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beRnaRD J. bouRque, All the Abbe’s Women. Power

and Misoginy in Seventeenth-Century France, through the Writings of Abbé d’Aubignac, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 2015, «Biblio 17», 224 pp.

Questo saggio si pone un duplice obiettivo: l’assun- to di base, come emerge chiaramente dal titolo, è che sia possibile ricostruire, attraverso la lettura del corpus prescelto – le opere di d’Aubignac – la percezione del ruolo femminile nella società francese secentesca, e come questa fosse influenzata dagli avvenimenti socio- politici dell’epoca. La scelta di d’Aubignac, spiega l’autore, è dovuta sia alla centralità del suo ruolo nel panorama politico, istituzionale e culturale del suo tempo, sia alla ricchezza dei generi in cui si è cimen- tato – dal teatro al romanzo, dalla critica letteraria alla teoria drammaturgica.

Accanto a questo intento, di ordine storico e cul- turale, si esprime l’intenzione di contribuire alla co- noscenza dell’opera dell’Abbé, spesso ridotta al più celebre dei suoi testi, quella Pratique du théâtre che l’edizione moderna di Hélène Baby ha reso da qualche anno di facile accesso.

Ne emerge un quadro d’insieme che rivela un atteg- giamento oscillante di d’Aubignac, che sembra modu- lare e alternare affermazioni misogine a più favorevoli giudizi sulle donne, in particolare sulla possibilità di esercitare un ruolo negli affari di Stato, in base ad un opportunismo politico, dettato dalla necessità di am- mansire la reggente di turno. Ma alternanze tra la voce protofemmista e quella marcatamente misogina sono altresì presenti all’interno di una stessa opera, come se l’autore desse voce a una pluralità identitaria, affian- cando sulla scena letteraria il suo ruolo di religioso a quello di raffinato letterato frequentatore dei salons.

Se da un punto di vista metodologico potrà dispia- cere l’assenza di riflessione sull’influenza delle diverse poetiche, quella teatrale in particolare, nel delineare

i profili dei personaggi femminili, questo saggio ha il merito di permettere una scoperta o riscoperta di aspetti meno noti dell’opera di d’Aubignac, grazie a un’abbondante pratica citazionale e una ricca biblio- grafia primaria. Il taglio critico risente fortemente dell’influenza dei gender studies; e la bibliografia rela- tiva a testi non appartenenti alla critica anglosassone avrebbe forse necessitato di un aggiornamento.

[lauRaRescia]

tiPhaine RollanD, L’Atelier du conteur. Les “Contes

et nouvelles” de La Fontaine. Ascendances, influences, confluences, Paris, Champion, 2014, 272 pp.

Se i Contes et nouvelles rimangono ancora oggi il più misconosciuto tra i capolavori di La Fontaine, di- versi studi recenti contribuiscono a riportarli al centro dell’interesse degli specialisti. In effetti, per una tren- tina d’anni La Fontaine pubblica con pari regolarità le sue raccolte di Contes e di Fables, lavorando paralle- lamente – e non senza che si instauri un dialogo a di- stanza – alla rifondazione dei due generi. Negli ultimi anni, gli studi di Catherine Grisé (vedi in particolare Cognitive Space and Patterns of Deceit in La Fontaine’s “Contes”, 1998) e più recentemente un libro di Jole Morgante («Quand les vers sont bien composés». Va- riation et finesse, l’art des “Contes et nouvelles en vers” de La Fontaine, Berne, Peter Lang SA/Franco-italica, 2013) hanno contribuito a rinnovare l’approccio criti- co. Tiphaine Rolland si inserisce in questo filone, met- tendo da parte però gli interessi teorici e privilegiando un’indagine di tipo storico-filologico sul rapporto di La Fontaine con le fonti e sulla definizione di una nuo- va poetica del genere. In effetti la questione è tutt’altro che secondaria: a differenza delle Fables, i Contes non si inseriscono all’interno di una tradizione definita con

precisione. Se le fonti utilizzate sono molto numerose, La Fontaine evoca esplicitamente solo i classici della novella, in particolare Boccaccio e Ariosto, che funzio- nano come “signaux de genre”. I due autori non godo- no di una particolare fortuna editoriale in quegli anni, ma le raccolte di facezie circolano ampiamente e spesso ripropongono una materia narrativa riconducibile alla novellistica italiana e francese del secolo precedente. L’A. sottolinea la mediazione essenziale esercitata da questa produzione spesso anonima (ma non sempre, come mostra il caso di Métel d’Ouville, cui La Fontai- ne attinge diversi spunti) nella ricezione della novella italiana da parte di La Fontaine. Tuttavia, la scelta di utilizzare il verso e non la prosa distingue nettamente La Fontaine dagli autori di facezie. Tiphaine Rolland riconosce, alla base dell’operazione di La Fontaine, «une filiation double, celle des nouvelles d’inspiration italienne pour l’inventio, et celle des poètes français comme Marot, Saint-Gelais et Voiture pour l’elocutio» (p. 73). La scelta del verso non è una scelta neutra, naturalmente, ma segnala un partito preso di stilizza- zione, di letterarietà, che mette a distanza la materia licenziosa e misogina, creando uno scarto tra la nar- razione e il suo oggetto, scarto accresciuto dal ricorso ponderato al vieux langage. Se da una parte la materia narrativa è sottoposta ad un lavoro di “compressione” per rispettare un imperativo di economia narrativa, dall’altra il narratore si fa ossessivamente presente con i suoi commenti di carattere ideologico o metalettera- rio che stabiliscono una complicità con il lettore (su questo aspetto rimando al mio Immagini dell’autore nell’opera di La Fontaine, Pisa, Pacini, 2009). Il rinno- vamento della tradizione novellistica passa, secondo l’A., per l’influenza del modello della conversazione mondana, che dà ampio spazio al bon mot e alla narra- zione plaisante, privilegiando la brevità a spese dell’e- stensione narrativa. Ma il pubblico di honnêtes gens a cui La Fontaine si rivolge impone al poeta di trovare un tempérament tra la cruda fisicità del fabliau e le bienséances: lo “scetticismo galante” (Jean-Michel Pe- lous), di moda nei circoli mondani, è infatti temperato efficacemente dall’elegante allusività del linguaggio.

L’A. si sofferma naturalmente anche sulle “soglie” del testo, dove si esprime più direttamente e con inedi- ta serietà la volontà di costruire una poetica del conte en vers: se l’alternanza tra nouvelles in versi irregolari e contes in vieux langage risponde ad un’esigenza di va- rietà, l’unità del genere in sede teorica è soprattutto ga- rantita dalla sorprendente presa di posizione contro la verosimiglianza – «Ce n’est ni le vrai ni le vraisemblable qui font la beauté et la grâce de ces choses-ci» (Préface, 1665) – che evidenzia la rottura rispetto all’evoluzione contemporanea della narrativa in prosa. L’analisi in- terna dei Contes consente poi all’A. di elaborare una classificazione di diversi modelli di racconto, classifica- zione in parte ricavata da autori contemporanei come D’Ouville e Callières: dal modello epigrammatico, che privilegia la concisione e la performance discorsiva del personaggio, al modello romanzesco, che consente una rappresentazione più sfumata del sentimento amoro- so, passando per una serie di modelli intermedi. Se i racconti in forma di epigramma restano più legati alla tradizione della facezia per la loro insistenza sull’ingan- no o la derisione ai danni di un ingenuo e per il gusto dell’équivoque, i “contes de beffa ou de stratagème” si ispirano alla novella italiana, basata su un modello at- tanziale più complesso e sulla manipolazione del reale operata da uno dei personaggi; La Fontaine, tuttavia, opera nel senso di una semplificazione delle circostanze per ottenere la massima efficacia e concentrazione. Ci

sono poi i racconti fondati sul ruolo centrale del caso o della Fortuna – «équivalent allégorique du pouvoir du conteur» (p. 143) – nel determinare le circostanze fuo- ri dall’ordinario a cui i personaggi devono far fronte: sono i “contes de quiproquos”, basati sul principio del- la sostituzione, e i “contes romanesques” che recupe- rano atmosfere cortesi, benché filtrate dall’ironia. Ma il rapporto tra queste diverse modalità si modifica da una raccolta all’altra: La Fontaine si allontana progres- sivamente dalla brevità epigrammatica della facezia per dare spazio a strutture narrative sempre più complesse. Il modello prototipico, tuttavia, quello che si impone progressivamente superando la “bigarrure” delle pri- me raccolte, resta il modello della beffa, ereditato da Boccaccio, che guadagna però in virtuosismo grazie ad una cosciente contaminazione con il modello teatrale.

Nell’ultima parte, l’A. si sofferma sui procedimenti stilistici che distinguono La Fontaine dai suoi modelli, in particolare l’allusività suggestiva che si sostituisce all’oscenità esplicita dell’équivoque cercando con il lettore una complicità più sottile. Infine, Tiphaine Rol- land cerca di ricostruire la percezione che i contem- poranei ebbero della novità rappresentata dai Contes. Quasi tutti i giudizi, a partire dalla pubblicazione dei Nouveaux Contes (1674) insistono sul carattere “pi- quant” della narrazione lafontainiana, sia sul piano formale che ideologico: gli imitatori del poeta confer- mano questa lettura, dato che tornano massicciamente alla struttura della facezia rinunciando alla complessità strutturale ed enunciativa del modello. Questa lettura dei Contes in chiave esclusivamente facétieuse può aver influito sulla valutazione riduttiva che si è imposta nei secoli successivi rispetto alle Fables. Il libro di Rolland fornisce quindi numerosi spunti nuovi per valutare un’opera tra le più sfuggenti ed enigmatiche del Grand Siècle.

[FeDeRicocoRRaDi]

eRic tuRcat, La Rochefoucauld par quatre chemins,

“Les Maximes” et leurs ambivalences, Tübingen, Gun- ter Narr Verlag, 2013, 220 pp.

Dopo più di quarant’anni di disinteresse in ambito sia editoriale sia universitario, Les Maximes di La Rochefou- cauld sono state riscoperte e oggetto di una serie di studi.

Eric Turcat esplora Les Maximes per analizzarne il famoso moralismo monolitico e la loro presunta ambi- valenza, con quattro differenti approcci, nel complesso convincenti. Segue, in primo luogo, le vie più tradizio- nali della retorica ironica e della linguistica modale, poi si lancia nei sentieri meno battuti e conosciuti dell’an- tropologia strutturale (originale il capitolo intitolato «Le triangle culinaire du discours amoureux») e della psi- cologia comportamentale contemporanea («L’amour- propre entre agressivité et anxiété»).

Lo studio ha il pregio di rileggere le famose sentenze, spesso criticate per il loro moralismo, facendo emergere quella saggezza secentesca ricca di ambivalenze e di dop- pi sensi. Una breve bibliografia conclude il volume.

[MonicaPavesio]

Jean Racine, Breve storia di Port-Royal, premessa

di M. Richter, postfazione di Giulia Oskian, Pisa, Edi- zioni della Normale, 2013, 226 pp.

La traduzione italiana dell’Abrégé de l’histoire de Port-Royal, ultimo atto creativo di Racine di un percor-

so penitenziale e di un impegno storico e morale inizia- to negli anni successivi alla Phèdre, esce grazie al lavoro di Giulia Oskian. Il testo italiano, stabilito dalla recen- te edizione critica di Jean Lesaulnier, con prefazione di Philippe Sellier (Paris, Champion, 2012), è preceduto da una premessa di Mario Richter e seguito da uno stu- dio della traduttrice, dal titolo La retorica dell’Abrégé: tra paradosso tragico e dualismo apocalittico.

Mario Richter rilegge con maestria e commenta la storia del celebre monastero scritta da Racine, parago- nandola al monumentale Port-Royal di Sainte-Beuve, per farne emergere le differenze. Una storia sintetica quella di Racine che si colloca nell’ottica di chi cerca un solido valore spirituale, basandosi su un’esperienza di- retta degli avvenimenti e dei protagonisti, nella certezza che il tanto contestato e calunniato monastero è espres- sione della grazia divina. Il racconto di Racine può esse- re interpretato come una lotta tra il ‘bene’ e il ‘male’, tra il monastero e la sua purezza da una parte e gli opposi- tori, guidati dalla potente Compagnia di Gesù dall’altra, con l’intento di dimostrare e legittimare la cattolicità e l’estraneità a ogni accusa di eresia di Port-Royal.

La traduzione che, citando le parole di Richter, riesce a «mantenere così bene accesa la ‘tenera luce’ che l’opera emana e a comunicare al lettore italiano le migliori suggestioni del testo», è corredata da un accurato apparato di note e seguita, come abbiamo detto, da uno studio di Giulia Oskian sulla struttura del testo.

[MonicaPavesio]

Monika kulesza, Le romanesque dans les Lettres de

Madame de Sévigné, Frankfurt, Peter Lang, 2014, 178 pp.

Si tratta di uno studio che si prefigge di analizzare gli aspetti romanzeschi presenti nelle lettere della mar- chesa di Sévigné. L’A. chiarisce fin dal principio che, sebbene l’oggetto delle lettere possa essere considerato futile, costituito per lo più da commenti a eventi parigi- ni che la marchesa voleva riportare alla figlia, Françoise de Grignan, che si trovava a Aix-en-Provence, lo stile e l’accuratezza del racconto permettono di definire que- sta corrispondenza una vera e propria opera letteraria, molto più che una semplice causerie.

La prima parte dello studio, intitolata «Le roman de la vie», si occupa di evidenziare quanto il “roma- nesque” influenzi sia la vita della marchesa sia la sua produzione letteraria.

La marchesa utilizza spesso un vocabolario atti- nente all’ambito letterario (afferma ella stessa: «j’écris romanesquement») e i protagonisti dei romanzi le ser- vono da simbolo per evocare tutto un insieme di idee e di stati d’animo (è il caso del Don Quichotte). Quando un paesaggio o una persona le ricordano una situazio- ne letteraria, Madame de Sévigné dà una descrizione romanzesca, come per esempio in una lettera del 24 luglio 1689 in cui parla del fascino di un giovane: «ima- ginez-vous un homme de taille toute parfaite, d’un vi- sage romanesque, qui danse d’un air fort noble» (III, 649). Senza riferirsi ad un’opera precisa, la marchesa restituisce un’atmosfera o un paesaggio riconducibili al genere romanzesco.

Nelle Lettres il termine roman spesso significa histoi- re, non solo nel senso di relation o récit, ma anche con una connotazione di inverosimiglianza, di invenzione, in cui spesso la visione romanesque della realtà quo- tidiana non dipende dai fatti, ma dalla capacità della marchesa di scorgere in essa i tratti del romanzo.

Nella seconda parte dello studio, «Le roman dans les lettres», l’A. ribadisce lo stretto rapporto della mar- chesa con i romanzi, in particolare con il romanzo mo- derno che stava emergendo all’epoca in Francia, e sot- tolinea anche il grande amore di Madame de Sévigné per i “classici” come l’Iliade, i romanzi di Cervantes e il poema storico, in particolare quello di Tasso. L’A. analizza le tematiche tipiche dei romanzi quali l’amore, la guerra e la morte, mettendo in risalto quanto que- sti argomenti pervadano tutta la produzione letteraria della marchesa.

Dal punto di vista della scrittura, Madame de Sévigné, lettrice colta e raffinata, riproduce lo stile romanzesco: in ogni lettera vi è una frase introdutti- va attraverso la quale si prepara il lettore allo sviluppo del racconto, mettendolo in attesa e suscitando la sua curiosità. Le frasi sono brevi e l’utilizzo del presente avvicina la storia al lettore.

Nella terza e ultima parte dello studio, «“Telles un roman…”», si analizzano nel dettaglio la narrazione, la descrizione, i personaggi e i tempi delle lettere. L’A. concorda con il pensiero di alcuni critici che hanno de- finito lo stile che la marchesa utilizza per certi racconti come “cinematico”.

Questa corrispondenza può essere considerata un romanzo autobiografico dove l’Io è il personaggio principale e gioca un doppio ruolo: quello di colui che guarda e quello di colui che è guardato. L’Io nelle let- tere cessa di essere solo colui che racconta, ma diventa anche colui che si percepisce e si auto analizza: «Les lettres deviennent un ‘laboratoire épistolaire’ dans le- quel on élabore une forme nouvelle: le roman moder- ne» (p. 136).

Nella conclusione l’A. si domanda se l’aspetto ro- manzesco delle lettere sia coscientemente ricercato oppure no, se esse rivestano il ruolo di opera letteraria involontaria o di creazione cosciente. Poiché «le ro- manesque à l’époque était omniprésent dans le champ culturel, qu’il imprégnait les esprits et les œuvres» (p. 159) esso sembra essere la manifestazione di una competenza culturale, di un luogo comune, a cui la marchesa aderisce naturalmente.

Madame de Sévigné racconta episodi della sua vita, realtà quali amore, guerra, morte: tematiche letterarie per eccellenza, che sono presentate con tratti roman- zeschi.

Infine l’A. si chiede se sia possibile definire opera letteraria un testo che non è stato scritto con l’inten- zione di essere pubblicato, concludendo «qu’en écri- vant à sa fille Mme de Sévigné faisait œuvre littéraire, probablement sans le savoir et sans le vouloir. […] Le romanesque […] est loin d’être le seul ou le principal charme des lettres. Mais il est comme la lumière dans laquelle baigne l’écriture. L’esprit de la marquise est imprégné du monde des romans dont l’ombre portée donne du relief à ce qu’elle raconte» (pp. 163-164).

[ceciliaRusso]

L’œil classique, sous la direction de Sylvaine Guyot et Tom conley, «Littératures classiques» 82, 2013, 314 pp.

Il numero monografico di «Littératures classiques» riunisce diciotto contributi dedicati, come annuncia Sylvaine Guyot nella prefazione, all’“Ancien règime du voir”, ossia ai meccanismi di sviluppo, di fabbricazio- ne e di divulgazione dello sguardo nella Francia detta “classica”, al modo di pensare e di rappresentare la vi-

sione, considerata dal punto di vista della percezione e della configurazione del visibile. Si tratta, insomma, di rileggere il xvii secolo francese nell’ottica dei visual studies, di analizzare come la riflessione sulla visione sia accompagnata, nel Seicento, da una serie di contraddi- zioni interne che gli studi riuniti hanno lo scopo di evi- denziare. L’aggettivo “classico” è utilizzato dai curatori come semplice indicazione cronologica e non estetica, anche se, come ben sottolinea Viala nel primo studio della raccolta, la delimitazione del periodo denominato “âge classique” (tutto il xvii secolo?, solo il xvii seco- lo?), risulta, oggi più che mai, discutibile.

I diciotto contributi avrebbero potuto essere orga- nizzati in funzione dell’oggetto sul quale lo sguardo si posa: il teatro (saggi di Biet, Bilis, Cherbuliez, Guyot, Thouret); l’iconografia (studi di Ravel, Roussillon, Via- la); i fenomeni naturali (articoli di Goldstein, Lyons); la visione dell’alterità sociale, etica e sessuale (saggi di Bertrand, Greenberg, Longino, Reguig); la visione del- la storia (studio di Régent-Susini); la visione del testo (articoli di Blanchard, Conley, Peters). Si è preferito, invece, sistemarli seguendo un percorso che tiene con- to delle quattro problematiche ritenute fondamentali per illustrare le caratteristiche dell’“Ancien régime du voir”: «Aux bords du siècle», sezione che esplora come l’identità e la coscienza storica di un’epoca appaia nel- le immagini che tale epoca produce; «Multiplicités», dedicata ad una caratteristica spesso trascurata dell’e- poca classica: la mobilità, la frammentazione e l’etero- geneità dei punti di vista; «Frontière», gruppo di studi incentrato sui limiti (empirici, teorici, normativi), che impone una visione comune; «Actes de régard», capi- tolo conclusivo dedicato all’analisi dei rapporti tra lo sguardo e l’ordine imposto dal potere.

La prima sezione, «Aux bords du siècle», si apre con un interessante studio retrospettivo di Alain via- la (Inventer Watteau) che, partendo dall’analisi di tre quadri di Watteau dipinti intorno al 1715, reperisce la coesistenza nel Seicento di due “savoir-voir”: il model- lo maschile e accademico che impone alle immagini la coerenza di un ordine stabilito, e l’enigma, femminile e galante, che resiste alle imposizioni e spinge lo spetta- tore a creare la propria visione. Il saggio successivo di Tom conley (L’oeil épluche. Voir chez Béroalde de Ver- ville) analizza un testo, Le Palais du curieux di Béroalde de Verville, scritto all’inizio del secolo, che presenta un curioso percorso in cui il libro si trasforma in un qua- dro, nel quale si trovano riuniti fenomeni differenti che possono essere considerati e interpretati liberamente. L’ultimo articolo di Jeffrey S. Ravel (Trois images de l’expulsion des Comédiens italiens en 1697), ritorna su- gli anni cerniera della fine del xvii secolo e l’inizio del

xviii, per esaminare, grazie a tre immagini anonime e

non datate, come l’espulsione dei commedianti italiani da Parigi, attuata da Luigi XIV nel 1697, sia stata rilet- ta e interpretata negli anni successivi.

Cinque studi afferiscono alla seconda sezione della miscellanea, dedicata all’eterogeneità dei punti di vista

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