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b) dal 1850 al 1900, a cura di Ida Merello e Maria Emanuela Raff

stéPhane PaccouD, «Le luxe frivole des acces-

soires». Considérations sur la peinture d’histoire euro- péenne aux Expositions universelles de 1855 et 1867, «Romantisme» n. 169, 2015, pp. 69-82.

La grande Exposition universelle, che sostituisce per l’anno 1855 il Salon, rappresenta un’occasione ecceziona- le di conoscenza e confronto per gli studiosi d’arte france- si, che tuttavia essi esprimono prevalentemente – secon- do l’A. – con delusione e nostalgia per il passato, sottoli- neando negativamente la sostituzione quasi generalizzata della «peinture d’histoire» con la «peinture de genre», fatti salvi i nomi sacri di Delacroix e Ingres, universal- mente riconosciuti. In particolare, il «genre historique», il cui fondatore riconosciuto appare Paul Delaroche, sembra costituire una mediazione di successo con il gu- sto corrente del pubblico (non solo in ambito pittorico peraltro), ed essere ampiamente rappresentato nell’Expo- sition del 1855. Il passaggio dalla storia all’aneddoto che esso consacra, la crescente propensione per i dettagli di colore locale medievaleggianti e la passione per stoffe e dettagli vistosi, cui sembra sottrarsi negli anni Cinquanta e Sessanta il solo Henri Leys, decreta tuttavia l’inizio del declino del «genre historique» nell’Exposition del 1867.

[MaRiaeManuelaRaFFi]

À la croisée des genres: intergénéricité du merveilleux au xixe siècle, sous la direction de Vérane PaRtensky, «Féeries» n. 12, 2015, 209 pp.

Questo numero di «Féeries», dedicato al genere merveilleux, coordinato da Vérane PaRtensky, inizia con un articolo della stessa studiosa – Du romantisme au symbolisme: un merveilleux moderne? – che riper- corre a ritroso l’itinerario del genere, partendo dal racconto «Il était une fois…» di Jules Claretie del 1880 in cui appare evidente lo sgretolarsi del «temps mythi- que, stable et anhistorique» a contatto con la tempora- lità moderna, per risalire fino agli inizi del xix secolo quando tale dimensione mitica viene recuperata come «trace des croyances perdues et de mystères oubliés». Le forme attraverso le quali si realizza la trasformazio- ne del conte merveilleux, o la sua «perversion», sono varie: dalla rivisitazione ironica al passaggio al roman- zo, iniziato da Balzac con La Dernière Fée e continuato dal romanzo fantastico o più genericamente occulti- stico, alla trasmigrazione delle figure fiabesche nella poesia simbolista, dove, interiorizzato, il merveilleux tende a confondersi con «la magie suggestive du mot».

Paule PetitieR (Un merveilleux couleur du temps: merveilleux, fantastique et histoire chez Nodier, Miche- let et Sand) prende in esame i differenti modi in cui i tre autori realizzano il passaggio dal merveilleux al fantastico. Nelle Légendes rustiques George Sand mostra, nel passaggio dai primi tre racconti a quelli successivi, la perdita della «vertu sociale et morale du merveilleux» e il passaggio al rapporto problematico con la storia, intesa come traccia di avvenimenti ter- ribili e violenti, che il fantastico traduce. Allo stesso modo nel Trilby di Nodier si assiste alla marginalizza- zione progressiva del merveilleux, mentre, parallela-

mente all’irrigidimento estetizzante del rapporto fra il protagonista e la natura, emerge la soggettività del fantastico: «Chassés de la nature les esprits habitent, enrichissent et tourmentent l’intériorité humaine». Il passaggio fra i due generi viene letto su un più ampio sfondo storico da Michelet, per il quale l’A. sottolinea «la forte intertextualité qui relie La Sorcière à Trilby» e il comune tentativo di «reconstituer un sacré imma- nent de la nature pour compenser l’effondrement de la transcendance».

In Féeries nervaliennes. Désenchantement et réen- chantement du monde dans “Sylvie”, Pierre laFoRGue indaga su uno degli «espaces imaginaires» che costitui- scono il mondo nervaliano, il Valois, a un tempo luogo geografico e storico reale e luogo immaginario, popo- lato di creature leggendarie e ambientazione ideale del «conte de fées» che Sylvie apparentemente costituisce. In realtà, Laforgue trova nella novella la progressiva degradazione del fiabesco, da un duplice punto di vi- sta: storico-sociale e poetico. Il primo, più evidente, appare legato ai cambiamenti intervenuti nella socie- tà francese («désenchantement»); il secondo, stretta- mente connesso al recupero delle canzoni del Valois inserite alla fine di Sylvie, ha invece a che vedere con il tentativo dell’autore di «réenchanter» la scrittura e il mondo attraverso la poesia e prima di tutto la poesia popolare.

Julie anselMini riprende il significativo passaggio dal conte merveilleux al romanzo in due autori appa- rentemente molto distanti (Le roman et les sortilèges: réemplois du conte merveilleux chez George Sand et Ju- les Barbey d’Aurevilly), riuniti dalla loro comune natu- ra di conteur, evidente per l’A. anche nei due romanzi La Petite Fadette e L’Ensorcelée. Al di là delle scelte tematiche, che comportano nei due casi presenze ma- giche positive o malefiche, l’elemento comune è dato dall’inserimento del merveilleux nella cornice realistica del romanzo, per la quale entrambi gli autori scelgono luoghi lontani e non toccati dalla modernità, oltre a una «démultiplication de l’instance énonciative» che consente di mantenere compresenti nei due roman- zi – sia pure con esiti assai diversi – l’istanza del so- prannaturale e quella, a volte altrettanto indecifrabile, dell’animo umano.

Il saggio di Jean-Louis cabanès, Banville au pays des merveilles: idéal et illusion, mostra anzitutto forte presenza del merveilleux nell’opera del poeta parnas- siano, prendendo particolarmente in esame i suoi Con- tes féeriques, caratterizzati da una volontà di riscrittura che riporta nei testi un repertorio di figure e di oggetti magici già conosciuti, collocandoli nel contesto della vita quotidiana contemporanea. Con dei filtri signifi- cativi tuttavia, dato che Cabanès sottolinea la costante presenza nei racconti della messa in scena teatrale, luo- go di apparizione di fate dai nomi mitologici, visibili solo ad artisti, poeti e bambini. Un altro schermo si- gnificativo in Banville è la tentazione parodica, assente nella prima «féerie», La Vie d’une comédienne, ma poi sempre più presente a definire i limiti di una lettura allegorica del merveilleux banvilliano.

Nel suo articolo Écrire sans les fées: naturalisme et merveilleux Chantal PieRRe parte da un’affermazione molto precisa: «Il serait vain de chercher une querelle

engagée par le naturalisme contre le merveilleux» e dalla posizione di Zola, che considerava innocua la «féerie» in quanto esplicitamente estranea alla realtà. I natura- listi che si preoccupano del merveilleux sono quelli che patiscono il limite dell’«écriture documentaire» e danno vita, secondo l’A., a due tipi di convergenza: il «natura- lisme émerveillé» che conferisce agli elementi della mo- dernità una patina di magia, e una sorta di naturalismo nostalgico, consapevole della perdita del merveilleux, che confronta malinconicamente passato e presente. Zo- la e i Goncourt appaiono come i più significativi rappre- sentanti delle due posizioni. Seguono, in un’«Annexe», alcune ipotesi dell’A. sulle fonti del racconto di Lizadie contenuto in Chérie di Edmond de Goncourt.

I legami fra i racconti di fiabe e l’Opéra-Comique sono l’oggetto dello studio di Olivier baRa (Le conte en scène, de “Cendrillon” au “Petit Chaperon rouge”: une métamorphose merveilleuse de l’Opéra-Comique, entre Empire et Restauration?), che prende in esame le due «opéras-féeries» – Cendrillon e Le Petit Chaperon Rouge – rappresentate per tutto il xix secolo a partire rispettivamente dal 1810 e dal 1818. Il tipo di merveil- leux che queste due opere mettono in scena, distan- ziandosi in parte da Perrault e introducendo una sorta di razionalizzazione cara al secolo precedente, pone tuttavia le premesse per un successivo arricchimento nei numerosi rifacimenti ulteriori.

Sophie lucet conclude i contributi allo studio del merveilleux con un articolo dedicato alle riprese di fine secolo della Belle au bois dormant (Les Belles rendormies. Féeries fin-de-siècle) e in generale dei racconti di Perrault in chiave teatrale, rifacimenti spesso condannati dalla critica, con la sola importante eccezione, secondo l’A., della «comédie féerique» Riquet à la houppe di Banvil- le e in parte della elaborazione lirica della Belle au bois dormant proposta da Richepin nel 1907. La fiaba trova una nuova dimensione letterariamente accettabile solo nella rivisitazione che ne realizza la poesia di fine secolo con le Chansons d’amant di Kahn, l’opera poetica di altri simbolisti e soprattutto con la «féerie tragique» di Ma- eterlink Les Sept Princesses, che accentuano «le thème du sommeil séculaire et celui d’un réveil problématique […] qui célèbrent la valeur du rêve et de l’idéal face à une réalité douleureuse et décevante».

[MaRiaeManuelaRaFFi]

PatRick labaRthe, Baudelaire et la tradition de l’al-

légorie, Préface d’Yves Bonnefoy, Genève, Droz, 2015, 919 pp.

Di quest’opera, pubblicata da Droz allo scadere del secolo scorso (1999), si è già reso conto nel n. 132 (settembre-dicembre 2000, pp. 629). Da qualche tem- po esaurita, è ora opportunamente riproposta nella sua forma originale, pur lievemente riveduta e corretta in qualche marginale dettaglio, dallo stesso editore in una sua collana di più larga diffusione e accessibilità («Titre courant», n. 56) meritando anche l’aggiunta di un’ampia e nutritiva «Préface» di Yves Bennefoy, un «frontispice» che ne costituisce la novità sotto il tra- sparente titolo Leurre et vérités des allégories. L’accla- mato poeta e saggista, al cui pensiero e alla cui opera nella prima edizione del libro Labarthe riconosceva il suo debito, dedica ora al tema dell’allegoria una sua impegnata riflessione poetico-critica, dalla quale è an- che possibile desumere una parte significativa della sua attuale visione estetica. Rivolgendosi con parole confi- denziali al «cher Patrick» e passando in termini preva-

lentemente allusivi soprattutto attraverso una rilettura di Le Cygne, Bonnefoy illustra la sua convinzione che l’autentica poesia, pur avendo una propensione per il «rêve métaphysique», giunga ad avere uno stretto rap- porto, «au fond de ce rêve», con il reale, e sostiene che «l’allégorie est impénétrable à la pensée qui ne se veut que conceptuelle» per arrivare ad affermare, tramite una ricca serie di pertinenti esempi baudelairiani, che essa «est de l’aspiration poétique un lieu de manifesta- tion des plus naturels dans la parole, et même de son élan la forme comme cristallisée». Riconoscendo a sua volta il proprio debito al presente libro, con amichevo- le umiltà il poeta così conclude il suo «frontispice»: «Je suis revenu à Baudelaire, mais ce ne sera pas, cher Pa- trick, pour priver plus longtemps nos lecteurs de l’at- tention que vous lui portez. Je n’ai que trop différé la lecture d’un livre sans lequel les réflexions que je viens de faire n’auraient guère pu avoir lieu. J’ai cheminé près de vous, bénéficiant de votre pensée. Que mon frontispice à votre livre ne soit plus maintenant que la page que le lecteur doit tourner!».

[MaRioRichteR]

Baudelaire en Italie, textes réunis par Luca PietRo-

MaRchi, Pari, Champion 2015, «L’année Baudelaire»

n. 17, 220 pp.

Il volume offre all’attenzione dei colleghi france- si un ventaglio di studi italiani, rappresentativi delle diverse tendenze della critica dal 1966 a oggi, rivisti o tradotti per l’occasione (la prima pubblicazione è registrata nelle note dell’introduzione; sarebbe stata forse più utile una nota di riferimento per ogni testo, in modo da far emergere subito quelli del tutto inediti), e si conclude con due interventi francesi, di Catherine

Delons (Autour de la publication des Œuvres posthu-

mes) e di Antoine coMPaGnon (Un post-scriptum inédit et «grossier» dans une lettre de Baudelaire). La raccolta si apre con un omaggio a Francesco Orlando, ossia la riproposta di un suo articolo uscito nel 1966 a propo- sito del sonetto Le Guignon, dove l’indagine psicana- litica si mette al servizio della ricerca estetica per una lettura in profondità che dal sonetto si irradia all’in- sieme delle Fleurs e alle ragioni stesse della scrittura. I testi a seguire non rispettano un ordine cronologico di pubblicazione, ma invece, la successione delle Fleurs: dopo Le Guignon (XI) ecco Franciscæ miæ laudes (LX, Giampietro MaRconi, 2006), L’Horloge (LXXXV, Ma- rio RichteR, 2001), A une passante (XCIII, Antonio PRete, 2007), La Béatrice (CXV, Massimo colesanti, 1998). Gli studi su singoli componimenti si concludo- no con un saggio di Luca PietRoMaRchi sul tema del- la linea nella teoria e nella pratica baudelairiana, che funziona da cerniera rispetto agli studi successivi: Le Confiteor du peintre, (Luca bevilacqua), Sens du re- gard et construction identitaire: Sur les fenêtres (Andrea Del lunGo, 2014), Décadence et crépuscule: le soleil couchant dans l’œuvre critique de Baudelaire (Andrea

schellino), Comment on acquiert du génie… quand

on a des dettes (Francesco sPanDRi), Céline lecteur de Recueillement (Valerio MaGRelli, 2010), Sans Rythme (Gianfranco contini, 1983). Verranno presi qui so- prattutto in considerazione gli articoli preparati per la raccolta, lasciando in subordine gli altri, per quanto ritoccati e tradotti, il cui valore è implicito nella scelta di riprenderli da parte del curatore.

Il saggio di Luca PietRoMaRchi (Baudelaire et la li- gne qui danse, pp. 83-96) appare come una lunga me- ditazione sui rapporti tra realizzazione formale, ricerca

poetica e visione estetica: a sua volta tracciato critico lineare che non si sottrae alle sinuosità dei testi. Sul- la linea centrale ascendente/discendente del pensiero baudelairiano, dalla doppia polarità celeste e infera, e visualizzabile nella sua verticalità come il bastone di un tirso, si avvolgono le spire di una serpentina, più volte indicata da Baudelaire come linea naturale della modernità. Le paginette delle Curiosités esthétiques su Hogarth, e sul suo saggio The Analysis of the Beauty, dove la serpentina è indicata come elemento essenziale della bellezza, erano già state citate da Labarthe co- me l’embrione di riflessioni cui Baudelaire fa ricorso per pensare la modernità. Riflessioni (come a suo tem- po ricordato da Georges Blin), suggerite da Gautier, che, all’Esposizione universale di Londra del 1855, attribuisce alla pittura inglese quella «modernity» il cui termine era stato peraltro inventato da Walpole. Pietromarchi rintraccia nella complessità dell’opera baudelairiana le dichiarazioni di avversione alla linea retta, per procedere poi alla distinzione tra serpentina e arabesque, suggerendo di vedere nell’arabesco «une ligne droite rusée», che, dalle sinuosità, trova nuova energia per slanciarsi verso l’alto. Con acuta sensibilità, l’A. individua invece la vera serpentina in quella linea che «relie, annexe et absorbe» la doppia postulazione verso il cielo e l’inferno, realizzando una bellezza che coniuga le «postulations de l’ange et la séduction du serpent», ma anche il principio maschile e femminile. L’inseguimento della serpentina nelle Fleurs mette in luce il suo percorso, che si spezza, frammentandosi, nelle linee urbane dei Tableaux parisiens. In conclu- sione è proprio nella serpentina spezzata che Pietro- marchi vede rappresentata l’estetica delle Fleurs, i cui componimenti sono infatti definiti da Baudelaire «tronçons» di un serpente.

Luca bevilacqua (Le Confiteor du peintre, pp. 97- 114) sottopone con sottigliezza il poème en prose a una serie di interrogazioni, mostrando come l’io del testo non coincida con l’io poetico e non stia descrivendo un paesaggio naturale, bensì l’atteggiamento emotivo del pittore nell’atto della rappresentazione e contem- poraneamente l’analisi critica di questo atteggiamento. Andrea schellino (Décadence et crépuscule: le soleil couchant dans l’œuvre critique de Baudelaire, pp. 129- 144) indaga su come Baudelaire analizzi dal punto di vista estetico i contemporanei mettendone in rela- zione le opere con il proprio concetto di decadenza. Da ultimo l’A. cita il saggio su Constantin Guys come momento esemplare dell’idea di modernità e del valore del dandismo.

Francesco sPanDRi (Comment on acquiert du génie… quand on a des dettes, pp. 145-158) presenta i due geni sempre indebitati di Balzac e di Baudelaire, l’ammira- zione del secondo verso il primo, e la convinzione bau- delairiana che i debiti siano appannaggio dell’uomo di genio. Nel contrasto tra l’indebitamento e il pagamen- to dei debiti sta la frizione tra il mondo dell’artista e l’ideale borghese; allo stesso tempo, secondo l’A., è in questo meccanismo che si innesca la creatività.

Catherine Delons (Autour de la publication des “Œuvres posthumes”, pp. 193-210) ricostruisce il per- corso attraverso cui Eugène Crépet ha preparato il suo studio biografico posto a introduzione delle Œuvres posthumes di Baudelaire. A differenza del primo bio- grafo, Asselineau, Crépet si preoccupa molto di più di procurarsi informazioni anche sulla famiglia e si curva sulle lettere. Rimproverato di mettere in piazza docu- menti riservati che non dovevano oltrepassare la cerchia degli amici, finisce così col non inserire nessuna lettera indirizzata ad Asselineau. Il lavoro di raccolta delle let-

tere da parte di Crépet fu comunque così ampio che il saggio introduttivo alla loro edizione passò in secondo piano. L’A. presenta una ricca rassegna della immediata ricezione critica e i commenti a caldo degli scrittori che venivano a conoscere un Baudelaire imprevisto.

Antoine coMPaGnon (Un post-scriptum inédit et grossier dans une lettre de Baudelaire, pp. 211-218) conclude con una chicca questa Année Baudelaire: un esemplare della prima edizione delle Fleurs, venduto all’asta a New York nel 2014, inserisce una lettera di Baudelaire a Poulet-Malassis, di cui Crépet nella sua edizione aveva ritenuto opportuno cancellare il post- scriptum. In esso, Baudelaire mostra tutta la sua esa- sperazione per Victor Hugo, dichiarando che «l’em- merde». L’A. mette in relazione questo moto di collera con l’apprezzamento banale e superficiale che Hugo aveva manifestato per Le Cygne.

[iDaMeRello]

anDRea schellino, «Je suis un des premiers qui

l’ont compris». Sur la prétendue «rencontre manquée» de Baudelaire et Manet, «Romanistische Zeitscheift für Literaturgeschichte / Cahiers d’Histoire des Littéra- tures Romanes» 39, 3/4, 2015, pp. 347-355.

L’articolo si presenta come un approfondimento e una contestazione delle pagine che Wolfgang Drost, riconosciuto specialista dell’argomento, ha preceden- temente pubblicato nella stessa rivista (1/2, 2014) col titolo «Vous n’êtes que le premier dans la décrépitude de votre art». Baudelaire et Gautier, Zola et Mallarmé devant la modernité de Manet. Il problema da risolvere sta essenzialmente nella reticenza che, secondo Drost, Baudelaire avrebbe manifestato nella valutazione dell’arte di Manet. Schellino articola il suo intervento in cinque punti, nell’intento di sottolineare la ricostru- zione «conjecturale et fragile» del pur documentato studio di Drost tendente a mettere in luce un atteggia- mento reticente e ingiusto di Baudelaire nei riguardi del suo amico pittore Manet. In primo luogo l’A. mira a dimostrare che la quartina dedicata da Baudelaire al quadro Lola de Valence, «à la différence de ce que Wolfgang Drost écrit, […] est bien un signe d’admi- ration, d’affinité et d’amitié». Quanto all’assenza di Manet nell’articolo baudelairiano dedicato a Constan- tin Guys (Le Peintre de la vie moderne), l’A. tende a giustificarla, scostandosi dalla valutazione di Drost, considerando che l’articolo non è un riassunto dell’arte dell’epoca, bensì di un suo aspetto collegabile ad artisti come Daumier, Gavarni, Devéria e ad altri sensibili a un particolare genere di “modernità”. Relativamen- te all’interpretazione di Drost circa la frase scritta da Baudelaire in una lettera a Manet dell’11 maggio 1865 («Vous n’êtes que le premier dans la décrépitude de votre art»), interpretazione secondo cui Manet sa- rebbe posto a capo («le premier») del movimento dei novatori che sarebbero però considerati da Baudelai- re in termini negativi («la décrépitude de votre art»), nell’ampia conclusiva parte dell’articolo Schellino ten- de a sostenere che la «décrépitude» attribuita da Drost all’arte di Manet sarebbe in realtà da riferirsi soltanto a quella di un «monde épuisé» nel quale Manet appare essere «un esprit supérieur». Ciò consente all’autore di concludere, discostandosi dal giudizio di Drost, che «malgré sa solitude existentielle et artistique, Baudelai- re, au-delà de leur amitié, au-delà de son attachement à l’art de Delacroix, a compris Manet dès le début».

wolFGanG DRost, L’image immaculée de Baudelaire champion de la modernité, «Romanistische Zeitscheift für Literaturgeschichte / Cahiers d’Histoire des Litté- ratures Romanes» 39, 3/4, 2015, pp. 357-365.

Si tratta della replica alle osservazioni e alle critiche dell’intervento con il quale Schellino (se ne veda qui sopra la scheda) ha sostanzialmente inteso illustrare e difendere la “modernità” di Baudelaire di fronte a Ma- net, “modernità” messa in dubbio da Wolfgang Drost in un suo precedente articolo. Tornando a discutere il rapporto Baudelaire/Manet, Drost non rinuncia alla sua posizione in proposito e anzi corrobora ulterior- mente la sua perplessità (come ironicamente appare

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