVSKIJ, L’energia dell’errore (trad. dal russo), Editori Riuniti, Roma, 1984, p. 37.

255 G. FLORES D’ARCAIS, C. XODO CEGOLON, Intervista alla pedagogia, op. cit., p. 107.

256 P. BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, op. cit., p. 181.

257 H. COHEN, Etica della volontà pura, op. cit., p. 449.

a quei traguardi che si pone e che considera degni di attenzione e fatica per essere raggiunti. Questo naturale desiderio verso ciò che deve essere e che può essere rappresenta lo stimolo ad un moto incessante, spinto da energia sempre nuova e vigorosa. È per questo che «l’educabilità dell’uomo viene (…) pensata nei termini della perfettibilità. La formazione del soggetto è definita da un movimento che è sempre volto a ricomprendere e a ridefinire la propria forma in ragione di un ulteriore cambiamento, che si offre al singolo come occasione di perfezionamento»258. In tutto ciò vi è necessariamente connaturata una propensione a credere che tale cambiamento possa andare nella direzione della perfezione anche quando la situazione esistenziale del soggetto si presenta come particolarmente complicata e carica di profonda sofferenza. L’educatore, quindi, anche contro i dati concreti e le riflessioni della ragione, ha da coltivare nel proprio lavoro la convinzione, anche a costo che sia illusione, che ogni situazione può essere recuperata. Soltanto ponendosi verso l’educando con questo atteggiamento, riuscirà a trasmettergli l’energia necessaria a non lasciarsi abbattere dalle circostanze e a renderlo autore del proprio progetto esistenziale. Il lavoro educativo sembra fondarsi sulla speranza, necessaria a «costruire un discorso pedagogico ed una conseguente prassi educativa finalmente corretti, attraverso i quali cioè l’uomo di domani riesca a riconquistare (…) le fondamentali unità di senso, capaci di orientare opportunamente la sua esistenza»259.

L’idea della possibilità e della speranza come categorie endemiche della riflessione pedagogica è sostenuta anche dalla ricerca in altri ambiti. Ancora una volta richiamiamo le ricerche di L. Von Bertalanffy che, interpretando la realtà alla stregua di un sistema ed applicandone le categorie anche alla persona, sostiene che differenti organismi, pur movendo da situazioni iniziali alquanto disomogenee, possono raggiungere i medesimi traguardi. Su tale convinzione lo studioso sostiene che «se, in un sistema aperto, si raggiunge uno stato stazionario, quest’ultimo è indipendente dalle condizioni iniziali ed è unicamente determinato dai parametri del sistema, e cioè dai ritmi di reazione e di trasporto. È questa la cosiddetta equifinalità»260. Essa, essendo un concetto elaborato in riferimento ad ogni tipologia di sistema aperto, vale anche per le persone ed avvalora, su basi scientifiche, il concetto di speranza di cui abbiamo appena parlato. A tale categoria di riflessione va aggiunta quella della responsabilità.

258 S. NOSARI, L’educabilità, La Scuola, Brescia, 2002, p. 11.

259 P. BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, op. cit., p.145.

260 L. VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, op. cit., p. 226.

Se è vero che il cammino dell’uomo può essere modificato e che il contributo altrui a tale processo ha un peso significativo, è necessario che la persona partecipi attivamente a tale attività, dato che un atteggiamento di chiusura e di rifiuto invaliderebbe ogni tentativo di cambiamento. La persona, pertanto, in termini più o meno determinanti, è responsabile diretta del cammino che la vede protagonista, è artefice della propria storia.

Vivere significa, tramite un apprendistato che dura tutta l’esistenza, divenire «capaci di scegliere: nel divenire se stesso, l’uomo prende la forma di un soggetto che sceglie. (…) Divenire se stessi significa essere capaci di responsabilità, quindi prender forma di un soggetto di responsabilità»261. Ci è sembrato significativo porre l’accento sulla questione temporale. L’essere umano non si percepisce causa delle proprie azioni fin dalla nascita e, spesso, anche in età matura, tende ad attribuire la responsabilità dei propri atti a terzi o a condizioni ambientali immodificabili e influenti in maniera quasi deterministica sul processo della scelta. All’opposto, una persona matura e responsabile dovrebbe riuscire a valutare con attenzione quanto di direttamente suo è presente in ogni scelta, arrivando a notare che, sebbene spronata da molteplici fattori anche non tutti conoscibili, nessun atto potrebbe avvenire al di fuori dell’assenso della propria volontà. Ecco che «essere responsabili non può significare altro che concepirsi all’origine dei propri comportamenti, ossia rispondere, per così dire, di sé e di tutto ciò in cui siamo direttamente implicati»262.

L’idea della fondamentale responsabilità del singolo rispetto alle proprie azioni è sostenuta in vari ambiti di riflessione. Fra essi, ci pare di indiscutibile rilievo quello del diritto penale. Esso, infatti, si appropria il diritto di giudicare l’operato altrui e di imporre conseguenze sulla base di tale valutazione. Tale processo si basa sull’idea che «tutte le persone sono capaci di commettere crimini eccetto (…) le persone che hanno commesso l’atto imputatogli senza esserne coscienti»263. Questa citazione, tratta dal Codice Penale della California, esprime un concetto presente in ogni altra nazione di stampo democratico, per la quale nessun uomo può essere accusato di un reato se non è padrone delle proprie azioni. Lo stato di incoscienza, che porta alla non imputabilità, non gli è ascrivibile e, pertanto, lo solleva sia dalla colpa sia dal dolo, essendo considerato come una patologia. Questa riflessione, che apparentemente esula dal nostro campo d’indagine, ci sprona ad una breve ma significativa considerazione. La persona che commette un reato, o che più in generale agisce nella prospettiva del male senza esserne cosciente,

261 S. NOSARI, L’educabilità, op. cit., p. 80.

262 P. BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, op. cit., p. 141.

263 A. OKSENBERG RORTY, The many faces of evil: historical perspectives, op. cit., p. 328.

difficilmente potrà essere recuperata e potrà garantire un comportamento conforme alla legge per il futuro. All’opposto, una persona sana di mente e cosciente della propria responsabilità rispetto alle proprie azioni potrà, forse, per il tramite di un cammino di ricupero, comprendere quale sia la direzione da dare alla propria esistenza e gestirne positivamente il dispiegarsi. Con ciò non vogliamo affermare che la persona incapace di intendere e volere vada internata, dato che non possiamo cambiarne il futuro, e nemmeno che il responsabile di un reato non vada assolutamente punito. Quello che desideriamo sottolineare è che nella persona cosciente del proprio agire possiamo trovare uno spazio di apertura e di speranza verso il futuro e che tale strada, a livello morale, non può essere trascurata.

Cosa intendiamo con il termine riscatto? Impieghiamo il termine per indicare quel processo che conduce all’equilibrio fra due situazioni, così da poter essere giudicate come uguali. Più correttamente, il riscatto si riferisce ad un’unica situazione che è mutata nello scorrere del tempo e che si vuole riportare allo stato iniziale delle cose, dato che esso è considerato corretto. Tale cambiamento è dovuto ad un evento che rompe l’iniziale equilibrio di armonia nella direzione di un nuovo stato valutato come ingiusto. Se il cambiamento migliorasse la situazione esistente, nessuno si sentirebbe in dovere di far ritorno alla precedente condizione. Il riscatto, perciò, si riferisce ad una nuova realtà non accettabile, perché percepita come sbagliata, e si costituisce come il tentativo di ricreare l’equilibrio perduto.

Una considerazione va immediatamente fatta. Secondo la nostra opinione, in realtà, non è pensabile che una situazione, una volta mutata, possa essere riportata al precedente stato senza che vi siano differenze fra i due momenti. Infatti, nel giudicare una situazione non ci riferiamo solamente alle caratteristiche che possiede in quell’istante ma anche alla storia che ha portato al suo stato. Ecco che, obbligatoriamente, l’evento che altera l’equilibrio e il processo che tenta di ristabilirlo lasciano tracce indelebili sulla nuova situazione che, pertanto, non potrà essere mai identica a quella originaria e di riferimento.

Un’analisi delle sole caratteristiche effettivamente rilevabili condurrebbe alla considerazione prettamente empirica ed utilitaristica di un vissuto che, secondo la prospettiva da noi assunta, non si può in alcun modo ridurre ad un insieme di dati statistici o quantitativi. Il riscatto, pertanto, può essere considerato come un processo che nasce dal passato (rottura dell’equilibrio), si gioca nel presente (azione riparatrice) e si orienta verso il futuro (ricostruzione dell’equilibrio). Questo processo, però, non può muovere dall’illusione di ricreare esattamente ciò che è stato, bensì dalla speranza di giungere ad

una situazione che possa sostituire quella antecedente. L’elemento che rompe l’equilibrio possiamo definirlo come errore.

Anche in questo caso, per riflettere sul concetto di riscatto, procederemo secondo uno schema ormai collaudato. Data la definizione appena elaborata del termine in questione, tenteremo di comprendere secondo quale prospettiva possiamo parlare di riscatto nel giudizio e nella scelta.

Prendiamo avvio dal giudizio. Esso è pura attività teoretica e, in quanto tale, non cambia la situazione pratica; ciò, lo ricordiamo, avverrebbe solo con il conseguente intervento della volontà. Una critica a quanto detto potrebbe essere immediatamente sollevata. Spesso si afferma che le parole hanno più potere dei fatti e, secondo noi, questo è vero. Inoltre, grazie all’esperienza sviluppata nella storia e all’assunzione di determinati valori, viviamo in una società che ha eletto a criterio valutativo delle dispute la discussione ragionata e non l’affermazione della forza bruta. Balza subito alla mente la riflessione popperiana sul concetto di democrazia e, soprattutto, sulla gestione del potere in essa. Il filosofo austriaco, riflettendo sulle forme di potere, le classifica in due fondamentali gruppi, affermando che «esistono solo due forme di governo: quelle che mettono i governati in condizione di liberarsi dei loro governanti senza spargimento di sangue, e quelle che non glielo permettono, o lo permettono solo con lo spargimento di sangue. La prima di queste forme di governo è abitualmente chiamata democrazia, la seconda tirannide o dittatura.

Ma qui non ci interessa il nome, bensì la cosa»264. Secondo quanto rilevato, si sostiene che in una società civile il potere debba essere affidato alle parole e alle idee che esse rappresentano, non ai fatti, soprattutto se espressione di arroganza e prevaricazione. Il giudizio, pertanto, appare come attività con riscontri pratici anche di fondamentale rilievo.

Questo, però, avviene solamente nel momento in cui esso è comunicato al fine di convincere qualcun altro di una propria idea o per indurlo a fare qualcosa. In questo caso non parliamo più di giudizio puro, ma di giudizio a cui fa seguito la volontà di diffonderlo per raggiungere un ben determinato fine. Si ha, quindi, l’atto pratico della comunicazione.

Se, all’opposto, ragioniamo in riguardo al giudizio vero e proprio rimaniamo nel mondo delle idee, senza scalfire nemmeno quello dell’atto, limitando la nostra riflessione alla valutazione della corrispondenza fra un’ipotesi sostenuta e la realtà delle cose.

La conoscibilità del fatto rappresenta un principio necessario al giudizio, poiché è quella condizione che permette di giungere, o tentare di raggiungere, la conoscenza. Se viene meno tale dimensione, il percorso intrapreso perde la sua validità e il giudizio si

264 K.R. POPPER, Alla ricerca di un mondo migliore, op. cit., p. 224.

rende vano. In quest’ottica, alcuni autori, ampliando un concetto dal campo pratico al campo del teoretico, affermano che «la bontà sta nella conoscibilità»265, proprio per sottolineare la chiusura di prospettiva e il declino che si avrebbe se i fatti non potessero essere analizzati e valutati. L’essere conoscibili non garantisce, però, la conoscenza degli oggetti analizzati; abbiamo già visto quali possono essere le cause dell’errore nel giudizio e come l’errore può essere riutilizzato. Quello che dovremo fare, ora, è capire cosa comporta un’idea sbagliata, quale disagio implica e come risolvere quest’ultimo. Il giudizio errato, una volta individuato e rielaborato, può essere, in linea teorica, semplicemente sostituito da quello nuovo, nella speranza che quest’ultimo si avvicini maggiormente alla realtà dei fatti. Tale atto non comporta alcuna altra implicazione, in quanto concerne solamente il mondo delle idee, le quali sono entità astratte, isolate dal resto del creato e i cui collegamenti fra di esse sono una nostra supposizione. Esattamente nello stesso modo in cui li supponiamo, tali collegamenti li possiamo negare per immaginarne e verificarne di nuovi. Il riscatto nel giudizio, vale a dire quel processo che risolve la situazione errata, pertanto, non comporta alcuna questione di particolare rilevanza, se non l’individuazione dell’errore e il problema, sempre impellente, dell’elaborazione di un nuovo giudizio. La questione, purtroppo, non è di così facile soluzione. Riscattare un giudizio errato significa accettare consapevolmente il proprio errore, concepire il proprio essere creature fallibili la cui credibilità della valutazione viene messa in discussione.

Il discorso prende ora due vie: la prima concerne la fiducia che una persona conserva nelle proprie possibilità, nonostante l’errore; la seconda riguarda la fiducia che altre persone mantengono nei nostri confronti in seguito alla rilevazione del fallo commesso. A monte di questi due percorsi va fatta una riflessione. L’unica posizione utile ad un positivo cammino nell’ottica del riscatto è quella della modestia. Tale posizione, infatti, implica l’accettazione della propria fallibilità. Questo fatto, però, non porta all’umiliazione della persona, che finisce con il percepirsi inadeguata ad ogni situazione, bensì alla disposizione a verificare, controllare e rielaborare le proprie idee, ritenute valide, poggiando su argomentazioni, ma solo fino a quando non vengono confutate. La confutazione, sulla scia di quanto affermato ed illustrato da Popper, rappresenta un passo verso la conoscenza. Inoltre, bisogna imparare a convivere con l’idea che qualsiasi ipotesi non possiede in sé alcun criterio di certezza e, pertanto, per quanto a lungo possa conservare la sua validità, sarà sempre soggetta al dubbio.

265 L. NUTRIMENTO, La definizione del bene in relazione al problema dell’ottimismo, op. cit., p. 14.

Per tentare di raggiungere la conoscenza, dobbiamo imparare che l’unico strumento veramente valido è il dubbio. «La scepsi conduce alla critica. E la modestia è la virtù della critica, la virtù che rende sensibili alle lacune e ai limiti del sapere»266. Invece, se ci arrocchiamo sul piedistallo della presunzione di aver raggiunto la verità, non lasceremo spazio ad alcun miglioramento personale. La presunzione si trasformerà in superbia e questa, poi, in odio e rifiuto di ogni posizione differente dalla nostra. La fiducia verso se stessi, se si è convinti di quanto detto, non deve crollare. È indubbio che accorgersi di commettere errori a brevissima distanza l’uno dall’altro, magari banali e grossolani, può porre questioni sulla propria affidabilità. Forse, in questo caso, va esaminato e riconsiderato l’impiego stesso degli strumenti di giudizio, ricordandosi, inoltre, che, se è vero che gli strumenti sono identici per tutti, è anche vero che il loro utilizzo varia sia in base alle capacità personali sia in funzione dell’abitudine a farne uso. È proprio per tale condivisione universale che una teoria, sebbene criticata e confutata, difficilmente non contiene almeno qualche elemento di verità e, continuando su questa scia, è sempre per tale fatto che spesso si difendono ad oltranza le proprie posizioni, proseguendo a sottolinearne gli aspetti forti e tralasciando quelli lacunosi. Quando la confutazione è effettuata da una persona in riguardo all’idea di qualcun altro subentra, oltre alla possibile sfiducia in se stessi, il timore dello screditamento altrui nei propri confronti. In questo secondo caso il riscatto consiste nell’elaborare un nuovo giudizio, più accurato ed attento, solo questo potrà riscattarci. Infatti, se non agiamo in questo senso l’ultima valutazione su di noi sarà quella concernente la confutazione della nostra teoria, che verrà inevitabilmente equiparata ad un nostro fallimento. Tale tipo di valutazione deriverà non tanto dalla discordanza rilevata fra quanto detto e ciò che è, quanto dal fatto che quella specifica rilevazione è coincisa con l’arresto del processo conoscitivo da parte del soggetto. La sfiducia che gli altri possono provare nei nostri confronti è, pertanto, derivante da quella che proviamo verso noi stessi e che blocca il processo conoscitivo. L’unico modo per riscattare l’errore consiste nel rimettersi in gioco in prima persona e riavviare il processo interrotto, rilanciando se stessi e la propria credibilità, nulla di più. Da tutto ciò fa seguito la convinzione che «lo scopo (…) non è l’eliminazione dell’errore, bensì la tolleranza del sistema nei confronti dell’errore stesso»267. Solamente quando non verremo più appesantiti insensatamente da un carico che non ha ragione d’essere potremo effettuare il riscatto tanto agognato dell’errore nel giudizio. Questa situazione di consapevolezza del proprio essere fallibili e della possibilità del riscatto ci riconcilia con noi

266 H. COHEN, Etica della volontà pura, op. cit., p. 381.

stessi, tanto da farci sentire soddisfatti e felici se ci muoviamo nella direzione indicata. Per questo possiamo notare che, solitamente, «la modestia arreca la contentezza di sé»268.

Passiamo ora alla scelta. Tale atto è di natura pratica. L’errore nella scelta, abbiamo compreso, consiste nella realizzazione di un atto che non va nella direzione della completezza dell’essere e che si oppone a quelli che abbiamo identificato come i nostri valori di riferimento. Pertanto, erro quando vado nella direzione del male. Questa affermazione può apparire banale e scontata ma non è così. È importante sottolineare, infatti, che quest’ultimo termine si lega esclusivamente a quest’ambito d’indagine, che «il problema del male (…) concerne unicamente la sfera pratica»269. Avere ben chiara la collocazione di questo termine ci fa capire le ragioni per cui il termine errore assume, necessariamente, significati differenti in base al campo d’indagine preso in considerazione. Parlare di errore secondo un’unica prospettiva significa sminuire la complessità dell’oggetto in analisi e trascurare di attribuirgli aspetti che gli sono peculiari.

Se parliamo di scelta, l’abbiamo già evidenziato, non possiamo non rilevare una dose, più o meno elevata, di volontarietà nell’adempimento dell’atto. Solamente quando agiamo indipendentemente dalla nostra coscienza e volontà non ci riteniamo responsabili del fatto compiuto e, pertanto, anche rilevando un errore non gli attribuiamo alcun peso. Ne consegue che, se parliamo di male, «intenzione ed errore sono due concetti inscindibili»270. La prima, inoltre, unitamente alla possibilità di immaginare le conseguenze di un’azione, è la caratteristica che distingue l’uomo dall’animale ed, infatti, è grazie ad essa che «diventa possibile una vera direzionalità verso il fine»271. L’errore nella scelta può compiersi secondo due direttive apparentemente irrilevanti, poiché possono essere entrambe considerate portatrici di male, ma che ci condurranno presto ad una riflessione fondamentale per il fine della nostra attuale ricerca, vale a dire la definizione della possibilità del riscatto nella scelta. Il compimento del male può essere attuato contro se stessi o contro altri. Iniziamo dal primo caso e pensiamo ad un atto violento quale l’infliggersi una ferita con un coltello. Nel momento in cui una persona compie tale atto verso se stessa si parla di autolesionismo; a nessuno passa per la testa l’idea che quella persona si debba riscattare per aver commesso quel male. L’atteggiamento consueto di terze persone si incarna nello stupore per tale azione e nel legare l’atto ad una psicopatologia dell’individuo. Di conseguenza, si tentano di capire le motivazioni del

267 J. REASON, L’errore umano (trad. dall’inglese), Il Mulino, Bologna, 1994, p. 393.

268 H. COHEN, Etica della volontà pura, op. cit., p. 394.

269 P. RICŒUR, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, op. cit., p. 32

270 J. REASON, L’errore umano, op. cit., p. 37.

271 L. VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, op. cit., p. 376.

Nel documento CAPITOLO I ANTROPOLOGIA DELL'ERRORE (pagine 78-92)