procedimento antifrastico che risale a Hes. Theog. 585-587 αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ τεῦξε καλὸν κακὸν ἀντ᾽ ἀγαθοῖο | ἐξάγαγ᾽, ἔνθα περ ἄλλοι ἔσαν θεοὶ ηδ᾽ ἄνθρωποι, | κόσμῳ ἀγαλλομένην γλαυκώπιδος ὀβριμοπάτρης (non condivido, quindi, l’interpretazione del verso di Olivieri 1946 p. 130: «una disgrazia preparata per tutta la vita»). L’altissima probabilità che questo frammento sia effettivamente spurio suggerisce di non ventilare neppure quanto si è detto riguardo casi simili di contrazione -ου- nei participi dei verbi in vocale nelle γνῶμαι pseudo-epicarmee (cf. qui la discussione di φθονούμενος in [Epich.] fr. 267,1-2).
[Epich.] fr. 270
σώφρονος γυναικὸς ἀρετὰ τὸν συνόντα μὴ ἀδικεῖν {ἄνδρα} Stob. 4.23.37 Ἐπιχάρμου· σώφρονος – ἄνδρα.
συνόντα SMA : συνεόντα Ahrens 1843 p. 459 ἄνδρα SMA : delevit Rittershusius 1610 p. 39 (testibus K.-A. I p. 154; probarunt Ahrens 1843 p. 459, Lorenz 1864 p. 265 qui de altera interpretatione quoque monuit, Kaibel 1899 p. 143, Olivieri 1946 p. 128) : ut primum verbum alterius versus interpretatus est Polman Kruseman 1834 p. 86 s. (probavit Rodríguez-Noriega 1996 p. 196 s.)
«La virtù di una donna assennata è di non fare torto al marito»
Fonte: il verso è citato nell’Anthologium di Stobeo (da cui è confluito in Arsen. 15.87d) all’interno
della sezione che raccoglie i γαμικὰ παραγγέλματα (4.23).
Costituzione del testo: il primo elemento da osservare è la forma attica del participio συνόντα,
incompatibile con l’Epicarmo storico e che Ahrens sostituiva quindi con συνεόντα (per la scansione in sinizesi di -εο-, cf. καλέοντ’(ι) in Epich. fr. 40,11); d’altro canto, il frammento potrebbe anche essere spurio, il che renderebbe superfluo ogni intervento per dorizzarlo. Il problema principale è comportato dalla sua sezione finale. L’espunzione proposta da N. Rittershausen (e accolta da gran parte degli editori) è un intervento plausibile: ἄνδρα può essere una glossa interpretativa superflua e intrusa (già σύνειμι indica il convivere: per estensione, ὁ συνών è uno dei membri della coppia; cf. LSJ s.v. II). Se si accoglie questa soluzione, per sanare il metro (si avrebbe altrimenti un problematico dattilo in settima sede) bisognerebbe immaginare (e gli editori si dividono fra le due soluzioni) l’aferesi in ἀδικεῖν o, piuttosto, una sua scansione in sinalefe (per i casi epicarmei, cf. Rodríguez-Noriega 1996 p. XXVIII con le precisazioni qui indicate a n. 808). Una via alternativa è percorsa per primo da Polman Kruseman 1834 p. 86 s. (seguito dalla sola Rodríguez-Noriega), che non obietta nulla al contenuto e stampa il testo nella forma σώφρονος γυναικὸς ἀρετὰ τὸν συνόντα μὴ ἀδικεῖν | ἄνδρα.
Metro: fatte salve le perplessità relative alla parte finale del verso (vide supra), il frammento è
interpretabile com un 4troch.^ con incisione mediana e soluzione in anapesto della quarta sede (cf. Kanz 1913 p. 42 s.).
Contenuto: ancora una sentenza di tema misogino (cf. anche [Epich.] frr. 247, 268, 269), sebbene
qui si abbia più un ammaestramento che non una critica dei loro difetti come invece negli altri casi. In particolare, nel verso in esame si loda quale virtù principale di una moglie il non fare torto (in ogni senso) al proprio marito.
Elementi in favore/contro l’autenticità: gli editori tendono a ritenere spurio il frammento407. Gli elementi di cui disponiamo non permettono di emettere un giudizio inoppugnabile intorno alla provenienza del verso (la fonetica di ἀρετά con [a:] conservato non è chiaramente un appiglio sufficiente per l’autenticità; per i problemi comportati da συνόντα in termini di costituzione del testo, vide supra).
407 Rodríguez-Noriega 1996 p. 196 s. ( = Epich. fr. 350 Rodríguez-Noriega) lo tratta come dubbio, ma senza fornire indicazioni specifiche. Kaibel 1899 p. 143 ( = *[Epich.] fr. 286), sulla cui scia anche Olivieri 1946 p. 128 s. ( = [Epich.] fr. 262 Olivieri), ritiene spurio il frammento e lo assegna alle Γνῶμαι di Axiopisto. Lorenz 1864 p. 265 ( = Epich. B. Ἄδηλα fr. *36 Lorenz) lo inserisce fra gli incertae sedis, ma ne sospetta la spurietà. In Polman Kruseman 1834 p. 86 s. ( = Epich. Fragmenta incertarum fabularum fr. XVI Polman Kruseman) e Ahrens 1843 p. 459 ( = Epich. fr. 140 Ahrens) non si formulano considerazione in quanto alla paternità del verso, ma almeno il secondo tenta di emendarne gli elementi linguistici non-dorici.
[Epich.] fr. 271
τῶν πόνων πωλοῦσιν ἡμῖν πάντα τἀγαθ’ οἱ θεοί
Xen. Mem. 2.1.20 (inde Stob.1 3.1.205, codd. MABr) αἱ δὲ διὰ καρτερίας ἐπιμέλειαι τῶν καλῶν τε κἀγαθῶν ἔργων
ἐξικνεῖσθαι ποιοῦσιν, ὥς φασιν οἱ ἀγαθοὶ ἄνδρες. λέγει δὲ που καὶ Ἡσίοδος· [ … = Op. 287-292]. μαρτυρεῖ δὲ καὶ Ἐπίχαρμος ἐν τῷδε· τῶν – θεοί. καί ἐν ἄλλῳ δὲ τόπῳ φησίν· [ … = Epich. fr. 136]
Stob.2 3.29.8 (codd. SMA) Ἐπιχάρμου· τῶν – θεοί.
Stob.3 3.29.48a (codd. SMBr) Ἐπιχάρμου· τῶν – θεοί.
Syr. In Hermog. vol. I p. 6,9 Rabe τῶν γὰρ – θεοί. (ubi versus Platoni tributus est)
Hermog. Progymn. 3 Rabe ἄλλος δὲ ποιητής φησι· τῶν – θεοί. (sine nomine poetae; hunc locum latine vertit Prisc.
Praeexerc. 2.10 (GL III p. 432,26 Keil = RLM p. 553,24 Halm)
Alex. Aphr. In Arist. anal pr. CAG II,1 p. 303,20 Wallies ἀντὶ τῶν πόνων διδοῦσι – θεοί. (sine nomine poetae) Anon. In Arist. Eth. Nic. CAG XX p. 153,21 Heylbutt τῶν – θεοί. (sine nomine poetae)
τῶν Xen., Stob.1, Stob.2, Stob.3 (Br), Hermog., Anon. : τῶν γὰρ Syr. : ἀντὶ τῶν Alex. : ῥεπόντων Stob.3 (SM) (ut
marginale πρέπον interpretatus est Grotius 1623 p. 528, ῥέπον ex alio versu nunc deperdito excidisse opinavit Bucheler apud Hense) ἡμῖν Xen. Stob.1, Stob.2, Syr. Hermog., Alex., Anon. (scripsi contra editores omnes) : αμῖν Stob.3 (S) :
αμὶν Stob.3 (M, Br?) πάντα τ(ὰ) ἀγαθ(ὰ) Xen. (Z), Stob.1 (A), Stob.2 (S), Stob.3 (SM), Alex., Anon. : πάντα τ’ ἀγαθοὶ
Stob.1 (Md) : ἅπαντα τ(ὰ) ἀγαθὰ οἱ Hermog. : πάντα τἀγαθὰ Xen. (MORY), Stob.1 (Br), Stob.2 (M, A?), Stob.3 (Br) :
πάνταγάθ’ οἱ Xen. (B) : πάντ’ ἀγαθοὶ Xen. (X) : τὰ πάντα ἀγαθὰ Xen. (A) : τἀγαθὰ οἱ Syr. verba ita traiecit Ahrens 1843 p. 457, ut versus τῶν πόνων πωλοῦντι πάντα τἀγαθ’ αμὶν τοὶ θεοί sit (probarunt Lorenz 1864 p. 259 et Rodríguez- Noriega 1996 p. 176 s.)
«A prezzo delle fatiche gli dei vendono a noi ogni bene»
Fonti: la presente è una massima che ha conosciuto una diffusione abbastanza notevole. Per il passo
di Senofonte in cui si cita il verso pseudo-epicarmeo, cf. qui § 1 e n. 4. La sentenza è poi citata da Stobeo in due sezioni del suo Anthologium, che trattano rispettivamente περὶ ἀρετῆς (3.1) e περὶ φιλοπονίας (3.29). Le altre quattro fonti a riportare il verso (una attribuendolo a Platone, le altre senza indicarne la paternità) ne fanno uso in questi ambiti: in Siriano serve a esemplificare (insieme ad altri loci classici) l’affermazione di Ermogene (Περὶ ἰδεῶν λόγου 1.1) ἐπεὶ μηδὲ ἄλλο τι τῶν χρηστῶν ἐκ τοῦ ῥᾴστου παραγίνεσθαι πέφυκεν; in Ermogene la citazione pseudo-epicarmea si inserisce in una sezione intera (si citano anche Isocrate, Demostene ed Esiodo) in lode dello sforzo per il conseguimento dei risultati migliori; nel commento di Alessandro di Afrodisia all’Etica
nicomachea la sentenza chiosa l’affermazione per cui πὰν γὰρ ὠφέλιμον μετὰ πόνου καὶ ἐπίπονον;
nel commento anonimo gli Analitici primi, infine, il verso serve a esemplificare la possibile diversità di giudizio intorno alle cose, dal momento che se alcuni apprezzano il πόνος (come nella sentenza pseudo-epicarmea), altri lodano invece la ἡδονή.
Costituzione del testo: il frammento presenta alcuni problemi. Ahrens (seguito da Lorenz e
Rodríguez-Noriega) ha tentato di emendare la facies linguistica attica del frammento (cf. l’assibilazione in πωλοῦσιν) e restituire così la sentenza all’Epicarmo storico. Per restituire una fonetica dorica e non violare il metro si renderebbe tuttavia necessario operare una serie di inversioni. Si tratta di un intervento di natura conservativa, ma che richiede una sostanziale riscrittura (τῶν πόνων πωλοῦντι πάντα τἀγαθ’ αμὶν τοὶ θεοί). Soprattutto, questa proposta non spiega la genesi dell’errore e quindi del testo tradito: se a creare problemi nel verso (ammettendo una sua forma originaria qual è ricostruita da Ahrens) era la forma πωλοῦντι, una sua banalizzazione attica (con assibilazione) quale πωλοῦσι sarebbe stata possibile anche senza alterare l’ordine delle parole nel verso (in altre parole, il verso ricostruito da Ahrens recita τῶν πόνων πωλοῦντι πάντα τἀγαθ’ αμὶν τοὶ θεοί e avrebbe quindi potuto produrre τῶν πόνων πωλοῦσι πάντα τἀγαθ’ αμὶν τοὶ θεοί senza comportare ulteriori spostamenti). È decisamente più probabile, quindi, convenire con i dubbi avanzati da Kaibel 1899 p. 144 rispetto alla proposta di Ahrens. Se tutto
questo è vero, viene allora spontaneo agire diversamente da quanto fanno tutti gli altri editori del frammento in relazione alla scelta della variante del dativo del pronome di prima persona (se πωλοῦσι è da mettere a testo, ci aspettiamo evidentemente l’attico ἡμῖν e non la variante dorica con [a:]). La mia impressione è quindi che si potrebbe accogliere a testo lo ἡμῖν dei codici di Senofonte e interpretare αμιν di Stob.3 (M, S, Br?) come un’emendazione (a meno che, come anche in altri casi avviene, la sentenza non mantenesse una patina dorica superficiale rappresentata da [a:] conservato). Gli esiti αμῖν e αμὶν differirebbero nell’accentazione perché i manoscritti S e M (di certo discendenti da un archetipo comune)408 derivano da antigrafi in maiuscola; l’accentazione dorica “giusta” αμὶν potrebbe anche essere un risultato puramente casuale più che un preziosismo (cf. anche Hense 1894 p. XXXV in merito ai frequenti errori di accentazione in M).
Prosodia, metro: il verso è un 4troch.^ privo di soluzioni e con cesura mediana.
Contenuto: il contenuto della massima è saggezza comune (cf. ad esempio Eur. IT 114-115 τοὺς
πόνους γὰρ αγαθοὶ | τολμῶσι, fr. 364 TrGF ἐκ τῶν πόνων τοι τἀγάθ’ αὔξεται βροτοῖς).
Elementi in favore/contro l’autenticità: la posizione degli editori è scissa fra quanti lo ritengono
spurio e quanti ne sostengono l’autenticità, con questi ultimi che per farlo accolgono l’emendazione suggerita da Ahrens409. A mio avviso, gli elementi formali spingono con forza nella direzione della spurietà. La facies linguistica attica e l’attestazione della sentenza già a data molto alta (la sua prima menzione è in Xen. Mem. 2.1.20) potrebbero suggerire una provenienza del verso dalla Πολιτεία pseudo-epicarmea, ma non si tratta dell’unica possibilità (potrebbe anche essere una rielaborazione attica di un verso epicarmeo, poi confluita in una Gnomensammlung in circolazione ad Atene).
408 Per la tradizione dei libri 3-4 dello Anthologium di Stobeo (il Florilegium), cf. il quadro riassuntivo di Taormina- Piccione 2010 pp. 36-38 e lo stemma tracciato da Ranocchia 2011 p. 351.
409 Il frammento è ritenuto spurio da Kaibel 1899 p. 143 s. ( = [Epich.] fr. 287 CGF) e Olivieri 1946 p. 118 s. ( = [Epich.] fr. 231 Olivieri), che lo assegnano alle Γνῶμαι di Axiopisto. Lorenz 1864 p. 259 ( = Epich. B. Ἄδηλα fr. 15 Lorenz) e Rodríguez-Noriega 1996 p. 176 s. ( = Epich. fr. 313 Rodríguez-Noriega) inseriscono invece il frammento nel novero di quelli autentici ma incertae sedis (cf. anche Berk 1964 p. 157). Nessuna considerazione sulla paternità del verso si ha in Polman Kruseman 1834 pp. 88-90 ( = Epich. Fragmenta incertarum fabularum fr. 21 Polman Kruseman) e Ahrens 1843 p. 457 ( = Epich. fr. 120 Ahrens), ma quest’ultimo restaura il testo in un forma dorica plausibile per l’Epicarmo storico (vide supra), quindi lo ritiene quasi sicuramente autentico.
[Epich.] fr. 272
]τις δυστυχῶν βίον τ’ ἔχων ] ̣τε κἀγαθὸν ψυχᾷ διδῷ ]ν οὔτι φασῶ μακάριον
μ]ᾶλλον χρημάτων ἄλλῳ τ[̣ ⏑ _
Pap. Petrie 3,1 (saec. III; ed. Mahaffy 1891 p. 13 s. cum phototypo tab. III Classical Fragments) Ἐπιχάρμου· ]τις – ἄλλῳ τ [̣ . denuo edd. Diels-Kranz 1934 p. 205 ( = Epich. D.-K. 23 B 45a), Kaibel 1899 p. 146 ( = [Epich.] fr. 297
CGF), Olivieri 1946 p. 131 ( = [Epich.] fr. 266 Olivieri), Austin 1973 p. 82 ( = [Epich.] fr. 89 CGFP), Rodríguez-
Noriega 1996 p. 187 ( = Epich. fr. 334 Rodríguez-Noriega), K.-A. I p. 156 ( = [Epich.] fr. 272), Pordomingo 2013 pp. 126-128 num. 14,1-5.
1 μηδὲν γὰρ εἴ] Kaibel 1893 pp. 62-64 : ἀνὴρ γὰρ εἴ] Hense 1893 p. LXXV : ἥκιστά γ’ ὄς-] Diels : αἴκα δ’ ἀνήρ Latte
apud Kaibel : αἰ μὴ πάνυ γά] Slings p. 41 δυστυχῶν papyrus : εὐτυχῶν Elter 1893 p. 68 2 μηδὲν καλόν] Kaibel 3 ἐγὼ μὲν αὐτὸν] Kaibel : τόνδ’ ] Hense : ἐγών γα τῆνον] Slings 1979 μακάριον [πεφυκέναι Hense 4 φύλακα δὲ μ]ᾶλλον Kaibel τ[̣ papyrus : τ[̣ελεῖν Milne 1922 p. 65 : τ[̣ινί Carrara 1987 p. 16 n. 14
« … uno (?) (non?) essendo disagiato e avendo una (buona condizione di) vita | … e (non?) fa del bene all’anima | … non (lo) dirò felice | … (ma) piuttosto delle ricchezze per un altro … »
Testimone manoscritto: il frammento di papiro (collezione Petrie) che conserva i versi pseudo-
epicarmei è stato edito da Mahaffy 1891 p. 13 s. (che ne suggerisce su base paleografica una datazione ante 250). Al v. 4 siamo sicuri che la sede dispari del 4troch.^ coincidesse con le prime due sillabe di χρημάτων (le due sillabe precedenti e quelle successive a esse hanno infatti una scansione spondaica). Di conseguenza, questo verso non poteva essere “in asse” con i precedenti, dove invece le prime due sillabe che leggiamo coincidono con la successione trocaica necessaria in sede dispari, a fronte di quella spondaica determinata dalle due sillabe che seguono (al v. 1, inoltre, siamo sicuri che la sede che precede δυστυχῶν fosse a sua volta spondaica). È ragionevole concludere che le singole linee di testo avessero una lunghezza soggetta a una discreta oscillazione.
A seguire il frammento attribuito a Epicarmo sono tre versi euripidei (Eur. fr. 198,1-3 TrGF), citati (con l’aggiunta di un quarto verso) anche in Stobeo (3.16.3), dove se ne indica la provenienza dall’Antiope. L’evidente prossimità di contenuto fra i versi dei due poeti (che siano genuinamente loro o meno) ha delle ricadute non solo per la ricostruzione del frammento pseudo-epicarmeo (vide
infra), ma anche per l’interpretazione del tipo di opera contenuta in origine nel papiro, come di
seguito si mette in luce.
A giudizio di Kaibel 1893 pp. 62-64 il papiro che conserva il frammento era in origine un’opera dedicata al plagio: l’accostamento delle citazioni di (pseudo-)Epicarmo ed Euripide sarebbe stato inteso appunto ad accusare il secondo di plagio del primo, eventualità che tuttavia Kaibel esclude, invertendo piuttosto la direzione del rapporto di dipendenza (i versi dello pseudo- Epicarmo, cioè, sarebbero stati esemplati sul modello euripideo). Al di là della paternità o meno dei versi attribuiti a Epicarmo (vide infra), a sostegno della propria interpretazione Kaibel delineava un quadro di questo tipo: l’associazione di Epicarmo a Euripide nel papiro richiama alla mente altri due casi in cui citazioni epicarmee sono riportate dalle fonti insieme a passi euripidei di tenore analogo (cf. Epich. fr. 167 e qui [Epich.] fr. 260); tutto questo materiale risalirebbe, secondo Kaibel, a una raccolta, già di età alessandrina, dedicata appunto all’esemplificazione della tendenza greca alla κλοπή; in particolare, questo antecedente che Kaibel identifica in uno scritto comparabile a quello (tuttavia perduto) intitolato Περὶ κλοπῶν dell’ebreo alessandrino Aristobulo, sorto con l’intento di mostrare i furti reciproci degli autori greci e il loro debito sostanziale verso il mondo ebraico. Questa tesi è stata ripresa in forma stemperata da Slings 1979 che, senza ascrivere la provenienza ultima del papiro ad alcun autore (e a p. 42 giustamente sottolinea come Aristobulo, se vissuto nel II secolo, sia evidentemente troppo recente perché questo papiro possa avere in qualche
modo a che fare con lui), lo identifica come un trattato Περὶ κλοπῶν410.
Un’interpretazione radicalmente diversa della questione, avanzata da Carrara 1987, risulta tuttavia, a oggi, quella più convincente. Carrara fa leva su due elementi principali per scardinare la proposta originariamente di Kaibel. Il primo, la somiglianza fra i versi pseudo-epicarmei ed euripidei non prova che il contesto in cui essi sono citati dovesse trattare il tema del plagio: le raccolte gnomologiche sono piene di citazioni consecutive da autori diversi che, semplicemente, sono accostate per affinità tematica e di dettato, ma senza implicazioni in quanto al loro rapporto reciproco. In secondo luogo, la nascita e progressiva diffusione di una letteratura dedicata allo studio dei plagi è, innanzitutto, sensibilmente più bassa a livello cronologico di quanto la datazione del papiro Petrie permetta; inoltre, in genere questi temi erano affrontati in opere dove gli esempi letterari veniva raccolti all’interno di una trattazione organica, non semplicemente accostati l’uno all’altro come in uno gnomologio. A questi aspetti si aggiunge poi la dimensione formale del testo per come esso è disposto sul papiro (vide supra), che Carrara (sulla scia dello editor princeps) interpreta piuttosto come una copia di lusso destinata non alle scuole, bensì all’educazione personale411.
Costituzione del testo: la possibilità di accostare i versi euripidei (ricostruibili grazie ad altre fonti)
a quelli dello pseudo-Epicarmo ha suggerito varie integrazioni dell’emistichio destro dei versi di quest’ultimo. Tali operazioni hanno tuttavia, in ultima analisi, un valore solamente indicativo: il senso che l’estratto pseudo-epicarmeo presentava in origine è comunque deducibile dal confronto con i versi euripidei citati appena dopo nel papiro gnomologico.
Prosodia, metro: la totalità degli studiosi ha ritenuto che il frammento fosse redatto in 3ia., ma non
è chiaro cosa costringa a questa conclusione; considerata la ampia sovrapponibilità di 3ia. e 4troch.^, non c’è ragione di pensare che quanto leggiamo nel papiro non possa essere in realtà la fine di versi trocaici. Se si accoglie questa interpretazione, in tutti e quattro i versi si ha il rispetto della cesura mediana; se invece interpretassimo i versi come reliquie del 3ia., tutti i versi presenterebbero l’incisione pentemimere. Quale che sia l’interpretazione metrica del frammento, se trocaica o giambica, in ogni caso la sequenza φασῶ μακάριον infrange il ponte di Porson, come accade anche in diverse altre γνῶμαι pseudo-epicarmee (cf. [Epich.] frr. 249, 256,1 e 264,1).
Contenuto: come già evidenziato, il contenuto dei quattro versi sentenziosi pseudo-epicarmei è
estremamente simile a quello di Eur. fr. 198 TrGF εἰ δ’ εὐτυχῶν τις καὶ βίον κεκτημένος | μηδὲν δόμοισι τῶν καλῶν πειράσεται, | ἐγὼ μὲν οὔποτ’ αὐτὸν ὄλβιον καλῶ, | φύλακα δὲ μᾶλλον χρημάτων εὐδαίμονα (per i parallelismi formali, vide infra) e consiste in una critica rivolta a quanti, compiaciuti dei loro beni materiali, tralasciano la cura della propria anima e sono quindi, più che altro, dei meri custodi delle ricchezze che possiedono. Per questo genere di avvertimento morale, Carrara 1987 p. 16 n. 13 richiama anche il confronto con le citazioni di Euripide ed Eusebio rivolte contro la tesaurizzazione dissennata e raccolte, rispettivamente, in Stob. 3.16.6 e 3.16.25.
Elementi in favore/contro l’autenticità: tutti gli editori tendono a ritenere che il frammento sia
pseudo-epicarmeo412. La citazione contestuale da Euripide ha suggerito varie considerazioni intorno
410 Questa linea esegetica è quella cui si rifà, da ultimo, Kerkhof 2001 p. 99 (in particolare, ventila la possibilità che [Epich.] fr. 272 sia stato addirittura composto dall’autore stesso dello scritto Περὶ κλοπῶν dal quale proverrebbe il frammento di papiro).
411 Anche questo papiro (cf. anche [Epich.] frr. 246 e 247) rientra nell’insieme di papiri gnomologici che Pernigotti 2007 raccoglie a dimostrare come la vitalità e poliedricità delle raccolte gnomologiche ellenistiche testimonino la loro irriducibilità a un disegno comune.
412 Kaibel 1899 p. 146 ( = [Epich.] fr. 297 CGF) lo inserisce in una sezione dedicata alle fraudes epicarmee, seguito poi da Olivieri 1946 p. 130 s. ( = [Epich.] fr. 266 Olivieri). Per la natura pseudo-epigrafa del frammento si esprime anche Austin 1973 p. 82 ( = [Epich.] fr. 83 CGFP). Meno drastico è il giudizio di Rodríguez-Noriega 1996 p. 187 s. ( =
al problema dell’autenticità e alla relazione con i versi attribuiti a Epicarmo. La prima possibilità è che il frammento euripideo tradisca la familiarità del suo autore con l’Epicarmo storico (al quale i versi citati contestualmente apparterrebbero), ma questa soluzione è scartata preliminarmente da Kaibel 1893 p. 62 secondo la cui interpretazione i versi epicarmei del papiro non avrebbero la ars e il lepos che ritiene distintivamente epicarmei. La seconda possibilità è che il frammento euripideo sia un falso elaborato per provarne la dipendenza da Epicarmo, ma vari elementi escludono questa possibilità (cf. Slings 1979 p. 42 s.). La terza e ultima possibilità (la più verosimile) è che il frammento ascritto a Epicarmo sia in realtà pseudo-epigrafo e che sia stato esemplato proprio sulla base del passo euripideo (cf. Kerkhof 2001 p. 99); indipendentemente dalla provenienza o meno del papiro che conserva i frammenti da un’opera dedicata al plagio (vide supra), è sicuramente agevole pensare che i versi dello pseudo-Epicarmo tradissero un’estesa familiarità con quelli di Euripide, dal momento che i parallelismi sintattici sono tali che è difficile pensare a una genesi indipendente (vide infra).
1 δυστυχῶν βίον τ’ ἔχων: cf. Eur. fr. 198,1 TrGF εὐτυχῶν […] καὶ βίον κεκτημένος.
1 δυστυχῶν: dal momento che nel frammento si biasima un uomo fortunato e benestante che però
non si curi, oltre che della ricchezza materiale, anche di quella spirituale, questa lezione del papiro è stata accompagnata da proposte di ricostruzione della parte iniziale del verso che introducessero una negazione (così ritiene la quasi totalità degli studiosi, Kaibel, Diels, Latte, Slings), oppure è stata ritenuta un errore per εὐτυχῶν (così sostiene il solo Elter). Non convincono, invece, l’interpretazione e la conseguente ricostruzione di Hense, che propone di restituire ἀνὴρ γὰρ εἴ all’inizio della linea: se così fosse, il senso del verso sarebbe qualcosa del tipo “sia che sia sciagurato, sia che sia benestante etc”, il che non è tuttavia coerente con il tono dei versi successivi, in cui si dice che tale persona non è da lodare come μακάριος, il che necessariamente presuppone che prima si elencassero solamente elementi “positivi” quali appunto successo e benessere.
2 ] ̣τε κἀγαθὸν: il tentativo di Kaibel di integrare μηδὲν καλόν, così da comporre la formula καλὸς
καὶ ἀγαθός, è stato criticato da Wankel 1961 p. 106 n. 1 che sottolineava come tale espressione non sia più antica del IV secolo e, di conseguenza, non possa essere restituibile in un frammento epicarmeo autentico; se questa cronologia relativa è vera, allora ciò può rinforzare il giudizio intorno alla natura spuria del frammento una volta che si ammetta l’integrazione di Kaibel: del resto, in una sentenza pseudo-epicarmea l’uso di tale espressione non sarebbe affatto sorprendente (cf. anche ποτὶ καλόν τε κἀγαθόν in [Epich.] fr. 244,3).
3 ]ν οὔτι φασῶ μακάριον: cf. Eur. fr. 198,1 TrGF οὔποτ’ ὄλβιον καλῶ. Mentre tutti gli altri studiosi
postulavano esclusivamente la lacuna iniziale (vide supra per le proposte di integrazione, sostanzialmente paritetiche), l’unico a sospettare che la lacuna sia tanto iniziale che finale del verso è stato Hense, il quale ha proposto, conseguentemente, di restituire il verso nella forma τό]ν[δ’] οὔτι φάσω μακάριον [πεφυκέναι. Tale operazione è, da un lato, ammissibile: si è detto come la collocazione di μ]ᾶλλον χρημάτων nel metro spinga a credere a una certa oscillazione nella lunghezza delle linee (vide supra), per cui anche in questo caso si potrebbe pensare che la fine del verso non fosse “in asse” con le precedenti. D’altro canto, dalla riproduzione del papiro in Mahaffy 1891 Tab. III Classical Fragments si vede chiaramente come vi sia un vacat dopo μακάριον, il che sconsiglia di restituire altro testo in questo punto.