Capitolo 5 I frammenti ex Alcimo
5 ἄρα: per quest’uso di ἄρα conclusivo in una domanda in cui si generalizzi l’affermazione
dell’altro interlocutore, cf. Eur. Hel. 802 e Or. 1525, Aristoph. Eccl. 553, 630 e 668 (in questi ultimi due casi si aggiunge una nota di stupore, cf. Ussher 1973 p. 163 e p. 169).
6 ὧν: questa forma del pronome relativo a base *jo- e trova confronti metricamente garantiti in
Epicarmo (cf. Willi 2008 § 5.3.3.3b). I frammenti mostrano anche una precoce estensione dell’uso con valore di relativo delle forme pronominali a base *to- e, nel caso, qui dovremmo avere τῶν in funzione di relativo. Introdurlo nel testo non sarebbe difficile (γ’(ε), che potrebbe essere un errore di maiuscola Γ/Τ o una banalizzazione), ma non è necessario agire in questo senso.
6 νυν: questa forma a vocale breve (garantita dal metro), di ascendenza dorica almeno secondo
Ruijgh 1957 p. 65538, può avere anche valore temporale (cf. Finglass 2007b e Fiorentini 2012).
6 ἦς: questa è la forma etimologica della terza persona singolare dell’imperfetto di εἰμί (*e-eh1s-t >
*ēs(t)), soppiantata in ionico-attico da ἦν (originariamente la terza persona plurale, ἦν < ἦεν < *ēhen < *ēs-en(t) < *e-eh1s-ent; l’innovazione ha determinato un nuovo imperfetto ἦσαν per la
terza persona plurale, per disambiguare il nuovo singolare ἦν da ἦν plurale etimologico).
537 Il contesto comico non scredita il valore documentario di questi passi.
538 Ruijgh giunge a questa conclusione proprio per l’uso (pseudo-)epicarmeo di νῠν, che grazie anche al confronto pindarico ritiene essere di ascendenza dorica anche nelle sue isolate occorrenze epico-liriche.
[Epich.] fr. 276 (A) αἰ πὸτ ἀριθμόν τις περισσόν, αἰ δὲ λῇς πὸτ ἄρτιον, ποτθέμειν λῇ ψᾶφον ἢ καὶ τᾶν ὑπαρχουσᾶν λαβεῖν, ἦ δοκεῖ κα τοί γ’ <ἔθ’> ωὑτὸς εἶμεν; (B) οὐκ ἐμίν γα κα. (A) οὐδὲ μὰν οὐδ’ αἰ ποτὶ μέτρον παχυαῖον ποτθέμειν λῇ τις ἅτερον μᾶκος ἢ τοῦ πρόσθ’ ἐόντος ἀποταμεῖν, 5 ἔτι χ’ ὑπάρχοι κῆνο τὸ μέτρον; (B) οὐ γάρ. (A) ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπους· ὃ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὃ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾷ δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν τωὐτῷ μένει, ἅτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος. 10 καὶ τὺ δὴ κηγὼ χθὲς ἄλλοι καὶ νὺν ἄλλοι τελέθομες, καὖθις ἄλλοι κοὔποχ’ ωὑτοὶ κὰτ τὸν <αὐτὸν αὖ> λόγον Diog. Laert. 3.11 ( = Alcim. FGrHist 560 F 6, post [Epich.] fr. 275) πὸτ – λόγον.
1 αἰ ex ἦναι, cf. [Epich.] fr. 275,6 πὸτ ἄρτιον Bergk 1886 p. 268 s. : τὸν ἄρτιον BPF 2 ποτθέμειν Ahrens 1843 p. 315 :
ποτε θεμιν B : ποτὲ θέμην P1 (-ιν P2) : πότε θέμῖν F τᾶν ὑπαρχουσᾶν Lorenz 1864 p. 267 : τἄν ὑπάρχουσαν F, τὰν -αν
BP 3 γ’ ἔθ’ ωὑτὸς Kaibel 1899 p. 122 : κ’ ἑαυτος B : κα*αυτος P1 (rasura supra υ) : καὶ ὁ αὐτὸς PF3 : γ’ ἔθ’ αὑτὸς
Breitenbach-Buddenhagen-Debrunner-von der Muhll 1907 p. 9 : τόχ’ ωὑτὸς Hermann apud Huebner 1828 I p. 201 p ειμεν B : εἰ μὲν PF ἐμίν γα κα Hermann 1850 p. 380 (probarunt Diels [D.-K. 23 B 2,3] et Rodríguez-Noriega 1996 p. 149) : ἐμίνγα κα Cobet 1878 p. 71 et Kaibel : ἐμίν τα κα B, τακα PF 4 αἰ ποτὶ Scaliger apud Stephanus 1573 p. 55 : αποτί B : ἀποτι P1 (-τί P3) : ἀπότι F παχυαῖον Scaliger : παχυ εον BPF ποτθέμειν Ahrens p. 315 : ποτ’ θεμειν B (ει ex
ι) : ποτ’ ἐθέμιν P : ποτε θέμην F2 (τε θέμην in rasura) 5 ἅτερον Ahrens p. 115 et p. 452 (cf. v. 10) : ἕτερον P3 : στερον
B : στερρὸν P1 : στερ ρ ὸν F2 (στερ et ὸν in rasura) 6 χ’ Scaliger : κ’ BPF κῆνο B : κεῖνο P, F (ει ex ι) : τῆνο Scaliger
ὅρη Scaliger : ὄρη B, Fac : ὁρῆ P : ὀρῆ Fpc 7 τὸς ἀνθρώπους B : τὼς -ους P : τὼς -ως F γα μὰν F : γαμᾶν P1 (-ὰν P2) :
γ’ αμαν B 8 ἐντὶ BP3F1 : ἐν τῆ P1F2 9 κοὔποκ’ Grotius 1626 p. 965 : καὶ οὔποκ’ P ex correctione : καὶ οὔπω κ’ P1 : καὶ
οὔποκ’ F (ω sopra o F2) : καὶ οὔποτ’ B2 (οτ’ in rasura) : κωὔποκ’ Ahrens p. 452 τωὐτῶι Ahrens p. 452 : ταὐ BPF μένει
B : μενεῖ PF 10 ἅτερον Ahrens p. 115 et p. 452 (cf. v. 5) : ἕτερον BPF κα τόδ’ ἤδη τοῦ Cobet p. 71 : καὶ τὸ δεὶ τοῦ B : κάτω δη τοῦ P : κατο (ω supra o F2) δὴ τοῦ F : κα τόδ’ ἀεὶ τῶ Breitenbach-Buddenhagen-Debrunner-von der Muhll : κα
τὸ δὴ τοῦ μὴ Mouraviev 2005 p. 464 s. 11 κηγὼ Ahrens p. 452 : κἀγὼ BPF νὺν BPF τελέθομες PF : οιμες B 12 ωὑτοὶ Ahrens p. 222 : αὑτοὶ B2 : αὐ- PF κὰτ τὸν αὐτὸν αὖ Cobet : κατὰ τὸν BPF : κατά γα τοῦτον τὸν Breitenbach-
Buddenhagen-Debrunner-von der Muhll 1907 p. 9 : κατὰ τὸν αὐξήσιος Mouraviev p. 465 (probavit Álvarez Salas 2009 p. 80 et n. 27)
«A: “Se uno a un numero dispari, o se vuoi a un pari, | desidera aggiungere un sassolino oppure togliere uno da quelli che ci sono, | ti sembra che il numero resti lo stesso?”. B: “A me non potrebbe certo (sembrarlo)”. | A: “No di certo, e neanche se uno vuole aggiungere a una misura di un cubito | [5] un’altra lunghezza, oppure toglierla da quella che c’era prima, | rimarrebbe ancora quella la misura?”. B: “No, infatti”. A: “Così, dunque, guarda | anche agli uomini: l’uno cresce, l’altro decresce, | tutti sono perennemente in trasformazione. | Ciò che cambia rispetto alla propria natura e non resta mai nella stessa condizione | [10] sarebbe già un altro rispetto a quello che è mutato. | Anche tu e io ieri eravamo altri e ora siamo altri | e poi altri ancora e mai gli stessi per questo identico principio”»
Fonte: per il contesto di citazione, cf. qui l’analisi che ne viene data in [Epich.] fr. 275. Oltre a
quanto già discusso, si noti come l’assunto fondamentale del frammento, la non-identità di un soggetto esposto al divenire, sia incompatibile con il pensiero platonico, in cui al divenire si contrappone un livello, intellegibile, di stabilità.
Costituzione del testo: per quanto riguarda il problematico rapporto con [Epich.] fr. 275 (la
restituzione di αἰ al primo verso e il conseguente dubbio se i due frammenti compongano un tutt’uno o meno) rimando a quanto già detto nell’analisi di [Epich.] fr. 275. Il resto del frammento
qui in esame non presenta problemi testuali di particolare entità539. In vari casi i manoscritti conservano meccanicamente, senza dare prova di capirle davvero, delle forme dialettali buone (cf. v. 2 τᾶν ὑπαρχουσᾶν, v. 3 εἶμεν, 7 γα μὰν). Gli errori da emendare per congettura consistono in: banalizzazioni (cf. v. 1 πὸτ, vv. 2-4 ποτθέμειν, vv. 3-9-12 ωὑτὸς-τωὐτῷ-ωὑτοὶ, v. 4 αἰ), errori paleografici e/o per banalizzazione (cf. v. 3 γα, analogo a quanto accade in [Epich.] fr. 277,11) o acustici dovuti alla pronuncia bizantina (cf. v. 4 κῆνο, v. 6 παχυαῖον, v. 8 ἐντὶ). In alcuni casi la scelta fra le lezioni dei codici è determinata dal metro (cf. v. 7 τὸς ἀνθρώπους). Altrove si deve correggere la scriptio plena, ancora visibile (cf. v. 9 κοὔποκ’) o da postulare come spiegazione degli errori generici (cf. v. 6 χ’). Le integrazioni che sono state proposte dagli studiosi e accolte, da ultimi, in K.-A. I sono largamente soddisfacenti540.
Un discorso a parte riguarda invece le forme ἅτερον (vv. 5 e 10) e κηγὼ (v. 11), che metto a testo in discontinuità con ἕτερον e κἀγὼ stampati da K.-A. Le forme ἅτερον e κηγὼ vanno preferite in quanto conformi alla facies dialetale dorica attesa per Epicarmo (cf. Buck 1955 § 13.3 per la prima forma e, soprattutto, *ταὶ ἅτεραι > θάτεραι in Epich. fr. 40,9541 oltre al testualmente problematico caso di *τοῦ ατέρω > θωτέρω in Epich. fr. 88; cf. invece Buck 1955 § 94.6 per κἀγὼ/κηγὼ e le crasi di καί che prevedono [a] + [e] > [ε:] (oppure [e] in sillaba chiusa) in Epich. fr. 27,7 κἤπειτα, fr. 60 κηκτραπελογάστορας [vel κἐκτραπελογάστορας con Bechtel 1923 p. 239 s.], fr. 63 κημβάφια [vel κἐμβάφια con i codici e Bechtel 1923 p. 239 s.], fr. 69 κηπιπλόου, fr. 88,2 κηκελήσατο). È assolutamente lineare sostenere che in tutti e tre i casi che riguardano il presente frammento i copisti abbiano commesso banalizzazioni estremamente semplici e frequenti, come del resto ne commettono molte altre nel trascrivere questo e gli i frammenti epicarmei trasmessi in Alcimo/Diogene. La scelta di questi editori è da raffrontare molto probabilmente a quella che li porta a stampare ἔμολεν in [Epich.] fr. 275,5 e poi οὖν e γίγνεται in [Epich.] fr. 277,1-2-4-7, quasi al fine di accumulare un numero di elementi linguistici che diano una più distinta impressione di spurietà542.
Prosodia, metro: anche questo frammento è redatto in 4troc.^. I cambi di battuta si verificano
esclusivamente in ἀντιλαβή (vv. 3 e 6; per la ἀντιλαβή in Epicarmo e nei frammenti ex Alcimo, cf. qui l’analisi prosodico-metrica di [Epich.] fr. 277), che può essere anche doppia all’interno di un singolo verso (v. 6, cf. Epich. frr. 113,387 e 147); una coincidenza di cambio di battuta e cesura mediana si ha al v. 6 (primo cambio di battuta), mentre al v. 3 e al v. 6 (secondo cambio di battuta) le due componenti coincidono con la cesura che precede il sesto elemento (meno frequente ma comunque attestata nel 4troc.^ drammatico, cf. West 1982 p. 91). A livello prosodico, la scansione del nesso ML è tautosillabica in ἀριθμόν (v. 1; cf. anche in [Epich.] fr. 240,1-2, che proviene però 539 Le forme ἐμίν (v. 3) e κῆνο (v. 6) saranno discussi più avanti nel commento, in quanto hanno implicazioni linguistiche più ampie e che richiedono una trattazione loro interamente dedicata.
540 Il tentativo di Mouraviev 2005 p. 464 s. di restituire diversamente il v. 10 appare superfluo, così come il ragionamento che egli conduce (p. 464: «mais s’il st vrai qu’entre celui qui change (encore) et celui qui a (dejà) changé il y a une certaine distance, il est également vrai que cette distance se raccourcit avec le temps; plus il s’en écoulera et moins ce qui est en train de changer sera […] différent de ce qui a déjà changé, moins il sera ἕτερον» ) è debole.
541 La valutazione che di questa forma viene data da Willi 2008 § 5.3.2b e n. 26 non convince. Lo studioso lega questo caso a quelli di Epich. frr. 60 κηκτραπελογάστορας (da correggersi in κἐκτραπελογάστορας) e 63 κημβάφια (codd. κἐμβάφια, da accogliere): secondo la ricostruzione che era già di Bechtel 1923 p. 239 s. (e approvata da Thumb- Kieckers 1932 § 166.15), in questi due casi la sillaba chiusa iniziale di parola determina una crasi regolarmente a timbro [e], ma con la vocale breve (graficamente, κἐκ- e non κηκ) per evitare la sillaba superlunga. Il caso di θάτεραι in Epich. fr. 40,9 è però del tutto differente da quelli appena osservati: a parte il fatto che la sillaba è aperta, l’esito [a:] (la quantità vocalica è garantita dal metro, si tratta della prima sillaba del 4troc.^) della crasi iniziale si spiega solamente ponendo un incontro di [a] + [a] (e non [a] + [e], come invece accade con καὶ + ἐκ-) .
542 Fra gli altri editori del frammento: Kaibel 1899 p. 122 stampa Epich. fr. 170 con ἕτερον (vv. 11 e 16), ma poi corregge in κηγὼ (v. 17); in Epich. D.-K. 23 B 2 si stampano ἕτερον (vv. 5 e 10) e κἀγὼ (v. 11), ma almeno per quest’ultima forma si registra l’emendazione di Ahrens; in Epich. fr. 152 Olivieri e in Epich. fr. 248 Rodríguez-Noriega si stampano sia ἕτερον (vv. 11 e 16) che κἀγὼ (v. 17), ma almeno Olivieri ricorda, per l’una e l’altra forma, le proposte di correzione avanzate da Ahrens.
da un’opera sicuramente spuria) e in μέτρον (vv. 4 e 6; cf. anche τὸ πρᾶγμα e τέχνα in [Epich.] fr. 277,6-11, τέκνα in [Epich.] fr. 278,4, μέτρον in [Epich.] fr. 280,3; per l’Epicarmo autentico, cf. qui § 1.2.7). Tutti i versi presentano la regolare cesura mediana. In nessun caso una sillaba lunga occupa irregolarmente la posizione prescritta per una breve (sorge appunto il dubbio che la forma τὸς al v. 7 possa essere stata escogitata metri causa). Le soluzioni sono abbastanza frequenti: quelle anapestiche (cf. Kanz 1913 p. 42 s.) sono quattro (v. 1 seconda sede, v. 4 quarta sede, v. 5 seconda sede, v. 9 quarta sede), quelle in tribraco (cf. Kanz 1013 p. 41 s.) ritornano in sette casi (v. 5 settima sede, v. 6 prima e quarta sede, v. 7 sesta sede, v. 9 prima sede, v. 10 prima sede, v. 11 settima sede). Il v. 8 è l’unico verso epicarmeo e pseudo-epicarmeo a noi noto che sia composto esclusivamente da trochei puri (lo notava già Kanz 1913 p. 40). Al v. 5 si viola la legge di Porson-Havet.
Contenuto: il fulcro del frammento ruota attorno alla negazione dell’identità di un soggetto esposto
alle trasformazioni comportate dai processi, costanti e ininterrotti, di crescita e decrescita. Attraverso il ricorso a due esempi, di ambito rispettivamente matematico (vv. 1-3) e metrologico (vv. 4-6), il personaggio A mostra al suo interlocutore come l’aggiunta o la sottrazioni di elementi impedisca di affermare che ciò cui sia stato aggiunto o sottratto qualcosa resti poi lo stesso dall’inizio alla fine del processo che lo coinvolge; stabilita questa base teorica, sulla quale il personaggio B si trova a convenire, la persona A estende poi il discorso anche all’ambito umano (vv. 6-12): dal momento che ogni uomo può crescere e decrescere, questo vuol dire che siamo tutti esposti a un analogo processo di trasformazione (vv. 6-8); tale processo investe la nostra stessa φύσις, che non può rimanere nella stessa condizione (v. 9) perché anche il frutto di una trasformazione diviene poi subito diverso da quello che era appena diventato (v. 10); il risultato è che, negata su base logica l’identità di quanti siano esposti ai processi di cambiamento, ne consegue che non manteniamo la nostra identità personale neppure da un giorno all’altro (vv. 11-12).
Questo tipo di argomentazione logica è noto come αὐξ(αν)όμενος λόγος (“discorso accresciuto” o “discorso dell’accrescimento”)543. È da ritenersi estremamente plausibile, se non sostanzialmente certo, che, quando Plat. Theaet. 152d inserisce Epicarmo fra i pensatori e poeti che credono all’inarrestabile forza del divenire e quando poi le fonti raccolte in Epich. fr. 136544 attestano il ricorso epicarmeo allo αὐξ(αν)όμενος λόγος, tutti questi alludano, se non proprio ai versi che compongono [Epich.] fr. 276, in generale al più ampio contesto da cui tale frammento proviene545. Tale conclusione ha delle ricadute fondamentali in quanto al problema dell’autenticità dell’estratto citato da Alcimo/Diogene (vide infra), riguardo la quale è altamente probabile che non si debbano nutrire più dubbi: in quanto segue, quindi, discuto il frammento trattandolo come autenticamente epicarmeo.
543 In alcuni casi si usa il verbo αὐξάνω (Chrys. fr. 397 SVF II = Philo Aet. mund. 48), in altri si ha invece αὔξω (Anon. Comm. Plat. Theaet. col. 71,12, Plut. Mor. 559a). La grafia αὐξ(αν)όμενος che si è adottata serve appunto a indicare l’interscambiabilità delle due forme.
544 Anon. Comm. Plat. Theaet. col. 71,12 ᾽Επίχαρμος ο[ἶα ὀμιλή]σας τοῖς Πυθα[γορείοις] ἄλλα τ[έ] τινα εὖ [ἀπέδω]κεν δ[όγ]ματ[α καὶ τόν] [περὶ τ]οῦ αὐξομ[ένου] λ[όγον] ἐφοδ[ικῶς καὶ πισ]τ[ῶς ἐ[πέρα[(ι)νε. οὐ μὴν] ἀλλ’ ὡς ἄ[φοδοι γίνον]ται πρόσο[δοί τε ἐναρ]γές, εἰ οὐχ [ἑστώς τις] γί[νε]ται μ[είζων ἢ ἐ]λ[ά]ττων· ε[ἰ δὲ τοῦτο,] οὐσίαι ἄλλ[οτε ἄλλαι] γίνονται [διὰ τὴν συν]εχῆ ῥύσιν. κα[ὶ ἐκ]ωμώιδησεν αὐτὸ ἐπὶ τοῦ ἀπαιτουμένου συμβολὰς καὶ [ἀ]ρνουμένου τοῦ αὐτοῦ εἶναι διὰ τὸ τὰ μὲν προσγεγενῆσθαι, τὰ δὲ ἀπεληλυθέναι, ἐπεὶ δὲ ὁ ἀπαιτῶν ἐτ[ύ]πτησεν αὐτὸν καὶ ἐνεκαλεῖτο, πάλιν κ[ἀ]κείνου [φά]σκοντος [ἄλλ]ο μὲ[ν] ε[ἶ]ναι τὸν τ[ετυ]πτηκότα, ἕτερο[ν δὲ] τὸν ἐγκαλούμ[ε]νον (la prima parte del testo è stata adeguata in conformità con la prima delle due letture, altamente migliorative, proposte da Battezzato 2008 pp. 154-159 rispetto all’edizione del papiro di Bastianini-Sedley 1995 p. 458), Plut. Mor. 559a-b ταῦτά γε τοῖς Ἐπιχαρμείοις ἔοικεν, ἐξ ὧν ὁ αὐξόμενος ἀνέφυ τοῖς σοφισταῖς λόγος, ὁ γὰρ λαβὼν πάλαι τὸ χρέος, νῦν οὐκ ὀφείλει γεγονὼς ἕτερος· ὁ δὲ κληθεὶς ἐπὶ δεῖπνον ἐχθὲς ἄκλητος ἣκει τήμερον· ἄλλος γάρ ἐστι, Plut. Mor. 1083a παρίημι δὲ πολλὰς ἀτοπίας αὐτῶν τῶν παρὰ τὴν ἔννοιαν ἐφαπτόμενος. ὁ τοίνυν περὶ αὐξήσεως λόγος; ἐστὶ μὲν ἀρχαῖος· ηρώτηται γάρ, ὥς φησι Χρύσιππος [fr. 762 SVF II], ὑπ᾽ Ἐπιχάρμου. A queste testimonianze si potrebbe associare lo Ἐπιχάρμειος λόγος che viene menzionato senza ulteriori precisazioni in Sud. ε2766 Adler.
545 Il collegamento fra i passi che seguono ed [Epich.] fr. 276 era già stato istituito da Bernays 1853, che pure non poteva ancora conoscere il commento papiraceo al Teeteto. Da ultimo, l’opportunità di riaffermare questa posizione è sottolineata da Battezzato 2008 p. 159.
Fra le fonti che compongono Epich. fr. 136 si segnala per importanza il passo dal commentario papiraceo al Teeteto, che permette di ricostruire con facilità l’andamento del dramma epicarmeo (almeno nelle sue linee generali) e inquadrare il contesto da cui è ragionevole pensare che provenga il frammento in esame (gli altri due passi plutarchei che compongono Epich. fr. 136 sono discussi più avanti). Questo testimone papiraceo ci informa che le vicende drammatiche nel corso delle quali Epicarmo inseriva lo αὐξ(αν)όμενος λόγος vedevano un personaggio che rifiutava di corrispondere il pagamento delle συμβολαί richiestegli, la quota dovuta dai partecipanti a un simposio del tipo δεῖπνον ἀπὸ συμβολῶν546: questo personaggio si giustificava dicendo di non essere lo stesso (scil. colui che aveva contratto tale debito) per il fatto che alcune cose gli si erano aggiunte e altre erano venute meno; a quel punto, colui che richiedeva il denaro lo picchiava e, una volta citato in giudizio, si giustificava dicendo di essere una persona diversa da quella che aveva malmenato chi gli rifiutava il pagamento: l’argomentazione che quest’ultimo, da principio, aveva usato a proprio vantaggio viene ora rivolta ai suoi stessi danni. [Epich.] fr. 276 può quindi essere inserito molto bene in un contesto di questo genere: nel frammento si presenta infatti il fondamento teorico sulla cui base colui che rifiutava di corrispondere le συμβολαί (che sarà quindi la persona A del frammento) si poteva giustificare davanti al personaggio B (probabilmente il padrone di casa che organizzava il convito), il quale reclamava invece il pagamento della quota dovutagli dall’interlocutore547.
Un altro discorso riguarda invece le due testimonianze plutarchee548. In Mor. 1083a si attesta semplicemente il ricorso epicarmeo allo αὐξ(αν)όμενος λόγος, quindi il passo non è utile per ricostruire la trama del dramma. Il discorso relativo a Mor. 559a-b è invece molto più complesso. Plutarco ha appena ricordato (dubitando, però, del suo valore) la procedura logica con cui si nega l’identità di un soggetto esposto a un cambiamento e nota come essa assomigli molto agli Ἐπιχάρμεια da cui avrebbero poi preso esempio i sofisti per lo αὐξ(αν)όμενος λόγος, dopodiché menziona due casi: un debitore, che si rifiutava di restituire quanto gli era stato corrisposto, trovava una giustificazione per il proprio operato affermando di essere divenuto un altro da quello che aveva contratto il debito; una persona, invitata a pranzo ieri, giunge oggi senza essere invitata: è infatti divenuta un’altra. Non è chiaro, però, se e, nel caso, in che misura questi due esempi che Plutarco riporta abbiano a che fare con gli Ἐπιχάμρεια che erano stati evocati poco prima, se si tratti cioè di testimonianze relative a situazioni che si trovavano in uno o più drammi di Epicarmo e che prevedevano appunto il ricorso allo αὐξ(αν)όμενος λόγος, oppure se questi due esempi siano da ricondurre piuttosto alle argomentazioni di quei sofisti cui Plutarco ha accennato immediatamente prima. Questo problema (e, con esso, le sue ricadute per la ricostruzione della trama della commedia epicarmea) è stato affrontato in modo diverso dalla critica549, ma i risultati raggiunti non sono soddisfacenti.
Willi 2008 p. 170 s. interpreta (erroneamente) le συμβολαί menzionate nel commentario papiraceo al Teeteto nel senso di «Leihgut» equivalente cioè al χρέος di Plut. Mor. 559a-b (in realtà sono le contribuzioni dei partecipanti al simposio, vide supra). La sua ricostruzione del dramma di Epicarmo prevede dunque lo scenario seguente: un personaggio concedeva un prestito a un altro; quest’ultimo rifiutava di restituire il denaro al momento in cui il prestito scadeva e sosteneva di essere un altro da colui che aveva contratto il debito; il creditore picchiava il debitore e, citato in
546 Per la ricorrenza di questa usanza in commedia e per le sue caratteristiche e modalità, cf. le trattazioni di Arnott 1996 pp. 85-87 e Stama 2014 p. 294.
547 Kerkhof 2001 p. 70 prende posizione contro questa eventualità, sostenendo che il dialogo che si legge nel frammento realizzi una situazione del tipo “maestro e allievo”, ma questo è tutt’altro che auto-evidente come intende Kerkhof, non ci sono elementi che connotino in alcun modo l’identità die due personaggi, né si può ritenere (come fa Kerkhof nel seguito della sua argomentazione, pp. 70-72) che la scarsa verve comica del frammento sia un fattore decisivo a dimostrazione della sua spurietà.
548 La presenza di Epicarmo nell’opera di Plutarco è stata indagata nel suo complesso da Rodríguez-Noriega 1994. 549 Battezzato 2008 p. 154 non prende una posizione, ma sottolinea la stranezza del fatto che Plutarco menzioni due scene fra loro apparentemente irrelate.
giudizio, si difendeva ricorrendo alle stesse armi del debitore fraudolento, asserendo cioè di non essere lo stesso uomo che aveva picchiato quest’ultimo. Questa ricostruzione presenta dei problemi sostanziali: oltre al fatto che le συμβολαί di cui parla il commentatore a Platone non sono equiparabili al χρέος di cui parla Plut. Mor. 559a-b (Willi non evoca un contesto simposiale), lo studioso non spiega su quali basi decida di non tenere da conto la testimonianza del passo di Plutarco intorno alla persona che “invitata a pranzo ieri, giunge ἄκλητος oggi”, tanto più che tratta congiuntamente il passo del commento papiraceo al Teeteto e Plut. Mor. 559a-b come fonti parallele per la ricostruzione della trama del dramma epicarmeo.
Una ricostruzione alternativa è quella di Capra–Martinelli Tempesta 2011 pp. 154-157, ma anch’essa si espone a varie difficoltà. I due studiosi accolgono innanzitutto l’idea che i due esempi di αὐξ(αν)όμενος λόγος citati in Plut. Mor. 559a-b siano gli Ἐπιχάμρεια di cui Plutarco parlava poco prima e che essi si riferiscano a una stessa commedia, quella di cui si parla nel commentario papiraceo a Platone e alla quale vanno ricondotti [Epich.] frr. 275-276550. Quindi, nella loro ricostruzione il dramma epicarmeo vedrebbe un personaggio che si presentava ἄκλητος a un banchetto e, tramite lo αὐξ(αν)όμενος λόγος, riusciva a non corrispondere il pagamento richiestogli (le συμβολαί) e a dimostrare di non essere più lo stesso che era giunto ἄκλητος: di qui, il padrone di casa lo malmenava e il tutto finiva al modo descritto dal commentario al Teeteto. Anche questa ricostruzione è però largamente problematica, basti considerare come in Plutarco la situazione non prevedesse affatto un personaggio che giungeva ἄκλητος a un banchetto, bensì uno che, κληθεὶς χθές, era poi ἄκλητος […] τήμερον, esattamente l’opposto di quanto prospettato da Capra e Martinelli Tempesta.
Data l’insoddisfazione che deriva dalle ricostruzioni finora proposte, occorre discutere quali altre vie possano essere percorse per rendere conto del rapporto fra Plut. Mor. 559a-b e il contenuto del commentario papiraceo al Teeteto:
1) una prima possibilità è quella di rendere coerente la testimonianza di Plutarco con quanto si legge nel commentario papiraceo al Teeteto e in [Epich.] fr. 276. Il “debitore” di cui parla Plutarco (ὁ γὰρ λαβὼν πάλαι τὸ χρέος) potrebbe essere la persona che, avendo accettato l’invito a una cena ἀπὸ συμβολῶν, si era impegnata di conseguenza a versare la propria quota partecipativa551. Quando Plutarco parla di una persona che, invitata il giorno prima al banchetto, l’indomani era ἄκλητος (nel frattempo, infatti, era divenuta un’altra da prima), si può pensare che questa fosse precisamente la strategia con cui il personaggio si rifiutava di pagare le συμβολαί dopo aver comunque partecipato al banchetto, simulando cioè una condizione di parassitismo552 (non a caso, un sinonimo di ἄκλητος è appunto ἀσύμβολος, cf. Alex. fr. 259; sulla relazione fra parassitismo e ἀσυμβολία si gioca inoltre in Macho 5.44 Gow553); il personaggio B, dunque, ammettendo che A si fosse effettivamente introdotto al banchetto come ἄκλητος, lo picchiava in quanto parassita indesiderato: di qui, le vicende seguono il corso descritto nel commentario a Platone, con B che per scagionarsi dall’accusa di aver malmenato A ricorreva alla stessa argomentazione usata prima da quest’ultimo. Se si accoglie questa soluzione, l’espressione plutarchea ὁ γὰρ λαβὼν πάλαι τὸ χρέος dovrebbe essere intesa nel senso di “contrarre un debito” in senso generale (“obbligazione”, cf. LSJ s.v.; non, quindi, in riferimento specifico a una somma di denaro ricevuta in prestito), con il χρέος in questione che equivarrebbe alle contribuzioni (συμβολαί) che i commensali dovevano poi versare al padrone di casa perché coprisse le spese sostenute;
550 Secondo Capra e Martinelli Tempesta i due frammenti [Epich.] frr. 275-276 compongono un’unità indivisibile: la ragioni per cui questa soluzione non è assolutamente percorribile sono già state discusse nel commento a [Epich.] fr. 275, al quale dunque rimando.
551 Si pensi alle caratteristiche del personaggio A in Alex. fr. 15 come descritte da Arnott 1996 p. 86: «A, whose attitude throughout is that of a man under obligation to pay his share for a dinner that has proved more costly than he had expected».
552 La presenza di questa figura nella commedia siciliana è garantita da Epich. fr. 32 (cf. anche i riferimenti ai frammenti della commedia attica raccolti in Arnott 1996 p. 725 e Stama 2014 p. 293).
2) una soluzione alternativa è quella di interpretare gli Ἐπιχάμρεια, dai quali secondo Plutarco avrebbero preso ispirazione i sofisti per lo αὐξ(αν)όμενος λόγος, come più di uno scritto epicarmeo, per cui i due esempi che vengono citati appena dopo nel passo plutarcheo potrebbero provenire da una o due altre commedie di Epicarmo in cui si ricorreva allo stesso tipo di
escamotage dialettico, senza per altro che la testimonianza del commentario al Teeteto debba essere
assimilata necessariamente a una di queste due. Non è ovviamente impossibile pensare che Epicarmo ricorresse allo αὐξ(αν)όμενος λόγος in più di un dramma, per quanto presumibilmente questo potesse ridurre il potenziale comico del procedimento554;
3) l’ultima possibilità è quella di pensare che i due esempi riportati da Plutarco (il debitore e l’ospite ἄκλητος) semplicemente non abbiano nulla a che fare con Epicarmo; potrebbe trattarsi, quindi, di due tipologie di αὐξ(αν)όμενος λόγος che erano state impiegate dai sofisti ispiratisi agli Ἐπιχάμρεια citati appena prima555. In questo caso, con Ἐπιχάμρεια si potrebbe alludere a “versi epicarmei” particolarmente famosi (un estratto come [Epich.] fr. 276, ad esempio) che per la loro esemplarità erano stati un modello per i sofisti dei quali Plutarco parla contestualmente.
Ciascuna delle soluzioni prospettate ha un margine di verosimiglianza e non ci sono elementi veramente determinanti in favore o contro l’una più che l’altra possibilità. In ogni caso, come che stiano le cose con la testimonianza plutarchea e quale che sia il rapporto fra essa e il commentario al Teeteto, se quella tratteggiata da Epicarmo era una situazione legata al mancato