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STRUMENTI POSSIBIL

3.1 A PROPOSITO DI VALUTAZIONE

La molla che a livello internazionale ha spinto verso la valutazione in generale nel servizio sociale è stata la necessità di dare visibilità a una pratica quotidiana di intervento scarsamente riconosciuta all’interno del panorama dei servizi alla persona e a giustificarne e legittimarne la presenza (Olivetti Manoukian, 2005).

Nel quadro di una sempre maggior importanza attribuita alla valutazione e di una parallela insufficiente rispondenza degli strumenti quantitativi disponibili, si è assistito a livello internazionale allo sviluppo di metodologie qualitative nella valutazione degli interventi di servizio sociale.

Le prime ricerche valutative sono state effettuate negli USA tra gli anni ‘40 e ‘60, in riferimento a interventi a cavallo fra servizio sociale e psicologia clinica: si tratta di ricerche quantitative, scarsamente in grado di definire perché gli interventi avessero o meno avuto successo. In definitiva si riconosce che l’approccio esclusivamente quantitativo nel campo del servizio sociale produce effetti parziali (Fargion, 2006).

In considerazione di questo si sviluppa in Europa il filone delle ricerche qualitative, maggiormente interessate a cogliere e valutare il processo

oltre che gli esiti, tanto da superare la funzione di mera legittimazione della presenza dei servizi sociali all’interno delle istituzioni, fino ad arrivare a validare le pratiche partendo dalla valutazione degli esiti dell’intervento definendo parallelamente le fasi del processo metodologico.

Vista la peculiarità dell’oggetto dell’intervento del servizio sociale, l’affiancamento di tecniche valutative di tipo qualitativo a quelli più tradizionali di tipo quantitativo, se non l’abbandono dei secondi in favore dei primi, è obbligatorio (Filippini, Merlini, 2005).

Peculiare della ricerca valutativa in ambito del servizio sociale è un tipo di ricerca detta pluralistica, perché coinvolge tutti i soggetti interessati dall’intervento, i cosiddetti stakeholder (dai responsabili su più livelli dell’intervento, fino ai potenziali utenti o a coloro che potrebbero essere danneggiati dall’intervento) (Folgheraiter, 1998).

Un discorso approfondito merita sia la definizione degli indicatori sia l’individuazione delle fonti, di cui si è già accennato: oggigiorno, forse per reazione a uno stile storicamente troppo approssimativo di fondo nella professione, si assiste a un’ossessione degli indicatori. Il rischio di moltiplicare le variabili da misurare introducendone in eccesso è sempre latente; la strada migliore è quella di evidenziare precisamente il fenomeno individuando quella misura che (qualitativamente o quantitativamente) lo sintetizza, traducendo in elementi osservabili e misurabili le “domande” della valutazione. La scelta degli indicatori è una operazione complessa, soprattutto per progetti complessi come quelli

La questione invece delle fonti riguarda la necessità che ve ne siano di diverso tipo (documentali, statistiche, focus group, interviste, questionari…) in modo da differenziare il punto di vista e non inciampare in un’autoreferenzialità che può avere valore come indagine interna, ma poco riproducibile e rappresentativa all’esterno.

Non ci sono motivi per propendere per l’uno o l’altro strumento di raccolta dei dati; la recente tendenza è di alternare strumenti di tipo qualitativo ad altri di tipo quantitativo (numerico), in un mix che possa mettere in luce diversi connotati dell’oggetto della valutazione. Elencandone alcuni:

• Questionari • Scale

• Interviste • Focus group

• Schede per la sistemazione e analisi di dati già esistenti (o check list)

• Griglie di osservazione

Come si vede in taluni casi si tratta di utilizzare dati già disponibili, magari organizzandoli secondo gli obiettivi della valutazione con strumenti pensati ad hoc; in altri casi si tratta sia di elaborare lo strumento sia di raccogliere contributi del tutto originali.

A seconda del caso saranno strumenti più o meno flessibili, da individuare sulla base dello scopo della valutazione e del tipo di approccio che si può mettere in atto.

3.2 AUTOVALUTAZIONE

Se l’attenzione al tema della valutazione è, benché di recente genesi, una realtà consolidata, un discorso di tutt’altro tipo riguarda l’autovalutazione, non solo come concetto ma soprattutto dal punto di vista degli strumenti.

Rari e scarsamente strutturati sono gli spazi, anche mentali, riservati al pensiero riflessivo sul proprio operato (Guerrieri, Rossi, 2008)

Una delle questioni cruciali da affrontare è il ruolo che il professionista assistente sociale deve svolgere nei processi di valutazione all’interno dell’organizzazione, una funzione solo recentemente riconosciuta all’operatore in quanto professionista, indipendentemente dalla sua appartenenza a una struttura o organizzazione: le organizzazioni, particolarmente quelle pubbliche, tendono a sottovalutare il ruolo che le competenze dei propri professionisti può giocare nei processi di costruzione di buone prassi gestionali.

Gli assistenti sociali, dal canto loro, pur lavorando quotidianamente a processi di empowerment (individuale o collettiva), in modalità di rete, predisponendo progetti, che realizzano e monitorano, spesso sono inconsapevoli dei paradigmi teorici a cui si ispirano (Allegri, 2006) e rischiano di far derivare principi e teorie dalla pratica quotidiana piuttosto che viceversa, finendo inconsapevolmente per impedire la visibilità del proprio intervento, la riproducibilità di risultati confrontabili in presenza di profili di disagio similari e l’attuazione di

funzione della valutazione, l’apprendere al fine della riproducibilità dell’intervento o anche di un suo segmento (learning) .

La riflessività e l’auto-valutazione di efficacia, nonché il pensiero critico rispetto al senso di appartenenza sia alla comunità professionale sia alla comunità istituzionale, può servire a placare le ansie da prestazione e contenere la frustrazione.

Ricerche effettuate in ambito di sociologia di comunità hanno evidenziato come il senso di appartenenza sia un efficace protezione nei confronti degli esiti più infausti dei fallimenti e come parallelamente riesca a attivare sentimenti di positività verso le sfide esistenziali (Prezza, Santinello, 2002).

Nei servizi sociali dell’ente pubblico spesso manca una cultura che promuova spazi di formazione e aggiornamento, nonché meccanismi di riconoscimento e incentivazione delle competenze.

La cronica insufficiente dotazione di risorse umane a fronte dell’incalzante richiesta di interventi di aiuto spesso in situazione di emergenza rischia di condurre anche al di là delle intenzioni, all’impoverimento degli spazi di confronto e di rinforzo dell’identità professionale e all’aumento delle rigidità di approccio e delle difese di casta. L’assistente sociale si trova inoltre sempre più frequentemente alle prese con condizioni organizzative in continuo mutamento, a dover presidiare funzioni che sono caratterizzate da alto livello di complessità riguardo agli interlocutori (pubblico, terzo settore, utenti/clienti), ai

processi (empowerment, resilienza, advocacy) e ai prodotti (Civenti, 2007).

In questo contesto è facile perdere il giusto equilibrio fra autonomia professionale (e rispetto della deontologia) e appartenenza all’ente con tutti i vincoli organizzativi che spesso pesano maggiormente delle risorse e il rischio costante di diventare produttori di interventi piuttosto che di processi.

Nella relazione tra organizzazione-servizio-operatore la valutazione e la qualità si impongono come meta-osservazione e risultano strategici a patto che coinvolgano tutti i livelli dell’ente (Bressan, Pedrazza, Neve, 2011).

Occorre perciò porre al centro dei percorsi di valutazione il professionista assistente sociale, che assume nel processo di aiuto il ruolo di variabile interveniente: il suo stile di intervento, il significato che attribuisce al processo di aiuto (in particolare in riferimento all’autodeterminazione dell’utente), le modalità personali e professionali che attiva sono elementi che influiscono grandemente sia sull’intervento sia sul rispetto di standard di qualità (Pompei, 2004).

Senza i professionisti non è quindi possibile né valutare, né implementare sistemi di qualità.

La qualità appare di fatto direttamente proporzionale alla chiarezza del ruolo, del mandato e dell’appartenenza alla comunità professionale e istituzionale (Neve, 2000).

L’orientamento a creare all’interno degli enti pubblici unità autonome, quali nelle AUSL le unità funzionali che ricomprendono diverse professionalità riunite per “processo produttivo” o per tipologia di utenza (es Unità Funzionale Salute Mentale Adulti, Servizio Tossicodipendenze, Unità Funzionale Salute Mentale Infanzia e Adolescenza, Consultorio…), se da un lato favorisce il decentramento e la maggiore responsabilità verso efficacia e efficienza da parte del dirigente, dall’altro rischia di sottrarre spazi di autonomia all’assistente sociale e riduce le occasioni di confronto della comunità professionale all’interno dell’ente.

Al fine di tutelare e l’operatore e la sua pratica professionale quotidiana occorre delineare spazi fisici e mentali dedicati a puntualizzare il mandato istituzionale e ridefinire percorsi e processi metodologici comuni.

A tale proposito assume importanza decisiva il concetto di autovalutazione dell’assistente sociale e di riflessività: l’impegno emotivo e fisico connesso al lavoro di cura comporta un deterioramento strisciante delle capacità di fronteggiamento; il burn-out (Pietrantoni, Zani, 2000) è correlato spesso non solo alla complessità della situazione (e quindi a condizioni esterne) ma al sentimento di inadeguatezza dell’operatore a fronte della situazione.

Occorre pertanto che gli enti dotino il proprio personale (sia al singolo professionista che al gruppo professionale) della possibilità di fermarsi e pensare non solo sull’azione ma anche nel corso dell’azione (Schon, 1993).

La supervisione rappresenta uno degli strumenti di autovalutazione maggiormente utilizzati dalle professioni di aiuto (ad esempio gli psicologi): è “sancito” che esercitare una professione di aiuto necessita di spazi di pensiero e di rielaborazione dell’esperienza professionale (Merlini, Filippini, 2007). Tale forma di sostegno sta riemergendo, dopo una fase di disuso, anche per gli assistenti sociali (Allegri, 1997): si caratterizza come uno spazio protetto e tutelato in cui gli operatori ripensano ai propri scopi, metodi di lavoro, obiettivi dell’organizzazione VS obiettivi personali al fine di rivalutare l’agire professionale e gli esiti. La peculiarità della supervisione consiste nell’accompagnamento e affiancamento graduale e sistematico dello studente o del professionista (determinante anche e soprattutto rispetto ai neo-assunti) nel processo di analisi, elaborazione e sintesi delle diverse componenti della professionalità in funzione del rinforzo e della crescita consapevole della stessa a garanzia dell’efficacia dell’azione professionale (Bartolomei, Passera, 2005).

Nella supervisione principi, valori, metodo del servizio sociale vengono riportati all’attenzione del professionista che a causa dei ritmi incalzanti del quotidiano si affida più spesso all’esperienza e alla routine che alla competenza professionale, garanzia di aiuto efficace all’utente e di concreta collaborazione con enti e servizi (Anfossi, Busnelli Fiorentino, Piazza, 1997).

Riassume pertanto in sé sia la valenza di autovalutazione che di valutazione in itinere, perché consente di creare coerenza fra esiti attesi e

La professione dell’assistente sociale si trova oggi a ricoprire il ruolo di case-manager, cioè a “tenere insieme i pezzi” degli interventi in favore delle persone, in un quadro sempre più integrato con altre professionalità; è pertanto indispensabile mantenere l’integrità del ruolo e dell’identità professionale per non essere soverchiati da figure tradizionalmente maggiormente autorevoli (quali medici, psicologi) e ricondurre a unicità la persona e i suoi bisogni.

Le richieste di supervisione che gli assistenti sociali avanzano agli ordini professionali regionali e agli enti di appartenenza derivano principalmente da questioni legate all’appartenenza all’organizzazione dei servizi (autonomia professionale e condizione di dipendenza, mandato istituzionale e mandato professionale, precarietà dei contratti di lavoro, scarsità di spazi di pensiero a causa del lavoro sull’emergenza) e alla metodologia (necessità di ridefinire il sapere professionale, ritrovando e confrontando con i colleghi gli strumenti professionali) (Masini, 2008).

In tema di autovalutazione sono stati fatti isolati e sporadici tentativi di costruire uno strumento di rilevazione.

Ne ho reperiti due.

In entrambi i casi non sono disponibili i risultati: non sono stati pubblicati perché a quanto pare non sono stati raccolti.

Si tratta in entrambi i casi di griglie elaborate da gruppi monoprofessionali di assistenti sociali, nell’ambito di percorsi di formazione/aggiornamento professionale.

Il primo (Guerrieri, Rossi, 2006) è stato pubblicato in “Professione assistente sociale”, la rivista dell’Ordine Professionale degli Assistenti Sociali della Toscana, elaborato all’interno del corso di formazione tenuto per gli assistenti sociali della ASL11 di Empoli su “Metodi e strumenti di valutazione di attività, azioni e progetti nell’ambito dei servizi sociali” nel quale sono stati affrontati i temi della valutazione sul caso e sui progetti.

La riflessione che ne è scaturita è la novità circa il concetto di valutazione del proprio operato durante la realizzazione dell’intervento socio-assistenziale: il gruppo ha condiviso un’importante riflessione, l’assenza di un pensiero riflessivo, o comunque la sporadicità delle occasioni in cui ci si autovaluta, sia per la mancanza di spazi e tempi dedicati ma anche per l’assenza di uno strumento.

Questa riflessione ha così condotto alla stesura di una scheda omogenea per rilevare i dati di accesso e presa in carico dell’utenza, ma soprattutto è stata elaborata una “griglia di autovalutazione per gli operatori”.

Si articola in 3 fasi:

• 1° FASE: ACCOGLIENZA – 1° colloquio

• 2° FASE: ANALISI DELLA SITUAZIONE

 1) Rilevazioni preliminari di contesto

 2) Definizione del problema (rischi/errori

dell’operatore)

Ogni fase è declinata in una serie di domande a risposta sì/no, in tutto 26, che verificano esclusivamente la correttezza del processo metodologico.

La seconda griglia (De Ambrogio, 2007) è il frutto di una serie di esperienze formative che IRS8 ha condotto a partire dal 2000 in più territori italiani. La richiesta pervenuta da questi territori era di un percorso che permettesse di identificare criteri e indicatori del lavoro sociale (Merlini, Ranci Ortigosa, 2003).

La domanda si è gradualmente affinata verso un percorso finalizzato a trovare metodi e indicatori comuni per valutare il lavoro in sé dell’assistente sociale. Sono scaturiti un insieme di progetti formativi che hanno interessato assistenti sociali di enti locali e di aziende sanitarie di Modena, Parma e provincia, Portogruaro e San Donà di Piave.

Ne è nato uno strumento di rilevazione e delle linee guida proposte come raccomandazione e suggerimenti operativi per il territorio in esame. Il percorso che ha condotto a questo esito ha assunto la forma di un laboratorio all’interno del quale il metodo della progettazione partecipata ha visto il passaggio dalla costruzione di un linguaggio comune e la condivisione di principi metodologici sulla valutazione, per poi individuare le relazioni fra l’assistente sociale e i diversi altri soggetti del contesto nel quale opera; un ulteriore passaggio è avvenuto tramite la disamina di casi relativi alle diverse tipologie di intervento, che ha consentito di mettere in luce punti di debolezza e punti di forza legati al ruolo dell’assistente sociale e al contesto istituzionale.

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La riflessione ha così condotto a focalizzare tre dimensioni del lavoro dell’assistente sociale:

• Una dimensione “relazionale”, che riguarda la gestione della relazione d’aiuto;

• Una dimensione “professionale tecnico-metodologica” riferita agli strumenti e ai metodi che si utilizzano nel lavoro;

• Una dimensione “organizzativa”, che si riferisce alle competenze di gestione del ruolo sul fronte delle dinamiche istituzionali e interne all’ente di appartenenza.

All’interno delle tre dimensioni sono stati evidenziati degli ambiti, delle articolazioni che mettono in luce l’indicatore di qualità all’attenzione del valutatore: a questo scopo è stato definito un “decalogo della qualità del lavoro dell’assistente sociale” (anzi un “eptalogo”); questi stessi ambiti sono poi stati articolati in domande bersaglio per lo più a risposta chiusa (91 item più 3 domande generali).

La griglia si conclude con una parte funzionale alla rielaborazione della valutazione che contiene anche le proposte operative funzionali al miglioramento dell’azione individuale e organizzativa.

Entrambe le griglie si propongono come strumento da autosomministrare, funzionale non a fini di indagine o statistici, ma di riflessione per l’operatore: una valutazione efficace non può sempre essere ridotta a mero tecnicismo e il suo valore non risiede solo in ciò che produce, nei risultati, ma anche nel processo partecipativo che si

I corsisti di ciascun contesto formativo, sia nel caso della prima che della seconda griglia, hanno testato l’applicazione dello strumento su loro medesimi, adottandolo “a regime” da compilarsi periodicamente per fermarsi a riflettere. L’utilità di focalizzarsi sul proprio lavoro è stata individuata nel restituire valore a prassi quotidiane che rischiano di venire svuotate di contenuto e senso, nell’esecutività e automatismo di passaggi che sono parte del metodo del processo di aiuto.

In quanto comunità aspaziale (Martini, Sequi, 1988) quella degli assistenti sociali ha necessità di ridefinire costantemente i propri valori culturali individuando il terreno nel quale affondano le proprie radici. Un elevato senso di comunità protegge da sentimenti di anomia (Prezza, Costantini, Chiarolanza, Di Marco, 1999) e influisce pertanto sul benessere psichico, perché aumenta il sentimento di appartenenza a un qui e ora.

Mettere sotto adeguata luce quello che si fa è utile e gratificante: riconoscere la complessità del proprio lavoro con pregi e difetti, punti di forza e criticità, serve non solo al professionista assistente sociale come autoriconoscimento e rinforzo dell’identità professionale, della motivazione ma anche e soprattutto come occasione di visibilità e ridefinizione di ciò che si fa e si è nei confronti dei vari stakeholder (utenza, committenza, altri professionisti).

La responsabilità che gli enti pubblici condividono con i professionisti rispetto al cliente/utente può e deve riguardare anche la formazione

favorire percorsi che consentano l’adempimento degli obblighi alla formazione dell’operatore (tramite agevolazioni di orario, compartecipazione ai costi, promozione di percorsi formativi collettivi all’interno dell’organizzazione, stipula di convenzioni con soggetti formativi, partenariato ad eventi…) si connoterebbe come il segno del cambiamento di rotta da una centratura sulla formalizzazione della struttura organizzativa, a un maggior orientamento al compito e al soggetto, che passa attraverso la valorizzazione dello “strumento” di applicazione della normativa,dei protocolli e dei regolamenti, che altri non è che il professionista dell’ente.

Un ultimo accenno si può dedicare alle strategie funzionali a promuovere e recuperare il benessere, una volta compiuto il processo di autovalutazione.

Il termine di resilienza è stato fatto proprio dalla psicologia di comunità dalla fisica (s.f. “capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi

senza spezzarsi”9) e indica la capacità degli individui di superare traumi e avversità, riprogettando positivamente il proprio futuro.

Fin dagli anni ’70 la psicologia ha dedicato molto interesse ai bambini che pur essendo ad alto rischio di devianza e emarginazione a causa della propria storia familiare, dimostravano uno sviluppo positivo.

La capacità messa in evidenza è ad alto contenuto relazionale: si sviluppa nella dimensione sociale e si rafforza nelle esperienze che

favoriscono un sentimento di efficacia personale e di valore di sé (Emiliani, 1995).

Pur se l’argomento è stato inizialmente studiato in ambito scolastico e della psicologia evolutiva, il ricorso alla resilienza in condizioni di stress ambientale, lavorativo e sanitario e/o nella prevenzione dello stesso è senz’altro utile.

La psicologia di comunità ha trattato tematiche simili, quali l’empowerment e il coping.

L’empowerment è l’acquisizione di un potere positivo capace di nutrire gli altri di ciò che si è e che si sa (May, 1971) per collaborare a costruire nuove risorse riconoscendo l’apporto proprio e altrui.

È anche descritto da Piccardo (1995) come l’azione di rendere potenti (empowered) le persone che si trovano in situazione di svantaggio o dipendenza, contemporaneamente rafforzandone la capacità di scelta e autodeterminazione e pertanto sviluppando il sentimento del proprio valore, del controllo di sé sulle situazioni lavorative, così riducendo frustrazione, impotenza stress.

Nell’introduzione all’edizione italiana di “Empowerment. Come creare

un ambiente di lavoro responsabilizzato. La nuova strategia vincente”

(Scott, Jaffe, 1997) si traduce con responsabilizzazione e si descrive come un processo che aumenta la competitività, al fine di costruire un ambiente di lavoro efficiente prodotto dell’impegno e della competenza dei lavoratori e favorito da un management partecipativo, una qualità della vita lavorativa, una rotazione delle mansioni, un contributo del lavoratore alla riprogettazione del processo lavorativo.

Questo coinvolgimento a 360° riguarda la direzione, i livelli intermedi, la base: non intende far scomparire le differenti posizioni, ma attribuire a ciascuno la sua parte di decisionalità, perché ciascuno senta come propria la strategia che si sta mettendo in atto.

Di nuovo si propone la questione del coordinatore/coordinamento (Quaglino, Cortese, 2003) e lo stile della leadership che, in base al modo in cui viene agito, favorisce o meno il raggiungimento dei fini e della salute personale e organizzativa.

Esiste una relazione fra empowerment e resilienza: la seconda è un elemento della prima, la potenzia e ne accresce la portata.

Infine la psicologia di comunità ha nella propria teoria il concetto di

coping, un processo che porta le persone a gestire consapevolmente

eventi stressanti attraverso più fattori (Zani, Cicognani, 1999).

Resilienza, empowerment e coping sono comunque connessi fra loro, si integrano, come tre dimensioni nelle quali si sviluppa l’individuo che sta agendo per uscire da una situazione di difficoltà (Putton, Fortugno, 2006).

Tutte e tre corrispondono a una risposta di salute messa in atto nel momento in cui il malessere sociale, psicologico, ambientale in generale attacca l’integrità della persona. La messa in atto di queste strategie

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