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anne DouaiRe-banny, Remembrances. La nation en

question ou L’autre continent de la francophonie, Paris, Honoré Champion, 2014, 354 pp.

Come si può ancora usare il concetto di nazione all’interno di una società multilinguistica? E come con- siderare la nazione nel contesto delle letterature fran- cofone? Possiamo continuare a pensare alla Francia come centro della francofonia? Per rispondere a questi quesiti Anne Douaire-Banny riflette sulla questione

della nazione e ne indaga tutti i possibili snodi all’in- terno dell’ambito fecondo della francofonia. Secondo la studiosa, occorre innanzitutto constatare il rapporto dialettico che si stabilisce tra le letterature francofone e la Francia. Quest’ultima, infatti, per lo scrittore fran- cofono, costituisce da un lato un «réservoir d’idées, de logique, de textes» (p. 32) e, dall’altro, un «repoussoir» (p. 32) a causa dei rapporti di dominio che hanno ca- ratterizzato la relazione politica, militare e simbolica tra colonia e madrepatria. Anne Douaire-Banny vuo-

le dunque comprendere come viene affrontato nelle opere letterarie francofone il sentimento nazionale, sfruttando quest’ultimo come «prétexte du question- nement plus large sur l’altérité» (p. 26).

Il volume è suddiviso in tre parti. La prima sezio- ne contiene una riflessione sul rapporto tra desiderio nazionale e possibili derive nazionaliste. Se l’identità nazionale esiste in virtù dei dibattiti che ne mostrano il carattere sacrale o il pericolo latente, è il desiderio che nasce da essa il rischio maggiore. Prendendo in prestito la metafora adottata da Amin Maalouf in Les identités meurtrières, Anne Douaire-Banny paragona questo desiderio a una pantera, ossia a un animale che difficilmente può essere addomesticato al punto da di- venire animale da salotto. La pantera resiste ai discor- si, è in grado di riformularsi e presenta le medesime insidie anche quando assume forme differenti. Nello specifico la studiosa analizza l’euforia che nasce nelle popolazioni africane dopo il raggiungimento dell’in- dipendenza. Questa fase lascia ben presto il posto a sentimenti di disillusione e di frustrazione. Tali atteg- giamenti si concretizzano in letteratura con un ricorso alla deformazione della realtà, all’uso di iperboli e al- tri artifici retorici. Questi ultimi consentono di creare personaggi e scene caricaturali, smisurate, capaci di rendere conto della collera, della sete di rivalsa e della violenza latente che hanno permesso di raggiungere l’indipendenza e che ora, nonostante la disillusione, assicurano agli autori la possibilità di credere nella persistenza di una comunità immaginaria a dispetto delle evidenze. Il desiderio nazionale trova, quindi, nuove forme anche in questo contesto di delusione e di disincanto. La studiosa si sofferma proprio sulle mo- dalità creative che permettono la costituzione di queste comunità immaginarie e il ritorno della pantera, inte- sa come «séduction de la langue qui se révèle dans le secret de la lecture» (p. 116) e che diventa, dunque, speranza di unità e di una ritrovata coesione.

Nella seconda parte, la riflessione si sofferma sul va- lore dei miti fondatori e sulla capacità dell’artista di se- pararsi dai racconti che postulano la nascita della nazio- ne per crearne di nuovi, più fecondi e meglio aderenti alla realtà. Del resto questi miti non sono più reperibili in molti contesti perché infranti o sovvertiti dall’avven- to della colonizzazione. Ma questo non aiuta, perché la popolazione si sente doppiamente orfana, in quan- to priva di storie che spieghino le origini del proprio paese e in conflitto con quanto imposto dall’occidente. Nel momento in cui le identità non riescono a definirsi, devono necessariamente ricorrere a una sovrapposizio- ne di tratti culturali e la letteratura diventa il banco di prova delle possibili riconfigurazioni sociali e culturali. Ed è proprio questa dimensione transculturale che va a ricostituire i miti perduti dell’origine e il racconto fon- datore di cui necessita la popolazione. La letteratura, quindi, combinando i sintomi e la storia della malattia, mette in atto un processo di identificazione che destrut- tura i vecchi modelli socio-politici. La letteratura diven- ta così uno specchio in grado di riprodurre fedelmente la realtà, di mostrarci qualcosa che nessuno aveva an- cora visto e di rendere conto, in questo modo, del rap- porto complesso che intercorre tra una popolazione e la sua storia e tra autore e storia. La riflessione prosegue con un’analisi della riscrittura delle origini a partire da questa apertura all’alterità che è il postulato di base del- le opere di Édouard Glissant. Secondo Douaire-Banny, le dinamiche di relazione permettono di aprire nuove prospettive laddove gli studi postcoloniali le chiudono. Dopo aver esaminato le nozioni di mondialità e mon- dializzazione, di sistema-mondo e di letteratura-mon-

do, la studiosa ipotizza l’idea di «alternation» (p. 300), ossia di una concezione di nazione scevra dalle logiche di chiusura, di esclusione e di antagonismo. Se la nazio- ne cessa di essere un assoluto identitario, rompe con la tradizione, con la concezione esclusivamente occiden- tale e diviene apertura e pluralità.

La terza parte riflette sulla possibilità di creare una storia letteraria della francofonia capace di rinnovare la lettura dei testi e la visione del mondo in essi contenu- ta. In un primo momento, Anne Douaire-Banny dedica un’analisi ai tentativi di storia della letteratura che hanno già preso come punto di vista la diversità francofona. E si interroga dunque sulle modalità che permetterebbero di coniugare l’unità linguistica all’interno di contesti di- versi, sulla possibilità di rendere conto della centralità di Parigi nel mercato dell’editoria e del peso da attribuire al binomio centro/periferia. Dopo queste constatazioni preliminari, la studiosa abbozza una storia della lettera- tura capace di superare la dicotomia centro/periferia e di fondarsi sul rapporto individuo/comunità all’interno di un sistema-mondo. Il desiderio nostalgico del nazio- nale e le forme di un’altra nazione possibile «intègrent le passé et l’avenir dans l’instant envisagé comme celui de toute fondation possible» (p. 219). A partire da que- sta concezione si organizza tutto il sapere sul mondo e una nuova riflessione epica. Nell’ultimo capitolo, Anne Douaire-Banny si occupa proprio dell’«institutionnali- sation de l’intuition épique» (p. 220) e indaga le mo- dalità attraverso le quali l’immaginario della relazione diventa cornice di riferimento per il pensiero letterario e la conoscenza del mondo. La storia della letteratura ha, quindi, una dimensione sociologica (trascrive la visione della società da parte di uno o più membri che vi appar- tengono in quanto condividono la stessa lingua) e antro- pologica (è il discorso sul rapporto tra uomo e mondo). Nel capitolo conclusivo l’autrice spiega anche il signi- ficato del titolo: con remembrances si intende la volontà di costituire un corpus letterario in cui ogni testo rappre- senta un elemento da valorizzare e non da reprimere. Lo scopo di questo volume è, quindi, quello di adottare la poetica della relazione di Glissant non più solo come un modello utopico, ma come una politica in grado di aprirsi alla realtà circostante e di costituire un valido supporto critico per leggere qualsiasi testo francofono in una logica di inclusione e non di esclusione. Si tratta, appunto, di un modo per ricostruire quel corpo smem- brato che la concezione di nazione in senso tradizionale aveva prodotto.

Il grande pregio di questo volume è la modalità ri- gorosa con la quale viene condotta la riflessione, dal primo all’ultimo capitolo. La studiosa mostra, inoltre, un grande livello di erudizione perché ogni sua rifles- sione è sostenuta da citazioni tratte da opere appar- tenenti alle letterature francofone di quasi ogni parte del mondo. Oltre a Édouard Glissant, suo punto di ri- ferimento indiscusso soprattutto nella seconda e nella terza parte del volume, Anne Douaire-Banny esplora le opere letterarie di Aimé Césaire, Kateb Yacine, Ahma- dou Kourouma, Tierno Monénembo, Mohammed Dib, Assia Djebar, Driss Chraïbi, Réjean Ducharme, Henry Bauchau, Nicolas Bouvier. Si tratta di un’ulte- riore dimostrazione del fatto che le letterature franco- fone costituiscono uno spazio privilegiato per spostare la questione del nazionale dalle derive nazionaliste e aprire nuove prospettive di riflessione, grazie al fatto che ogni paese francofono ha una sua dimensione na- zionale e, al tempo stesso, intrattiene una relazione di tipo politico, sociale e culturale con la Francia.

Classique ou francophone? De la notion de classique appliquée aux œuvres francophones, sous la direction de Corinne blanchauD, Amiens, Encrage édition, 2015, «cRtF», 141 pp.

Qu’est-ce qu’un «classique» de la littérature? Depuis quand cette notion s’est-elle affirmée? Faut- il la considérer comme absolue – dépendant ainsi de la valeur intrinsèque de l’œuvre – ou plutôt comme relative – c’est-à-dire en rapport avec les conditions de réception, de reconnaissance et de transmission de l’œuvre, qui sont multiples et variables? Peut-on envi- sager un emploi du terme qui ne soit pas forcément encadré dans une dynamique politico-culturelle bien définie, c’est-à-dire le classique comme expression d’un patrimoine littéraire et linguistique national? De quelle manière peut-il s’adapter à un contexte si hétérogène et avec une histoire relativement récente comme celui de la francophonie? Voici quelques-unes des questions qui animent les réflexions contenues dans cette courte mais intéressante publication dirigée par Corinne blanchauD, qui rassemble des contri- butions d’universitaires issus d’espaces différents du monde francophone.

Dans sa préface (pp. 7-35), qui définit les enjeux du débat tout en dialoguant avec les autres contributions, Blanchaud rappelle que le terme “classique” n’a pas toujours identifié le même objet: au fil des siècles il a pu avoir une acception sociologique (“classique” a d’abord indiqué l’écrivain de première classe – le clas- sicus scriptor – et ensuite l’œuvre enseignée en classe), une valeur normative (classique, dans la définition de Gide, est l’écrivain qui se distingue par la concision, l’ordre, la mesure, la simplicité de son écriture) ou au contraire il a pu s’appliquer à des œuvres capables de porter un défi à la tradition (comme la Recherche de Proust).

Violaine houDaRt-MeRot (Métamorphoses du patri- moine littéraire en France: du classicus scriptor au classi- que francophone, pp. 37-54) rappelle à son tour que le mot a pris au cours du Grand Siècle la connotation de modèle digne d’imitation, pour devenir au début du xixe synonyme d’art désuet, dépassé: c’est Stendhal qui utilise “classicisme” en opposition à “romantisme”, au moment même où l’idée s’impose d’un patrimoine culturel national capable de rivaliser avec les Anciens. Avec Sainte-Beuve, l’idée assume un caractère univer- sel (un classique est un auteur qui «enrichit l’esprit humain»); Gide, au début du xxe siècle, récupère l’ap- proche historique et assimile le classique au génie fran- çais. Dans des formules comme “classiques africains” ou “classiques francophones”, employées par le monde de l’édition pour définir des écrivains incontournables, la notion semble récupérer son sens originel de scriptor classicus. Voici donc que l’association de “classique” et de “francophone” vient briser «l’alliance […] entre classique, nation et langue française» (p. 50), et demande l’élaboration de «critères de valeur qui ne soient pas exclusivement nationaux», tout comme une remise en question des idéologies qui président à l’éla- boration de l’histoire littéraire et du patrimoine trans- missible. Un passage, ce dernier, qui n’est pas du tout évident quand on considère le caractère centralisateur et uniformisant de la culture française. C’est pour cette raison que Blanchaud suggère de séparer l’idée de clas- sique de celle d’universalité (qui a trop souvent «servi la visée unificatrice et colonisatrice de la France») pour la rattacher, à l’instar d’Italo Calvino, à une idée de durée, c’est-à-dire à la capacité d’une œuvre de susci- ter des lectures et des réécritures toujours renouvelées.

Si la dimension nationale peut avoir une influence stratégiquement positive pour les littératures fran- cophones mineures, c’est justement dans la mesure où elle favorise une reconnaissance de ces mêmes lit- tératures dans leurs espaces d’émergence respectifs, et peut même «contribuer à une meilleure réception française des patrimoines francophones» (p. 27). Car – voici le problème d’arrière-fond évoqué par Blanchaud – la réception des œuvres francophones (lire: non françaises) doit encore escompter, surtout en milieu scolaire et universitaire, de multiples résis- tances. Cependant la France n’est pas la seule respon- sable de cette situation, qui peut avoir deux explica- tions: soit les instances nationales de légitimation sont absentes, soit dans des pays bilingues ou trilingues chaque communauté linguistique se tourne vers le patrimoine littéraire du grand pays monolingue voisin de même langue (comme la communauté francophone de Belgique par rapport à la France) au détriment de son patrimoine “local”.

Ces deux problèmes (la légitimation et la formation d’un patrimoine national) sont le fil rouge qui parcourt les cinq articles successifs, qui abordent des sujets ponctuels dans différents contextes francophones.

Laurent DeMoulin (L’inaccessible “devenir-classi- que” d’André Baillon, pp. 55-71) propose une analyse des raisons du semi-échec, ou de la semi-réussite, de l’écrivain belge, dont la promesse de devenir classique ne s’est jamais réalisée. Demoulin propose cinq cri- tères d’accession au titre de classique (entendu dans le sens d’écrivain passé à la postérité) pour tracer le profil de Baillon: l’importance quantitative de l’œuvre; son originalité; sa réception; la situation de l’écrivain au point de vue institutionnel; la biographie légendaire de l’auteur.

Lucie JoubeRt, dans La place des femmes parmi les “classiques”: faut-il en rire ou en pleurer? (pp. 73-83), se penche sur la disproportion éclatante entre la présence masculine et féminine dans les grandes collections édi- toriales (voir la «Bibliothèque de la Pléiade»). Joubert plaide – sans grande originalité, comme elle-même le reconnaît – pour la création d’une bibliothèque entiè- rement composée de classiques féminins comme ultime ressource pour assurer la publicité, la diffusion et la conservation d’un patrimoine – cette fois-ci non natio- nal mais «de genre» – autrement condamné à l’oubli.

Paul aRon propose une enquête sur L’enseignement des classiques en Belgique francophone (pp. 85-99). L’hypothèse qu’il défend est que l’absence de clas- siques en Belgique dépend du fait qu’historiquement l’enseignement dans ce pays n’a pas été structuré de manière à produire des auteurs classiques. Deux pé- riodes sont prises en considération par Aron: de 1830 à 1980 et les trois dernières décennies du xxe, marquées par l’expérimentation de l’enseignement «Rénové».

Roger FRancillon (Les avatars de la Chrestomathie Vinet et la difficile constitution d’un patrimoine ro- mand du xixe siècle à nos jours, pp. 101-115) montre

le curieux phénomène par lequel des écrivains liés à la Suisse française comme Rousseau, Constant et Mme de Staël ont dû attendre la première moitié du xxe siècle pour être considérés comme partie intégrante du patri- moine littéraire romand. Ce-dernier d’ailleurs, dans une Confédération dans laquelle chaque canton jouit d’une extrême liberté dans le choix des programmes, a beaucoup de difficultés à se constituer.

Dans le dernier article (pp. 117-127), Christiane

chaulet-achouR présente le projet du Dictionnai-

re des écrivains francophones classiques paru en 2010 chez Champion, conçu comme un outil à la disposition

des enseignants pour approcher des littératures et des auteurs injustement méconnus. Dans ce cas, l’appella- tif de “classique francophone” veut signaler aux lec- teurs de langue française, aux éditeurs et surtout aux enseignants, des auteurs incontournables qui, de par le monde, ont écrit et créé en français, et qui méritent absolument d’être lus, publiés et enseignés à l’école et dans les cours universitaires (où, actuellement, l’ensei- gnement des littératures francophones «repose sur des bases très fragiles», p. 121).

La fortune du “classique francophone”, selon Blan- chaud, dépendrait ainsi de la capacité du texte de vivre dans la longue durée et de surmonter les obstacles qui empêchent sa reconnaissance immédiate. Marcel Proust, devenu un classique par excellence après avoir été un novateur marginalisé, au début de sa carrière, par le centre de légitimation de l’époque, disait que «tout art véritable est classique, mais les lois de l’es- prit permettent rarement qu’il soit, à son apparition, reconnu comme tel». Cependant, les réflexions de cet ouvrage semblent indiquer que les textes francophones non français doivent toujours surmonter quelques obs- tacles en plus pour accéder à ce statut.

[alexanDRecalvanese]

Rêve fantômes fantasmes, «Ponts/Ponti» 14, 2015, 350 pp.

Questo numero, dedicato alla presenza e alla scrit- tura dell’onirico nelle letterature francofone, indica fin dalla scelta del titolo, che scandisce le diverse, possibili declinazioni del sogno, la volontà di affrontare l’ampio spettro che la tematica propone. Anche se, inevitabil- mente, il risultato è più simile a una serie di carotaggi, destinati a portare in superficie materiali preziosi, che a una panoramica organica dell’argomento, impossi- bile da realizzarsi visto che gli articoli sono soltanto sei, su tempi e spazi molto dilatati: si va infatti dalla Nouvelle-France del Seicento, nella lettura della Rela- tion del 1654 di Marie de l’Incarnation, al Belgio di Robert Poulet, dall’Algeria, al Libano, al Cameroun, e che la breve introduzione del nuovo direttore, Marco Modenesi, non tenta neppure, giustamente, una sintesi problematica di un soggetto tanto vasto, analizzato in tempi e spazi altrettanto vasti. Al lettore l’arduo com- pito.

Ciò non toglie merito ai singoli lavori qui proposti e al loro risultato d’insieme: un apporto di conoscenze preziose e inedite su autori noti e meno noti e un’a- pertura su prospettive di ricerca potenzialmente molto feconde. Per esempio, il primo articolo di Éléonore Julie quinaux (De “Handji” aux “Ténèbres” di Robert Poulet, pp. 11-22), ci introduce alla conoscenza del meno noto fratello del famoso critico Georges Pou- let e alle caratteristiche e alla funzione originale del sogno nella sua opera narrativa: «Robert Poulet mène ses lecteurs du réél initial vers un réel rêvé et d’un réél rêvé vers une recontextualisation mystique. Dans cette projection mystique, l’individu n’y a plus de place, seul la masse compte» (p. 20). Un ruolo davvero inedito dell’onirico nella scrittura narrativa, che ha la forza di coinvolgere il lettore in una nuova visione del mondo.

Il secondo articolo, opera di uno studioso molto no- to della scrittura giudaico-maghrebina di lingua fran- cese, Guy DuGas (La “Œubéïta” et autres fantasmes animaliers chez les écrivains francophones judéo-tuni- siens francophones de l’entre-deux-guerres, pp. 23-32), analizza la presenza ossessiva dei fantasmi animali nel

ghetto, e in particolare del fantasma indicato nel titolo, nei racconti di alcuni intellettuali ebrei che hanno da- to vita alla cosiddetta «École de Tunis». Si passa dalla Tunisia all’Algeria nell’articolo che segue di Ines buR- Get: Un auteur algérien en dialogue avec les fantômes littéraires: “L’Imposture des mots” de Yasmina Khadra, pp. 33-59). Come tutti sappiamo, il nome dell’autore è uno pseudonimo dietro il quale si è nascosto per an- ni l’ufficiale Mohammed Moulessehoul che, nel 2001, nell’Écrivain, ha deciso finalmente di rivelare la sua identità, non senza sollevare problemi presso i suoi lettori, ma soprattutto di ordine personale, identitario, come indica, nel testo qui preso in esame, il dialogo instaurato dall’autore Yasmina Khadra con l’ufficiale- scrittore che ne ha indossato la maschera, ma anche con i suoi (loro?) personaggi, che come capita spesso nella letteratura contemporanea, in particolare nella letteratura postcoloniale, reclamano la propria autono- mia e infine il dialogo fra lo scrittore (nella sua duplice veste) e quelli che ha considerato i suoi maestri, che possono essere, indifferentemente, autori o personag- gi (vedi il caso di uno Zarathustra decaduto, divenuto barbone in una strada di Parigi). Il tutto in una sara- banda schizofrenica che pone in maniera tangibile il problema della complessità inestricabile dello statuto dello scrittore, di quello del lettore e della funzione della scrittura in un mondo quanto mai instabile.

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