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A CINQUANT’ANNI DALLA FONDAZIONE DELL’ACCADEMIA NAZIONALE

D’ARTE DRAMMATICA “SILVO D’AMICO”

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Nell’anno millenovecentoventinove, Silvio D’Amico, pubblicista, critico drammatico e insegnante di storia del teatro nella Régia Scuola di Recitazione Eleonora Duse presso il Conservatorio di Santa Cecilia in Roma, pubblicava per le edizioni Mondadori un libro diventato famoso e rimasto

attuale: “Tramonto del grande attore”. A riaprirlo oggi, questo libro569, appassionato panorama del

Teatro in Italia e nel mondo del dopoguerra '14/'18, e riascoltandone il tono risentito e quasi sferzante dei gridi d’allarme per la decadenza della già illustre scena italiana, dei richiami a guardare oltre confine, dei rimproveri ai ciechi seguaci d’una tradizione spenta, degli incitamenti e sfide ai pavidi o maldestri fautori del nuovo, c’è da chiedersi se si sia mai capito quel che era in realtà: cioè un invito a programmare urgenti rimedi e addirittura un vero e proprio manifesto. Per la cultura italiana il manifesto della nuova era teatrale, che tuttora viviamo e certamente si protrarrà a lungo oltre la fine del secolo.

D’Amico segnalò con precisa consapevolezza le date miliari del fenomeno più specioso da tempo in corso, da noi appena agli inizi. Tramontata, con la sparizione della Duse oltre mare, l’ultima folgorante meteora della casta dei grandi attori, erano apparsi a oriente i prototipi di un genere diverso di interpreti; malleabili, disponibili, criticamente preparati a inserirsi in modo ideale in una concertazione d’insieme, tutti soggetti all’autore e a colui che appropriandosene responsabilità e autorità indiscusse, ne aveva assunto le veci, l’innominato despota che, appena impostosi, si fregerà da noi di nome velatamente regio.

Ma che non si chiamasse ancora regista bensì “metteur en scène” non toglieva che avesse già avuto incarnazioni tiranniche, deplorate da D’Amico, che se ne augurava solo di equilibrate e coscienziose, idealmente rappresentate da Jacques Copeau.

568 Questo documento senza data è la trascrizione corretta e riveduta personalmente da Costa del suo intervento all’incontro “Silvio D’Amico. Critica, progetto, utopia”, pubblicato successivamente in diversa forma in: Simona Carlucci (a cura di), Silvio D’Amico. Critica, progetto, utopia, Roma, ANCT, 1988.

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Il manifesto implicito nel libro del '29 sottendeva anche un programma per condurre al più presto il Teatro italiano nella corrente che ormai da oltre mezzo secolo aveva rinnovato e continuava con alterne vicende a rinnovare le scene francesi, anglosassoni, germaniche, russe.

Occorreva sollecitare la nascita del nuovo animatore e preparargli allo stesso tempo attori nuovi, quali ormai dappertutto si cercava di formare nelle scuole, col migliorare intanto l’unica pubblica esistente.

Solo sei anni dopo la comparsa del suo manifesto-programma D’Amico riusciva nel suo intento fondando l’Accademia d’arte drammatica (allora Régia, oggi Nazionale) che avrebbe diretto fino alla morte per venti anni. chi firma questo articolo è stato tra i primi allievi registi dell’Accademia nella quale ha tenuto dal '44 al '76 le cattedre di regia e di teoria dell’interpretazione.

Ma nel 1935 chi furono gl’insegnanti e chi il direttore, avendo D’Amico previsto per sé soltanto l’incarico di presidente? Per la recitazione, attori di primo piano scelti con rigorosa selezione trai i più moderni: Irma Gramatica, Gualtiero Tumiati, Luigi Almirante, cui nel tempo seguirono altri variamente autorevoli e validi: Vanda Capodaglio, Sergio Tofano, Carlo Tamberlani, Mario Pelosini, Nera Grossi Carini, Ione Morino, Alba Maria Setaccioli, Elena da Venezia, Sarah Ferrati e altri e altri.

Come Direttore, D’Amico aveva già fatto intendere nel “Tramonto del grande attore” che avrebbe mirato a Jacques Copeau. E perché? Perché Jacques Copeau, moderato ammiratore e severissimo giudice dei grandi metteurs-en-scène era in Francia già in polemica contro diverse tendenze sia veriste, sia costruttiviste della regia e in genere contro i suoi abusi: la sua evoluta posizione avrebbe consentito alla Italia di superare in un unico balzo la già consumata prima fase della messa in scena ormai in involuzione oltre confine. Era un progetto d’intelligentissima strategia storico-critica. Non si realizzò: Mussolini personalmente respinse la nomina di Copeau, che pure l’aveva già accettata. Fu un danno di cui si sentono ancora le conseguenze, perché pochi riuscirono a sottrarsi, sotto l’impulso di teorie nel resto d’Europa già discusse, al percorso obbligato delle fasi implicite nella stessa natura delle dominanza registica, altrove superate, ma da noi, ritardatari, non più eludibili. Come avviene pur troppo spesso nella realizzazione non rinviabile d’un ideale, D’Amico si sentì costretto al compromesso di assumere per sé anche l’incarico di Direttore e di affidare la cattedra di regia ad un’attrice di formazione stanislavskiana sul cui talento non c’era da aver dubbi, ma sulla cui specifica preparazione culturale non si poteva che averne.

La vita dell’Accademia è stata complessa e ricca di eventi; la sua Direzione è passata da Silvio D’Amico a Raoul Radice, a Renzo Tian attraverso un Commissariato di Nicola De Piero, a Ruggero

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Jacobbi e Aldo Trionfo. Anche a voler far solo i nomi degli attori e dei registi usciti dall’Accademia a ereditare i palcoscenici italiani, gli studi cinematografici, televisivi e radiofonici, le sale di doppiaggio, non basterebbe lo stesso spazio che occupa questo articolo. Infinitamente più facile sarebbe fare i nomi di coloro che non ne provengono. Ci rinunciamo.

Chi ha conosciuto D’Amico però ha il dovere di chiedersi perché mai, assumendosi il duplice incarico di Presidente e Direttore, non si sia assunto anche la responsabilità, venutogli meno Copeau, della Cattedra di regia, che doveva essere, nei suoi propositi, l’anima della scuola. È vero che lo spirito delle sue lezioni di Storia del Teatro, le sue capacità moderatrici ne facevano un Direttore ideale, ma come poté non vedere che la nomina della Pavlova corrompeva il primo assunto del suo programma, così come poi quella di Guido Salvini, conoscitore insuperato di tecniche di palcoscenico, sì, ma semplice ombra di quell’idea di regia che D’Amico prediligeva.

È da notare, e pochi ormai sanno o ricordano, che dopo appena due anni di vita dell’Accademia, D’Amico si prese, quasi a sfida, la responsabilità di presentare ufficialmente gli allievi ancora immaturi in un primo spettacolo pubblico su piano addirittura internazionale a Padova per le celebrazioni giottesche del '37.

Lo spettacolo, per il quale compose quella insuperata silloge di Laudi che intitolò “Donna del Paradiso”, fu ideato interamente da lui, dal testo, al luogo della rappresentazione, alla scelta e guida dello scenografo Virgilio Marchi, alla moderazione della stessa interpretazione degli attori. Se la messa in scena fu firmata dalla Pavlova e se D’Amico, scrupoloso custode della indipendenza dei suoi collaboratori, maestri o allievi che fossero, lasciò correre alcuni vezzi di pessimo gusto dovuti alla pur abile mano della insegnante di regia, nessuno avrebbe potuto aver nulla da ridire se invece a firmare fosse stato proprio lui.

Non altrimenti, un anno appena più tardi, cessata la presenza della Pavlova per insanabili, quanto prevedibili, dissensi artistici, D’Amico sentì di assumersi la Direzione della Compagnia dell’Accademia. Fu un atto coraggioso e responsabile e il successo che arrise a quella nuovissima compagine di giovanissimi debuttanti, che è rimasta unica e irripetibile, anche se a firmare gli spettacoli sono stati i non meno debuttanti registi Wanda Fabbro [sic], Alessandro Brissoni, Orazio Costa non ancora Giovangigli, fu veramente di Silvio D’Amico, che n’era l’anima ancor più che l’animatore.

E nonostante questo D’Amico non firmò nessuna regia. E c’è di più: dopo il trionfo della Compagnia nel '39-'40, rinunciò a dirigerla. E per l’anno successivo l’affidò, con un atto ingenuamente politico, che non gli somigliava, a Corrado Pavolini, colto e raffinato poeta, modesto

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regista, uomo di teatro inesperto che ne stravolse subito lo spirito con l’ammissione di un’attrice quanto mai estranea agli assunti artistici del gruppo.

Perché avvenne tutto questo? Perché D’Amico non osò fare il passo che pure aveva fatto il critico Boutet e che aveva fatto l’impiegato Antoine e il letterato Copeau in età ben altrimenti giovanile con culture e preparazioni specifiche certo non più profonde agl’inizi? Era veramente con tanta umiltà convinto di non essere all’altezza e che i suoi giovani allievi, sia pure scelti fra decine di aspiranti, fossero tanto più atti di lui nella professione, di cui conosceva alla perfezione ormai come pochi per cultura, per informazione, per esperienza e per passione tutti gli aspetti, le tecniche, i risvolti, gli obblighi, servitù e grandezze?

Nel “Tramonto del grande attore”, evocando con innamorata nostalgia il ritorno della Duse, D’Amico mostra d’esser convinto che l’approdo religioso finale alla fede dei padri, sia stato come il suggello di una intima religiosità assoluta del suo genio “schiacciante”. Così, parlando di Copeau, la sua ammirazione si fonda in gran parte come è giusto sull’equilibrio raggiunto dal suo spirito religioso. E non è senza significato che l’intero libro si concluda con un saggio dove, narrata la sua gioiosa, ma stupita, scoperta avvenuta nell’Anno Santo 1925, dell’esistenza di un’associazione americana degli scrittori attori cattolici, conclude con l’ammirata aspirazione della fatale Eleonora: “Il Teatro è nato in Chiesa, io vorrei ricondurvelo.”

È in questo stesso saggio che D’Amico, sentendo d’esser sul punto d’impegnare tutta la sua anima nell’impresa teatrale, e cercando di chiarire al lettore, ma forse anche più alla propria coscienza, qual sia la ragione della diffidenza secolare della Chiesa verso il Teatro e quale possa essere il modo di guadagnarne la rasserenante approvazione, crede di riconoscere quella ragione nella pubblica esposizione che l’attore farebbe del proprio corpo, così simile a una prostituzione, e questo modo nell’ottenere alla rappresentazione un clima affocato in cui, avvampando il dramma, il corpo sparirebbe nell’incendio e la Grazia redimerebbe a un tempo Teatro e Attore.

E temiamo ormai che a questo supremo ideale il credente D’Amico si sia sentito impari nella impresa di ricostruire il Tempio al posto della bottega; vogliamo dire sugli abbattuti banchi dei mercanti?

Io so che Jacques Copeau, da me richiesto perché avesse chiuso il suo teatro mi confessò, non so se con più umiltà, orgoglio o vergogna: “Quando ho sentito che con il mio teatro poteva sottrarre un uomo a Dio, allora l’ho chiuso”. Ma continuò a credere nel teatro. Lo stesso forse temeva di dover dire D’Amico un giorno, o addirittura di sentirsi troppo legato al giudizio della Chiesa, tanto da dover continuare ad amarlo quasi disperatamente, ma non al livello della propria più gelosa

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coscienza cristiana. In lui la fede nel teatro temeva di sottrarre un credente a Dio: forse lo sentiva come un incomparabile peccato.

Peccato! Si può esser certi che il percorso difficile del teatro italiano sarebbe stato diverso: tanti equivoci che lo hanno afflitto e che sono scoppiati virulenti dopo la sua scomparsa si sarebbero diversamente superati ed esauriti.

Purtroppo la diffidenza della Chiesa verso il Teatro è, credo io, d’altra natura, altrettanto antica, ma più difficilmente eradicabile. Sta nel giudizio, irreparabilmente negativo, circa la finzione: che non solo sia pericolosa per l’anima dell’attore l’educazione a fingere, ma che lo sia ancor più per quella del pubblico, educato a sua volta a fingere e sollecitato per mimesi a risvegliare in sé passioni non controllabili.

Legati come siamo sono a interpretazioni negative della mimesi nella sua letteralità corporea originale e liberatoria, siamo i più son portati a compiere astuti contorcimenti ed accettare complicate restrizioni mentali, nella speranza di partecipare lealmente allo spettacolo teatrale, tanto che rischiamo di portargli uno spettatore castrato di senso morale, giacché per troppe filosofie il giudizio estetico si svolgerebbe al di fuori dell’etico. Ma se domandassimo al teatrante credente, che per prudenza rifiuta il teatro che cosa gli resti, ci direbbe l’amore per il teatro. E se chiedessimo a quello ateo materialista che, deluso ormai di poter guadagnare alla sua rivoluzione proseliti col teatro, lasci per ciò il teatro, che cosa gli resti, ci risponderebbe l’amore e la fede nel teatro.

E, tante volte, non sarebbero queste due opposte ed identiche fedi bastanti? Non potrebbe voler dire che il teatro “è” quella fede religiosa dell’uno, “è” la fede rivoluzionaria dell’altro? Nella quale da una parte e dall’altra ci su può riconoscere? E quanto più non lo si abbandona, non lo si tradisce, rinnega e lascia cadere in un andazzo dove n’è fatto scempio, dove la Parola è martoriata e crocifissa? Basterebbe riconoscere che in esso conversione e rivoluzione, pentimento e confessione, delitto e castigo, dissidi, diverbi, odi, rimorsi, si realizzano in atti da non chiamare finzione, bensì pura mimesi, magari sublime, che da vita alla meditazione pacificatrice. Quasi a convenire, con buona pace dei tanti che si sono sforzati per distinguere e per liberare l’etica dall’arte e l’arte dall’etica, che la Drammaturgia, Poetica comune di tutte le arti in cui tutte le arti possono riconoscersi, è essa stessa l’Etica: Mimesi, Passione e Risurrezione del Verbo.

Questo vorrei poter dire oggi ai miei due unici, impareggiabili maestri: che non c’era da temere. Ma ora forse lo sanno tanto meglio di me, che da quando sono stato alla loro scuola mi sono sforzato di trovare applicato a fondare nella mimesi [?] in un lungamente penato la ricerca d’un metodo di espressione e d’interpretazione ispirato a questa proprietà naturale dell’uomo, non solo lo

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strumento per la formazione d’interpreti e operatori di ogni arte, ma anche sussidio alla loro liberazione, grazie al riconoscimento di elementari verità colte a fonti innate e sacre.

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ORAZIO COSTA

IL PRIMO INCONTRO CON JACQUES COPEAU

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Un giovane allievo ignora e rischia d’ignorare per sempre che cosa può significare per il suo maestro affidarlo alle cure d’un collega tanto stimato da poterlo considerare un complemento insostituibile alla formazione avviata d’un alunno che si spera continuatore del proprio lavoro, anzi del proprio pensiero.

Credo che non lo avrei mai saputo anch’io a meno di non doverlo studiosamente immaginare per l’interpretazione d’un atto simile in un personaggio da condurre fino alla coscienza ultima della ribalta. Ma ciò mi accadde solo molto più tardi in condizioni che non starò a ricordare per non dare a divedere di che ambiziose ipotesi si formino e si nutrano gl’ultimi travagli d’un attento teatrante. Invece mi accadde di rendermene conto, assai prima che non fossi per dubitarne; e quasi all’improvviso, il giorno che il carissimo fra gli allievi degli anni '50 di non so più qual’anta mi chiese, con la balda franchezza cui l’avevo sempre invitato sollecitato, di esser presentato all’amico Giorgio presso il quale avrebbe amato lavorare. La richiesta mi parve segno della saggia lucidità del bravo Raffaele e mi posi subito a stendere la segnalazione con e la calda preghiera di accoglienza perché Raffaele fosse accolto fra gli assistenti. Una volta di più, davanti al foglio bianco mentre cercavo le parole più valide, più simili ad ognuno di noi tre, mi vidi trasferito subitamente nel mio maestro d’un tempo mentre scriveva per me la presentazione a quello che egli considerava allora non solo il miglior maestro in assoluto, ma quello più giusto per quanto aveva, meglio di me, intuito delle mie tendenze e aspirazioni. E davanti al foglio che restava bianco, (il meraviglioso richiamo della coscienza ad ogni inizio che esiga l’impegno della parola scritta) sentivo me stesso chiedermi e immaginavo che il mio maestro si fosse chiesto nella simile occasione perché abdichi? Perché ammetti di non bastare? Perché lasci che altri colga il grazie e forse il merito per quello che tu hai individuato, scelto e condotto ad un visibile valore? E addirittura con domande sempre più profonde e private: Perché vendi al più fortunato? Perché ti disfi di una responsabilità che esigerebbe la compromissione? Perché fai dono d’un valore che va ad arricchire altri e impoverisce te? E ancora,

570 Documento inedito di undici pagine, risalente al 1985, reperito nel Fondo Costa. In un suo quaderno, in una nota intitolata Articolo… l’allievo ceduto e Copeau come Papà, Costa aveva scritto una bozza del documento qui presentato, successivamente ampliata e riveduta in una nota dello stesso quaderno, intitolata Correzioni alla nota 11 su Copeau: Cfr. Orazio Costa, Quaderno 35, 19 ottobre 1985 – 4 ottobre 1986, (versione digitale), Fondo Orazio Costa, pp. 8-11 e pp. 13-15.

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e sempre più crudelmente: Di che ti liberi? Di che ti vendichi? Di che ti punisci? La carta restava bianca; nella coscienza si andavano… (“griffonnaud”) graffiando sgorbi illeggibili di lagrime, forse di sangue, e lentamente la lettera, serena e affettuosa, raccontava descriveva meriti, confidava valori, dichiarava gratitudini, in pratica tagliava gli ormeggi, e per sempre, di un naviglio che si era creduto, chi sa per qual contraddittorio progetto, tenere per sempre all’ancora nel porto. E le vele? Non avevamo soprattutto pensato alle vele? E per che farne? Per spiegarle soltanto al sole? O peggio per tenerle arrotolate come crisalidi di voli? O per prove di possibilità rinunciate? Di sacrifici desiderati? Eh no! Coerentemente le avevamo tagliate, decorate, impennate, per issarle e perché si gonfiassero! Ci eravamo preparati il distacco, se addirittura, (contraddizioni su contraddizioni!) non l’avevamo proprio progettato sin da principio, per infliggerci la libertà anzi la liberazione paventata. Per tornare, in un dopo consumato, ad un prima impregiudicato, sprovvedutamente, venturosamente avventati. Noi, chi? Io adesso allora, il mio maestro ieri; io allievo ieri e il mio allievo domani e così di seguito, accogliendo e sciogliendo, impegnando e liberando, offrendo ai fortunati venture di premi avventizi.

E così capii per venti anni prima. Non so se ci sia più “quelque-part” la lettera che Silvio mandò per me a Jacques Copeau; se c’è non dubito ch’essa sia lucida e chiara riconoscendo i pregi del maestro e i difetti da correggere, le manchevolezze da integrare, del buon allievo. Non per questo oggi non saprei leggere sotto le effettuali parole la vibrazione più o meno intensa di affetti sopraggiunti forse davanti alla pagina bianca nel momento di tracciare le frasi convenienti all’effetto della richiesta. Dopo venti anni ringraziai il mio maestro in cuor mio rendendomi conto che avermi mandato a studiare da un altro era stato un atto di umiltà, nel riconoscere meriti di altri, un atto anche di serena coscienza di sé, nel pensare che non sarebbero sparite le tracce del suo insegnamento; di fiducia nella mia fedeltà o anche addirittura in una mia scarsa iniziativa. Se ci avessi tanto pensato allora sarei potuto arrivare anche a chiedermi se non fosse addirittura per allontanarmi che lo facesse, anche senza sapermi spiegare a che fine. Ma allora non era a questioni così che rivolgevo l’attenzione del mio pensare.

Nell’estate del '36 D’Amico accompagnò a Parigi un gruppo di allievi a vedere una serie di spettacoli convenuti lì in occasione dell’Expo '36. Ne approfittò per presentarmi a Copeau, che nella sua lettera di risposta aveva subordinato la eventualità di accogliermi come uditore alle prove che avrebbe condotto nell’anno 36-37, all’occasione di una conoscenza preliminare *. Questa conoscenza si fece senza particolari emozioni per me. Non deve sembrare strano né deve mal deporre riguardo ad una mia insensibilità. Copeau, a parte un aspetto più palesemente sicuro di sé e nonostante fosse di quattro anni più giovane, somigliava in maniera veramente impressionante a

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