Marc quaRanta (pp. 39-51) prosegue rintracciando le origini di alcune modifiche del manoscritto di Swann nei turbamenti dell’autore causati dalla gelosia nei con- fronti di Alfred Agostinelli. La gelosia è considerata motivo strutturale anche da Rainer waRninG (pp. 53- 67), che mette al centro della sua analisi il desiderio, forza in grado di trasformare il moralista (ben nota è infatti l’importanza di molti autori del xvii secolo per Proust) nell’iniziatore di un’estetica pienamente mo- derna. In ultimo, Daniele GaRRitano (pp. 69-79) veri- fica il tema ricorrente dello sguardo e della lettura nelle vicende amorose dei vari personaggi.
Nei testi della seconda sezione si mostrano alcuni dei numerosi volti della gelosia: se da un lato Philip-
pe chaRDin (pp. 83-92) illustra l’articolazione del te-
ma nelle tre parti che compongono il primo volume, dall’altro Mina DaRabi aMin (pp. 93-105) introduce una lettura deleuziana della gelosia di Swann, in gra- do di diventare un atto creativo in virtù della conti- nua investigazione della realtà a cui essa fatalmente spinge. Di seguito, Áine laRkin (pp. 107-117) indivi- dua alcuni oggetti che agiscono sui personaggi e sulla trama alimentando la macchina della gelosia, mentre Yasmine RichaRDson (pp. 119-129) pone al centro della propria argomentazione un concetto mutuato dalla lingua inglese, awkwardness, inteso come tratto distintivo dell’amante geloso nonché fecondo errore di prospettiva.
La terza sezione, volta a districare il rapporto tra amore e gelosia, si apre con l’intervento di Stéphane
chauDieR (pp. 133-147), che mette in guardia il letto-
re rispetto all’inscindibilità dei due sentimenti. Tanto Donatien GRau (pp. 149-157) quanto Christina kkona (pp. 159-170) insistono su questa linea, il primo pro- ponendo l’esempio virtuoso di M.me de Villeparisis e M. de Norpois, la seconda interrogando le due nozioni di croyance e di doute nella vicenda di Swann.
La quarta sezione mette la gelosia proustiana in dialogo con vari interlocutori letterari: se nel suo con- tributo (pp. 173-183) Jennifer RushwoRth descrive il momento decisivo dell’allontanamento di Proust dal- la fin’amor di stampo medievale, con Audrey Giboux (pp. 185-198) la gelosia proustiana è messa in relazione al romanzo coevo di Raymond Radiguet, Le Diable au corps (1923), che ne disegna ulteriori sviluppi. Maja
vukušić zoRica (pp. 199-214) racconta della rivalità in
amore tra André Gide e Jean Cocteau, rivelando un’ul- teriore sfumatura della gelosia rispetto al caso prou- stiano; infine Thanh-Vân ton-that (pp. 215-226) e Yona hanhaRt-MaRMoR (pp. 227-238) propongono rispettivamente due accostamenti con il romanzo La Jalousie di Alain Robbe-Grillet e con La Bataille de Pharsale di Claude Simon.
Nell’ultima sezione si analizzano le due trasposizioni cinematografiche di Un amour de Swann e del romanzo di Albertine: nel testo di Candida yates (pp. 241-254) l’iter sentimentale di Swann è osservato in relazione alla raffigurazione della mascolinità che emerge dalla versione cinematografica del 1984, mentre nel testo di chiusura Erika FülöP (pp. 255-268) rintraccia una forma di fedeltà del film La Captive (2000) di Chantal Akerman rispetto al romanzo proustiano, pur nel rico- noscimento di alcune differenze significative.
Gli atti del convegno di Oxford dimostrano la fe- condità del tema della gelosia come luogo di interse- zione delle maggiori preoccupazioni dell’autore della Recherche, che trasforma la condizione umana in ma- teria di riflessione per il romanzo – e il romanziere – su se stesso.
[chiaRaniFosi]
La Place d’Apollinaire, sous la direction d’Anja eRnst et Paul GeyeR, Paris, Classiques Garnier, 2014, «Littérature des xxe et xxie siècles» 11, 380 pp.
«Et moi aussi je suis peintre», dichiarava con pro- fonda convinzione Apollinaire, il primo poeta euro- peo, che prima di tutto voleva essere francese. Non è un caso se avanguardia, cubismo, orfismo, simulta- neismo e surrealismo contano tra le principali parole- chiave da lui introdotte: la sua poesia d’avanguardia trae spunto dallo spazio nuovo del subconscio, che amplifica e arricchisce la sua produzione. Apollinaire vive e si muove in un’epoca in cui sono in atto profondi cambiamenti economici, politici e culturali, dove le in- novazioni tecniche contribuiscono a creare particolari atmosfere nei circoli artistici, innescando una trasfor- mazione del pensiero che porta alla creazione di nuove forme espressive. Rottura con il passato e la tradizione, come avviene con il futurismo: la fede nel progresso è illimitata e solo il futuro sembra contare. Ed è proprio attraverso gli atti del convegno internazionale Apolli- naire dans l’histoire littéraire et artistique européenne, tenutosi all’Università di Bonn dal 24 al 26 giugno 2009, che riscopriamo i tratti principali del mal-aimé, le mille e più sfaccettature che lo caratterizzano e che affascinano ancora oggi i lettori di prosa e di poesia di ogni lingua e cultura. La sua influenza sulla scena artistica e letteraria europea si estende fino al postmo- dernismo, così come la difficoltà di situarsi nella storia e nella critica letteraria.
Il titolo del volume riprende quello dell’articolo omonimo di Michel MuRat, che inquadra l’opera dal punto di vista storico, artistico e letterario non solo in ambito francese, ma anche in quello europeo. L’io poetico come creazione continua, la cultura più o me- no francese di Apollinaire, la sua onnipresenza nello spazio e nel tempo fungono da spunto per un’analisi del ruolo del poeta nei metaracconti della modernità così come nelle costruzioni storiografiche nazionali. Anja eRnst è autrice di una dettagliata introduzione che riassume gli obiettivi e tira le fila del convegno e, mentre Johanna Hellermann è responsabile delle il- lustrazioni e co-direttrice del volume, Hélène Bodin e Juliette Antoine hanno corretto i testi scritti in te- desco, polacco e italiano. Sono sedici i contributi che mirano a tracciare un ritratto il più possibile completo di quello che è stato il più poliedrico degli autori del Novecento, da sempre simbolo dell’unicità attuale e futura, a cavallo tra innovazione e modernità. Un’at- tenzione particolare è riservata al ruolo del poeta in seno alle avanguardie storiche: se wehle tratteggia Les Fenêtres come manifesto di un’estetica tutta nuova,
osteR-stieRle, DebReuille, chuDak e albeRt si occu-
pano rispettivamente del suo rapporto con il cubismo e il surrealismo da un lato, i movimenti russi e spagnoli dall’altro. Particolarmente interessanti risultano poi i legami con Nerval e Quinet nella visione di naliwaJek, con Salmon in quella di GoJaRt, con Ungaretti e Mon- tale in quella di MeteR.
Nonostante la completezza del volume, tra i vari spunti proposti sembra forse mancare un pensiero sul ruolo delle figure femminili nella vita e nell’opera di Apollinaire, una in particolare: è quella di Marie Lau- rencin, peintre a tutti gli effetti, che è alla sua destra nel dipinto celeberrimo di Henri Rousseau, in cui la pittrice tocca il cielo con un dito. Ecco, forse è proprio quello il suo posto: sospeso tra cielo e terra, accanto alla sua musa, con i piedi ben piantati al suolo e lo sguardo già oltre.
Le Surréalisme et les arts du spectacle, dossier réuni et présenté par Sophie bastien et Henri béhaR, Lau- sanne, L’Age d’Homme, 2014, «Mélusine» n. XXXIV, 319 pp.
Racconta Ionesco, con compiaciuta ironia, dello stupore di Breton, Soupault e Péret, all’accorgersi di quanto le loro intenzioni, intuizioni e convinzio- ni poetiche risultassero pienamente messe in scena proprio dal suo teatro. Come a dire, con paradosso tutto ioneschiano, che un (autentico) teatro surreali- sta nasceva solo fuori dal movimento surrealista, oltre e altrove rispetto ai suoi confini. L’aneddoto sembra offrire una risposta complessiva all’interrogazione del ricco dossier curato da Sophie Bastien e Henri Béhar in rapporto alle non lineari relazioni tra il Surrealismo e il teatro e, viceversa, agli aspetti del linguaggio sce- nico e drammaturgico novecentesco assimilabili a una più o meno marcata poetica surrealista. L’esperienza (e l’esigenza) di un teatro surrealista non si coglie entro il suo definito e delimitato alveo storico – co- me anello di congiunzione tra teatro simbolista e dell’assurdo, attraversando l’anarchica provocazione dadaista – quanto in prospettive decentrate (rispet- to a figure autoriali, codici di genere o prospettive analitiche), demoralizzate nello spazio e liberamente fluenti nel tempo. In questo senso, persino l’esame dell’unica autentica concezione non-rappresentativa, onirica e destrutturata del linguaggio drammaturgico, effettivamente legata alla poetica di Breton, sembra prendere corpo e definizione nell’opera di Roger Vi- trac solo passando attraverso le sue postume influen- ze su Beckett o Novarina (Michel coRvin, Les legs du surréalisme au théâtre, pp. 21-33) o alla sua capacità di ridefinire il significato della figura dello spettatore (Dina Mantcheva, Le rapport scène-salle dans le dra- me surréaliste, pp. 87-97) – così come la lezione di Artaud rivela la sua cifra surrealista solo nelle sue tra- duzioni performative in Jan Fabre o Matthew Barney (Jean-Yves saMacheR, Antonin Artaud, précurseur de la performance contemporaine, pp. 203-214). Specu- larmente, la verifica di una dimensione teatrale nella poetica di Breton si vaglia al confronto con il pensiero secentesco di Rotrou e Pascal (Diana vlasie, Le to- pos baroque du theatrum mundi, antidote au “peu de réalité”, pp. 35-44), o nel suo possibile innesto extra- generico, nelle forme del récit e del romanzo (Misao
haRaDa, André Breton et la “règle des trois unités”
comme rhétorique temporelle, pp. 73-85).
Seguendo il radicale (e straniante) nomadismo del sogno surrealista di teatro, il dossier esplora il pro- cesso di progressiva espansione spaziale – dalla scena rumena di Gellu Naum e Gherasim Luca al Théâtre Quotidien del Québec – e cronologica – dall’inven- tario di eredità che sembrano invero moltiplicare i capitali surrealisti (e incarnarne finalmente i più se- greti fantasmi) in Beckett (Henri béhaR, Le chaînon manquant, pp. 137-154) o Ionesco (Marie-Claude
hubeRt, Ionesco, un héritier du surréalisme, pp. 155-
166) alle scoperte risonanze surrealiste nel romanzo del secondo Novecento (Gabriel saaD, Arts du specta- cle et poétique du récit dans “La Marge” d’André Pieyre de Mandiargues, pp. 189-201), o ancora nei testi te- atrali dell’estremo contemporaneo (Martine antle, Réécriture du quotidien et du spectral dans le théâtre de Marie Ndaye, pp. 167-177). In questa prospettiva, la pubblicazione, all’interno del dossier, di Hanou- nan, pièce inedita di Georges RibeMont-DessaiGnes (pp. 45-59), analizzata e decifrata da Gilles losseRoy (pp. 61-72), dimostra nel suo saporoso gioco d’avan-
guardia, la permeabilità e la reversibilità di tempi e poetiche, in un aurorale 1911, ancora in attesa della precisa definizione degli immaginari surrealisti e da- daisti a venire.
[nicolaFeRRaRi]
AuDe LeblonD, Sur un monde en ruine. Esthétique
du roman-fleuve, Paris, Honoré Champion, 2015, «Lit- térature de notre siècle» 49, 630 pp.
Maître de conférences all’Université Sorbonne Nou- velle-Paris 3, Aude Leblond pubblica con il presente volume una rielaborazione della propria tesi di dotto- rato, già vincitrice di un premio attribuito dalla Chan- cellerie des Universités de Paris. L’obiettivo principale del lavoro è mettere in luce l’originalità, storica oltre che compositiva, del roman-fleuve, genere nato nel pe- riodo tra le due guerre. Basandosi su un corpus prima- rio di quattro romanzi – Les Thibault (1922-1939) di Roger Martin du Gard, L’Âme enchantée (1922-1934) di Romain Rolland, Les Hommes de bonne volonté di Jules Romains (1932-1946) e Chronique des Pasquier (1933-1945) di Duhamel – la cui scelta si fonda su cri- teri scientificamente convincenti, l’A. sviluppa la pro- pria argomentazione in due tempi; dapprima, si dedica a restituire il quadro storico entro cui il roman-fleuve si situa (cap. I e II); in seguito, ne studia i temi e la struttura al fine di metterne in luce le peculiarità (cap. III, IV e V).
Operando una vera e propria immersione nella storia letteraria, l’A. rintraccia i modelli e i contro- modelli del roman-fleuve, basandosi soprattutto sulle corrispondenze e i carnets degli autori in questione. Se una parte della critica lo giudica un genere in ritardo sui tempi, l’A. cerca di dimostrare il contrario, ovvero come il roman-fleuve possa ritenersi l’espressione di un’epoca, quella del post 1918, in cui si fa pressante la necessità di (ri)costruire. Alla fine del secondo capito- lo, nello spazio di alcune pagine, forse troppo poche, vengono messi in luce interessanti punti di convergen- za tra la poetica del roman-fleuve e l’actualité intellec- tuelle, in particolare la filosofia di Bergson, le teorie di Freud, la nascente sociologia e l’unanimisme di Jules Romains.
Come già annunciato nell’Introduzione, i restanti tre capitoli del volume sono dedicati allo studio dell’es- thétique del roman-fleuve. In un primo momento, l’A. analizza il corpus focalizzandosi sui rapporti fra indi- viduo, famiglia e società: se l’aspirazione del roman- fleuve è di rendere conto della vita collettiva, gli autori non rinunciano a evocare il destino di personaggi la cui esistenza eccezionale permette di capire meglio la Storia. Nel capitolo successivo l’A. si concentra sulla struttura del roman-fleuve, in cui è evidenziata una cer- ta coesione tematica. Di grande interesse, è lo studio del rapporto che esiste tra la sua composizione e le tecniche di montaggio del nascente cinema. Il quinto e ultimo capitolo è interamente dedicato all’analisi dell’imaginaire del roman-fleuve. Mettendo in eviden- za i meccanismi attraverso i quali il genere convoca la partecipazione del lettore, l’A. fa del roman-fleuve uno spazio di sperimentazione letteraria. Sebbene vi arrivi per una strada diversa, conclude l’A., nel suo scopo il roman-fleuve non è diverso dal romanzo moderni- sta: sur un monde en ruine, le opere del corpus cercano di dare vita a una nuova, e dunque problematica, rap- presentazione del mondo.
FRéDéRic saenen, Drieu la Rochelle face à son œuvre, Gollion, Infolio, 2015, 198 pp.
Entrato nella Pléiade nel 2012, Drieu la Rochelle è diventato oggetto di studio da alcuni anni, come di- mostra anche il recente saggio di Frédéric Saenen, il cui merito principale risiede nell’imparziale equilibrio con cui viene analizzata l’opera dello scrittore senza per questo che venga omessa né ridimensionata l’im- barazzante adesione di Drieu al progetto politico che troverà nel nazismo il proprio approdo. Profondamen- te abitato dall’ossessione della decadenza della Fran- cia, Drieu aveva riconosciuto nella Germania di Hitler l’unico stato europeo capace di realizzare quella vasta autarchia in grado di restituire all’Europa un ruolo di prim’ordine nel panorama mondiale, come lo scrittore afferma nei suoi scritti non solo saggistici ma soprattut- to intimistici, quali il Journal, redatto dal 1939 al 1945 ma diffuso solamente a partire dal 1991 e Récit secret, pubblicato postumo dal fratello nel 1961. Opere que- ste ultime, inoltre, attraversate dalla tentazione suicida dello scrittore, che metterà fine alla propria vita il 15 marzo 1945 all’età di cinquantadue anni.
D’altra parte anche i romanzi presentano non po- chi elementi autobiografici che Saenen ripercorre det- tagliatamente, da Feu follet (1931) a Beloukia (1936), sino al più famoso Gilles (1939). Saenen compone un saggio al contempo biografico e critico, nel tentativo riuscito di rintracciare e analizzare gli intrecci storici, ideologici, culturali nonché letterari alla base dell’inte- ra vicenda di Drieu la Rochelle.
Di agevole lettura, il saggio presenta alcuni appro- fondimenti, messi in rilievo da una veste tipografica diversa, volti a documentare e chiarire alcuni aspetti peculiari, come, per esempio, il rapporto di Drieu con il Surrealismo, al quale aderì inizialmente per poi di- staccarsene, oppure il confronto con altri scrittori suoi contemporanei, quali Barrès e Céline e, cruciale, l’ade- sione al Parti Populaire Français fondato da Jacques Doriot nel 1936, noto per la sua posizione collabora- zionista.
[MichelaGaRDini]
blaise cenDRaRs, RayMone Duchâteau, Correspon-
dance 1937-1954. «Sans ta carte je pourrais me croire sur une autre planète», texte établi, annoté et présenté par Myriam Boucharenc, Carouge-Genève, Zoé, 2015, «Cendrars en toutes lettres», 592 pp.
Di particolare interesse l’uscita di questa corri- spondenza che permetterà di meglio conoscere la vita e l’opera di Cendrars, poeta, romanziere, autore di mémoires, giornalista, nonché fotografo, cineasta, pittore e anche uomo che amava le donne. Le lettere qui raccolte – che seguono i precedenti volumi dedica- ti alla corrispondenza tra Cendrars e Poulaille, Guiet- te e Miller, insomma un Cendrars en toutes lettres, come scrive Miriam Cendrars nell’«Avant-propos» (pp. 5-6) – sono infatti quelle che lo scrittore-soldato ha inviato, negli anni 1937-1954, a Raymone Duchâ- teau, la compagna di una vita che, si legge nel portrait di «Résonances» (pp. 555-582), ha tuttavia voluto un «mariage blanc» (p. 565), amando Cendrars come un fratello, mossa da un senso di tenerezza per un uomo che, al loro primo incontro, si presenta in condizioni di estrema magrezza, «blanc, mais blafard» (p. 562), come nel celebre ritratto di Modigliani, e senza un braccio: il destro, quello con la mano della scrittura, perso sul fronte nel settembre 1915. Nella Préface,
«Blaise et Raymone à corps perdu» (pp. 7-25), la cu- ratrice del volume individua in questa corrisponden- za una tripla portata – «l’Histoire l’amour l’écriture» (p. 13) – e sottolinea l’incompletezza di queste lettere: Cendrars gettava quelle ricevute dalla “femme aimée” («amoureuse à sa manière») non appena lette; la «Note éditoriale» (pp. 27-29) ci informa che le lettere sono dunque quelle «ayant échappé à la destruction volon- taire» (p. 27). Gli originali, conservati nel Fonds Blaise Cendrars (Archives littéraires suisses della Biblioteca nazionale svizzera, a Berna), presentano di frequente difficoltà nella datazione delle carte, come varianti ortografico-sintattiche, o abbreviazioni nei nomi delle persone evocate, che Myriam Boucharenc sempre ri- solve con rigore critico. Questa corrispondenza – cui si devono aggiungere degli «Échos» (pp. 539-554), vale a dire le lettere che Cendrars ha scritto alla madre di Raymone, la sua cara «Mamanternelle» (la “mère éter- nelle”) – si articola in tre grandi periodi: «De 1937 à 1940» (pp. 33-47), «De 1943 à 1947» (pp. 49-506) e «1954» (pp. 507-535).
Sono gli anni in cui Cendrars riscrive, a distanza di oltre trent’anni dall’esperienza vissuta, i propri souve- nirs della prima guerra mondiale; ma anche quegli anni in cui, nel bel mezzo di un’altra guerra, egli si dedica a dei reportages che raccontano degli aneddoti, tracciano dei caratteri e dei ritratti dell’anima, mostrano la pau- ra e le passioni degli uomini. Di tutto ciò troviamo un racconto intimo in queste lettere, dove Cendrars tocca argomenti disparati – dalle proprie malattie al tempo e al denaro –, rivolgendosi alla sua «chère Raymone», baciandola spesso «de tout cœur».
[RiccaRDobeneDettini]
Jean-PieRRe boulé, aRnauD Genon, Hervé Gui-
bert, l’écriture photographique ou le miroir de soi, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 2015, 273 pp.
Gli studi guibertiani, così fecondi in questi anni, si arricchiscono di un nuovo capitolo. I due autori provano qui a indagare la dimensione fotografica, nascosta ai più, dell’opera di Hervé Guibert. Con incisività e ricchezza di riferimenti ricostruiscono l’u- niverso fotografico dell’autore e chiariscono fin dalle prime pagine che la sua produzione fotografica al pari di quella testuale fa capo a una stessa ricerca: quella di una «forme originale» (p. 10) che renda conto di un trouble intérieur. Se, da studiosi della letteratura, nell’introduzione ci riportano ai problemi aperti dal- lo statuto dell’autofiction, nei capitoli successivi, da storici, ci fanno rileggere le pagine culturali di “Le Monde” dove Guibert si è formato e per alcuni anni, dal 1977 al 1985, ha seguito con acume e flânerie in- tellettuale la via dell’immagine incontrandosi e discu- tendo con personaggi del calibro di Kertesz, Cartier- Bresson, Faucon e Barthes, del quale recensisce La Chambre claire. Negli stessi anni Guibert sperimenta un rapporto singolare con l’immagine: fotografa le cere del Musée Grevin, impagina un roman-photo con le adorate zie Suzanne e Louise e si esercita, infine, nell’antica arte dell’ekphrasis. I due studiosi parlano a ragione di una pulsione scopica che invade l’opera guibertiana e ne rivela l’estetica. Ne L’Image fantôme, egli stesso affermerà di preferire le fotografie che of- frono un’immagine décalée del reale. Boulé e Genon ne traggono la conferma per dire che l’attività foto- grafica di Guibert, al pari di quella testuale, persegue un unico obiettivo: trasformare la realtà tramite un
lungo esercizio che prevede il simulacro, lo spettaco- lo e la riflessione sulla morte; questa la tesi centrale dei due autori. La minuziosa analisi del roman-photo Suzanne et Louise fornisce loro parecchi riscontri.
Uno dei problemi maggiori che deve affrontare lo studioso guibertiano, come pure il semplice lettore, è