• Non ci sono risultati.

2.1. L’Accademia d’Arte Drammatica

Nel 1935 Costa pubblica altri due articoli per la stampa ne «L’Italia Letteraria». Questa possibilità gli fu concessa probabilmente grazie all’amicizia che legava D’Amico a Corrado Pavolini, il quale a quel tempo collaborava proprio con quella rivista. In questo modo D’Amico stava tentando di fargli acquisire una certa autorevolezza come critico teatrale, in attesa di avviarlo alla professione di regista.

Nel primo articolo Costa discute del nuovo dramma di Ugo Betti apparso sulla rivista

«Scenario»92, un autore che in seguito divenne per lui molto importante, per via delle possibilità

interpretative riscontrate nei suoi testi. Nell’altro articolo, invece, scrive dello spettacolo presentato da Copeau, al Maggio Musicale Fiorentino in piazza della Signoria, con toni tutt’altro che

entusiastici93. In questo caso, Costa criticava la messa in scena di Copeau perché la reputava al di

sotto delle sue aspettative, rispetto all’importanza attribuita ai suoi spettacoli precedenti dallo stesso D’Amico, che lo riteneva uno dei massimi esempi del teatro europeo.

Nel luglio di quello stesso anno, D’Amico fu nominato Commissario straordinario per riformare la Scuola di Recitazione “Eleonora Duse”, che cambiò di nuovo nome e statuto e divenne la Régia

Accademia d’Arte Drammatica94. Il cambiamento radicale della scuola era già stato auspicato da

D’Amico nel Tramonto del grande attore, quello stesso libro che Costa considererà «il manifesto

della nuova era teatrale»95.

La direzione della scuola passò, dunque, nelle mani di D’Amico che prese il posto di Liberati, anche se quest’ultimo fu sempre indirizzato da D’Amico durante il periodo della sua gestione. I

92 Orazio Costa, Frana allo Scalo Nord, in «L’Italia Letteraria», A. XI, N. 6, 1935.

93 Orazio Costa, Il “Savonarola” a Firenze. Il dramma e la regia, in «L’Italia Letteraria», A. XI, N.23, 7 giugno 1935- XIII.

94 È solo con la fine del fascismo che la scuola eliminerà dalla propria dicitura la parola “régia”, aggiungendo al suo posto l’aggettivo “nazionale”. Alla morte di D’Amico cambierà definitivamente nome in Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Cfr. Raffaella Di Tizio (a cura di), Documenti dal Fondo D’Amico, in: http://www.teatroestoria.it/materiali/La_nascita_dell'Accademia.pdf /27.10.2019

95 Costa parla in questi termini dell’importante libro di Silvio D’Amico, nel suo testo inedito: Orazio Costa, A

cinquant’anni dalla fondazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, dattiloscritto, Fondo

37

corsi furono avviati nel gennaio dell’anno seguente. Il nuovo statuto prevedeva l’introduzione di quelle materie che D’Amico aveva precedentemente indicato nei suoi scritti, ritenendole fondamentali per lo sviluppo del nuovo attore e del regista. Come insegnanti di recitazione furono scelti Gualtiero Tumiati, Irma Gramatica e Luigi Almirante, tutti attori ancora attivi nella professione. Tale scelta fu fatta per non permettere che il corso di recitazione divenisse, come in passato, il posto in cui i vecchi attori decidevano di concludere stancamente la propria carriera e gli allievi venivano costretti a ricalcare pedissequamente i vecchi modelli recitativi che gli venivano proposti. Gli altri insegnanti erano Virgilio Marchi, che si occupava dell’insegnamento di scenografia e storia del costume, Teo Fasulo, che insegnava danza, Valentino Ammannato scherma, Gino Viotti trucco e Maria Labia impostazione lirica. Oltre alla carica di direttore, D’Amico tenne per sé il corso di Storia del teatro, mentre il nuovo corso di regia fu affidato all’attrice russa Tatiana Pavlova. Nelle sue intenzioni, D’Amico avrebbe voluto affidare la scuola e il corso di regia a Copeau, ma purtroppo Mussolini impose un veto sulla nomina del regista francese, a causa proprio delle sue origini. La nomina della Pavlova fu favorita dalla stima che D’Amico nutriva nei suoi confronti e, soprattutto, dal suo matrimonio con il gerarca fascista Nino D’Aroma, che divenne, tra l’altro, il direttore de L’Unione Cinematografica Educativa, da cui l’acronimo L.U.C.E. che

caratterizzò in seguito l’Istituto96.

Come aveva tentato di spiegare nei suoi scritti, la Pavlova avrebbe voluto indurre i giovani allievi registi a ricercare un proprio stile, con il quale portare in scena i propri lavori, senza forzare la recitazione verso intonazioni e gesti artificiali. La critica, però, aveva iniziato a prendere di mira gli spettacoli realizzati dagli studenti della scuola identificandoli con i balletti russi, a causa della loro tendenza alla spettacolarità e all’estrosità o forse ricalcando la linea giornalistica che qualche tempo prima aveva definito le pratiche di alcuni attori italiani “alla russa” per via della loro recitazione artificiosa e stilizzata. La Pavlova precisava che Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko non avevano mai insegnato nulla di simile ai loro attori e che forse la critica aveva accostato le prime creazioni dei giovani registi ai balletti russi, perché probabilmente le trovavano troppo appariscenti. Quelle stesse qualità che i critici andavano deplorando avrebbero potuto far parte indistintamente delle qualità artistiche di un qualsiasi altro attore o regista europeo o orientale, non

96 Nell’autunno del '43, quale Commissario straordinario dell’Istituto Nazionale LUCE, D’Aroma, insieme a Ferdinando Mezzasoma, Luigi Freddi e a Giorgio Venturini, cerca di spostare artisti, attori, registi, sceneggiatori e personale tecnico a Venezia, dove sarebbe dovuta nascere la nuova Cinecittà, poiché i bombardamenti avevano danneggiato gravemente gli stabilimenti romani. In mezzo a queste gravi difficoltà riuscirà a realizzare una dozzina di pellicole, che avrebbero dovuto rappresentare lo specchio della drammaticità del momento storico e le gravi ristrettezze in cui versava il popolo italiano.

38

solo dei registi e degli attori russi, poiché ogni artista avrebbe potuto farvi ricorso per rappresentare

un determinato tipo di spettacolo, in cui se ne faceva richiesta97.

Nei suoi corsi la Pavlova insegnava agli allievi a realizzare i propri lavori seguendo un metodo che poteva dividersi in due categorie, quello normale, metodo dall’interno e quello eccezionale, metodo dall’esterno. La prima via si fondava principalmente sulla recitazione e la caratterizzazione del personaggio partendo dall’interiorità, mentre l’altra strada tentava di servirsi delle caratteristiche fisiche, plastiche, musicali e mimiche dell’attore, unite all’uso spettacolare della scenotecnica e dell’illuminotecnica. La Pavlova, inoltre, induceva i suoi allievi a studiare un autore nella sua interezza per fare in modo che riuscissero a cogliere le sue caratteristiche principali, ciò che aveva tentato di esprimere con il suo dramma e a quali creature aveva provato a dare vita:

È ben dall’intimo ch’essi traggono a poco a poco i volti, gli accenti, le battute, i respiri dei loro personaggi. E mi pare impossibile che di questo metodo – non dico de’ suoi risultati, su cui il giudizio è libero – non si sia accorto chi abbia per es. assistito agli spettacoli, messi su da alcuni fra i miei allievi migliori, del Romeo e Giulietta e della Santa

Giovanna, di In portineria [messo in scena da Costa] e de L’imbecille98.

I giudizi negativi sugli spettacoli dei giovani registi forse si erano soffermati troppo su quelle rappresentazioni che alcuni allievi avevano tentato di realizzare servendosi del metodo dall’esterno, ciò non significava che tutti i registi che sarebbero usciti dall’Accademia avrebbero realizzato le proprie regie in maniera così estrosa e spettacolare.

La mancata nomina di Copeau fu un danno enorme per la linea d’insegnamento della scuola, poiché, nelle previsioni di D’Amico, il corso di regia avrebbe dovuto esserne l’anima. L’insegnamento di Copeau sarebbe durato per diversi anni e avrebbe contribuito a cambiare il teatro italiano e i suoi nuovi interpreti, fondandosi sulle sue idee registiche. La scelta della Pavlova, da parte di D’Amico, fu un tentativo più o meno complicato di avvicinarsi al metodo di Stanislavskij.

Oltre alla carica di direttore, quindi, D’Amico si vide costretto ad assumere anche la nomina di presidente e a continuare le sue lezioni di Storia del teatro, lasciando il corso di regia nelle mani della Pavlova.

Nel gennaio del 1936 Costa inizia a frequentare i corsi dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. In virtù del diploma d’attore conseguito in precedenza, gli viene concessa la possibilità di

97 Cfr. Tatiana Pavlova, Tredici mesi di insegnamento, in «Scenario», A. VI, N. 6, giugno 1937-XV, Tatiana Pavlova,

Ritorno al metodo, in «Scenario», A. V, N. 5, maggio 1936-XIV, in cui l’attrice russa parla dell’importanza

dell’Accademia di D’Amico per la formazione del nuovo attore e del regista. 98 Tatiana Pavlova, Tredici mesi di insegnamento, cit., p. 265.

39

usufruire di un’abbreviazione di corso, in maniera tale da frequentare solo due dei tre anni previsti

per il conseguimento del diploma in regia99.

Il 22 febbraio di quello stesso anno, Costa consegue la laurea in Lettere presso l’Università degli

Studi di Roma, con una tesi sulla Teatralità del dialogo nei “Promessi Sposi”, con Vittorio Rossi100

come relatore101.

Nei suoi scritti, Costa ha sempre riconosciuto a Rossi il merito di avergli fatto scoprire il gusto del testo, sollecitandolo a studiare le carte leopardiane, comprese le correzioni che l’autore vi aveva

apportato sia prima che dopo averle date alle stampe102.

Nella sua tesi di laurea, Costa si era occupato di svelare la teatralità che credeva insita nei dialoghi dell’opera del Manzoni, confrontando quelli della sua prima stesura negli Sposi promessi, con quelli notoriamente conosciuti della stesura finale nei Promessi Sposi. La sua passione nei confronti del testo manzoniano risaliva già ai tempi della sua maturità classica, quando aveva cercato di leggere con intenzioni di analisi estetica l’addio ai monti di Lucia:

Leggendo le note di un Manzoni che portava in calce il confronto con il testo dei “Promessi sposi” della prima edizione ne ho trovata una carina: alla fine dell’ottavo capitolo invece di: “dal rumore dei passi comuni, il rumore d’un passo aspettato” nella prima lezione si leggeva: “dal rumore dell’orme comuni, il rumore d’un orma aspettata”! Non molto dissimile mi pare da quel famoso: “Sento l’orma dei passi spietati”103.

L’anno successivo, la tesi di laurea di Costa verrà pubblicata in due parti nella «Rivista Italiana

del Dramma»104, il giornale diretto allora da D’Amico. Qualche tempo dopo, nel '39 verrà

pubblicata anche una sua riduzione drammatica del testo manzoniano105.

Nella primavera del 1936 va in scena l’adattamento di una lauda di Jacopone da Todi, Il pianto

di Maria, che viene allestito come saggio conclusivo del primo anno di corso di Costa alla scuola di

regia106.

99 Cfr. Orazio Costa, Il Novecento: Futuro e storia, cit.

100 Vittorio Rossi è stato un accademico italiano dal 1° luglio 1923, socio dell’Accademia della Crusca dal 12 giugno 1916, socio nazionale, dal 1920, dell’Accademia dei Lincei, di cui è stato Presidente dal 1933 al 1937. Storico della letteratura e docente di letteratura italiana all’Università di Messina, Pavia, Padova e Roma, dove divenne professore emerito nel 1936. Realizzò importanti studi su Dante e Petrarca. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/vittorio- rossi_(Dizionario-Biografico) /27.09.2019; http://www.accademicidellacrusca.org/scheda?IDN=1986 / 27.09.2019 101 Da questo momento in poi inizierà per Costa una lunga riflessione sul testo del Manzoni, che lo accompagnerà per tutta la sua vita.

102 Cfr. Orazio Costa, Il Novecento: Futuro e storia, cit.

103 Orazio Costa, Quaderno marrone, 1 gennaio1929 – 9 novembre 1935, Fondo Orazio Costa, p. 37.

104 Orazio Costa, Teatralità del dialogo nei “Promessi Sposi”, (I parte), «Rivista Italiana del Dramma», A. I, Vol. I, N. 3, 15 maggio 1937-XV; Orazio Costa, Teatralità del dialogo nei “Promessi Sposi”, (II parte), in «Rivista Italiana del Dramma», A. I, Vol. II, N. 4, 15 luglio 1937-XV.

40

La mancanza di riferimenti purtroppo non ci permette di sapere in che maniera è stata realizzata la rappresentazione, come non ci permette di sapere se sia stata apprezzata dal pubblico e soprattutto se il giovane regista abbia cercato di perseguire, con la sua messa in scena, gli insegnamenti impartiti dalla Pavlova o se abbia seguito ancora il suo istinto, rivolto principalmente alla caratterizzazione del personaggio, seguendo i vecchi canoni recitativi, lasciando pochissimo spazio alle questioni di natura estetica.

Nella primavera del 1937 va in scena l’adattamento di un testo di Giovanni Verga, In portineria,

che viene presentato da Costa come saggio di diploma all’Accademia d’Arte Drammatica107.

Il dramma fu quasi sicuramente una scelta della sua insegnante. Il regista, infatti, non ne parlerà mai, forse perché non sentiva alcuna affinità con la prosa dello scrittore siciliano.

Nel frattempo, all’inizio dell’anno accademico, gli insegnanti di recitazione erano stati sostituiti tutti e tre da Nera Grossi Carini, Carlo Tamberlani e Mario Pelosini, perché non si erano allineati al

metodo d’insegnamento della Pavlova108.

Come riferito da Costa, con questo lavoro iniziò la sua lunga e proficua collaborazione con la

sorella Valeria, che preparò per l’occasione le scene e i costumi dello spettacolo109.

Da questo momento in poi, dunque, il regista iniziò a rivolgere le sue attenzioni alle questioni di natura estetica per l’allestimento dei suoi lavori. Anche se non sappiamo che tipo d’indicazioni rivolse agli attori, per quanto riguarda la recitazione e l’interpretazione dei personaggi e che tipo di relazione ci fu tra lui e la sorella, riguardo alle scelte per l’allestimento scenico e visivo dello spettacolo. In particolare se iniziò in questa circostanza a distaccarsi dal vecchio presupposto, che identificava la parte di un attore con le sue caratteristiche fisiche e non con le sue qualità artistiche.

2.2. Le assistenze alla regia

106 Il pianto di Maria, di Jacopone da Todi, regia di Orazio Costa, con Irma Gramatica (Maria), Gualtiero Tumiati (Gesù), Franco Di Cruce (Giovanni), Teatro Studio “Eleonora Duse” di Roma, primavera (1936).

107 In portineria, di Giovanni Verga, regia di Orazio Costa, scene e costumi di Valeria Costa, Teatro Quirino di Roma, primavera (1937).

108 Cfr. Doriana Legge (a cura di), Il caso Tatiana Pavlova, in: http://www.teatroestoria.it/materiali/Pavlova_Il_caso.pdf /27.10.2019

109 L’episodio viene menzionato da Costa in un suo Quaderno, in cui ricorda l’importanza dei giochi infantili compiuti insieme ai suoi fratelli e l’inizio del loro sodalizio artistico, in particolare con la sorella Valeria, per cui scrive: «I lavori fatti insieme dal '37 (data del mio diploma con “In Portineria” di G. Verga, per cui preparati scena e costumi con certi intensi quadretti “alla Antonio Mancini”) al 63 data del tuo distacco dal Teatro sono stati più di quaranta?»: Orazio Costa, Quaderno 38, 28 gennaio 1988 – 11 aprile 1989, (versione digitale), Fondo Orazio Costa, p. 52.

41

Dopo aver concluso il suo primo anno di corso in Accademia, Costa assiste Renato Simoni che

mette in scena, il 15 luglio 1936, Il ventaglio110 e, il 17 luglio, Le baruffe chiozzotte di Carlo

Goldoni111. I due spettacoli vengono allestiti durante la Biennale di Venezia. Costa ottiene questo

incarico probabilmente grazie all’interessamento di D’Amico, che lo suggerisce a Simoni come assistente.

Secondo Costa, Simoni non si era curato abbastanza di alcuni aspetti indispensabili per la buona riuscita di entrambi spettacoli. Ad esempio la costruzione delle scene e la caratterizzazione dei personaggi erano dei punti su cui avrebbe dovuto soffermarsi più a lungo, per trovare delle soluzioni che avrebbero presentato l’opera sotto una nuova veste agli occhi del pubblico. A detta di Costa, Simoni credeva di poter fondare le sue regie su un’interpretazione “veristica” del mondo goldoniano, pur trovando delle difficoltà in alcune scene che non si prestavano affatto a quel tipo di soluzione:

La regia di Simoni, come Lei sa benissimo, si fonda sull’interpretazione veristica del mondo Goldoniano; e non si può negare che le “Baruffe” pur con il loro sottostrato di ben architettate combinazioni, possono inquadrarsi in una cornice veristica. Ma tale interpretazione rivela le sue debolezze, quando, sulle ballettistiche vicende del “Ventaglio” il regista trovandosi di fronte allo svenimento di Evaristo è tentato di abolirlo e in ultima analisi, ridottolo di alcune battute caratteristiche, è costretto a mascherarlo per non disturbare l’andamento dell’azione112.

Costa aveva notato che gli attori veneziani avevano alimentato negli anni una recitazione caricaturale dei personaggi goldoniani, cercando d’inserire nei loro spettacoli delle trovate sceniche, considerate assolutamente fuori luogo. Simoni aveva cercato di limitare l’uso di quegli espedienti, anche se gli attori durante le prove continuarono a non badare particolarmente alle sue indicazioni:

Non si arriva a comprendere come essi abbiano creduto non solo opportuno, ma necessario infarcire in tal modo quelle scene già così vivaci di tanto bestiali scempiaggini. E bisogna vedere come ci tengono e come soffrono quando Simoni abolisce quelle… creazioni che a loro paiono più sacrosante del testo del Vangelo e a tal punto che batti e batti

110 Il ventaglio di Carlo Goldoni, regia di Renato Simoni e Guido Salvini, assistenti alla regia Orazio Costa e Tullio Covaz, scene di Guido Salvini e Aldo Calvo, costumi di Aldo Calvo, con Nerio Bernardi (Evaristo), Rossana Masi (Geltrude), Laura Adani (Candida), Augusto Marcacci (il barone del Cedro), Ermete Zacconi (il conte di Rocca Monte), Ermanno Roveri (Timoteo), Andreina Pagnani (Giannina), Maria Melato (Susanna), Memo Benassi (Coronato), Renzo Ricci (Crespino), Tino Erler (Moracchio), Enzo Baldanello (Limoncino), Luigi Zerbinati (Tognino), Umberto Giardini (Scavezzo), Campo San Zaccaria, XX Biennale di Venezia, 15 luglio (1936).

111 Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, regia di Renato Simoni e Guido Salvini, assistenti alla regia Orazio Costa e Tullio Covaz, scene di Guido Salvini e Aldo Calvo, costumi di Aldo Calvo, coreografie di Irene Del Bosco, con Carlo Micheluzzi (Padron Toni), Giselda Gasparini (Madonna Pasqua), Toti Dal Monte (Lucietta), Giulio Stival (Titta-Nane), Luigi Grossoli (Beppe), Cesco Baseggio (Padron Fortunato), Margherita Seglin (Madonna Libera), Pina Bertoncello (Orsetta), Daniela Palmer (Checca), Bepi Zago (Padron Vincenzo), Gino Cavalieri (Toffolo), Gianfranco Giachetti (Isidoro), Emilio Baldanello (il Comandador), Vittorio Cavalieri (Canocchia), Campo San Cosmo in Giudecca, XX Biennale di Venezia, 17 luglio (1936).

42

qualcuna son riusciti a farla passare, e temo che si ripromettano di farne passare ancor di più nei giorni di rappresentazione113.

Costa era convinto che gli attori avrebbero cercato comunque d’inserire le loro trovate durante lo spettacolo. Inoltre, non si trovava d’accordo sulla scelta dei luoghi in cui il regista aveva pensato di realizzare i due drammi, non ritenendoli adatti a soddisfare le esigenze scenografiche contenute all’interno del testo. La sua idea d’introdurre degli elementi scenici artificiali si sarebbe potuta mettere in pratica in qualsiasi altro luogo, non per forza in quelli che aveva individuato.

Poco dopo la sua esperienza con Simoni, Costa chiese a D’Amico di poter assistere alla messa in scena del Martirio di San Sebastiano di Gabriele D’Annunzio che Guido Salvini avrebbe dovuto dirigere a Pompei nel mese di settembre. Quella sarebbe stata, secondo lui, una buona occasione per ampliare le sue conoscenze pratiche e realizzare una collaborazione di enorme importanza, con uno dei personaggi più illustri del panorama teatrale di quel periodo:

A me sembra che l’esser presente anche a questa nuova messinscena potrebbe costituirmi oltre che un’innegabile esperienza pratica, un piccolo titolo per l’avvenire. Quindi, (sempre che il suo parere in proposito non fosse diverso, e ch’Ella non dovesse considerare questa esperienza anche soltanto inutile,) Le sarei molto grato ch’Ella si adoperasse in questo senso presso Salvini, che sarà il regista114.

Costa credeva che l’assenza del collaboratore abituale di Salvini, Tullio Covaz115, conosciuto

durante la Biennale di Venezia, avrebbe potuto in qualche modo facilitare la sua intenzione di affiancare il regista, ma purtroppo le cose andarono in maniera del tutto differente. Difatti, in seguito si propose solo come “inviato speciale” di «Scenario», la rivista diretta da D’Amico, per

seguire la manifestazione napoletana, «nonostante la magra indifferenza del regista Salvini»116.

Alla fine il testo di D’Annunzio non venne rappresentato, a causa del divieto imposto dal Papa, malgrado la produzione avesse già affrontato delle grosse spese per la realizzazione delle

scenografie e della pubblicità117.

Dopo aver ottenuto il diploma in regia all’Accademia d’Arte Drammatica, il 12 giugno 1937 Costa assiste la sua insegnante, Tatiana Pavlova, che mette in scena il Mistero della natività,

113 Ibidem.

114 Lettera di Orazio Costa a Silvio D’Amico, 24.07.1936, Museo Biblioteca dell’Attore di Genova.

115 Costa viene messo al corrente di quell’assenza dallo stesso assistente di Salvini in: Lettera di Tullio Covaz a Orazio

Costa, 23.08.XIV, [1936], Fondo Orazio Costa, Faldone 4, Cartella 4. 1945-46-47-48-49+38.

116 Lettera di Orazio Costa a Silvio D’Amico, 09.09.1936, Museo Biblioteca dell’Attore di Genova.

117 L’assistente di Salvini comunica a Costa l’annullamento dello spettacolo in: Lettera di Tullio Covaz a Orazio Costa, 30.09.XIV, [1936], Fondo Orazio Costa, Faldone 4, Cartella 4. 1945-46-47-48-49+38.

43

passione e resurrezione di nostro Signore, laudi del XIII e XIV secolo, a cura di Silvio D’Amico118,

allestito in occasione delle Celebrazioni giottesche, tenutesi a Padova119.

Documenti correlati