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L'assistente sociale: un professionista della valutazione al servizio della buona organizzazione.

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Academic year: 2021

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INDICE

PREMESSA 3

1 IL RUOLO DELL’ASSISTENTE SOCIALE E L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

8

1.1 IL RUOLO DELL’ASSISTENTE SOCIALE 8

1.1.1 Un punto di partenza “costituente” 8

1.1.2 Il quadro socio-economico 9

1.1.3 Evoluzione storica della professione in Italia 11

1.1.4 La specificità del ruolo dell’assistente sociale 12

1.2 L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO, ELEMENTI BASE E TEORIE ORGANIZZATIVE

16

1.2.1 Gli elementi base 16

1.2.2 Teorie organizzative 21

1.3 L’ORGANIZZAZIONE PUBBLICA 28

2 LO STATO DI BENESSERE E/O MALESSERE DEI DIPENDENTI: LA VALUTAZIONE E L’AUTOVALUTAZIONE

36

2.1 BENESSERE O MALESSERE, QUESTO E’ IL PROBLEMA! 36

2.1.1 Benessere organizzativo 36 2.1.2 Malessere Organizzativo 37 2.1.3 Soluzioni possibili 39 2.2 LA VALUTAZIONE 42 2.2.1 Valutare le politiche 44

2.2.2 Il compito valutativo dell’assistente sociale 48

2.3 L’AUTOVALUTAZIONE 56

2.3.1 L’autovalutazione dell’assistente sociale 58

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3.1 A PROPOSITO DI VALUTAZIONE 60

3.2 AUTOVALUTAZIONE 63

4 APPLICAZIONE DI UNO STRUMENTO DI

AUTOVALUTAZIONE

77

4.1 ZONA DISTRETTO PISTOIESE, LA POPOLAZIONE DELLA RILEVAZIONE 79 4.2 LA RILEVAZIONE 81 4.2.1 Risultati 83 DISCUSSIONE E CONCLUSIONI 89 BIBLIOGRAFIA 92

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PREMESSA

“Le organizzazioni sono delle realtà

socialmente costruite che si trovano più nelle menti dei loro membri che nelle strutture”

(Gareth Morgan, 2004)

La vita quotidiana di ciascuno implica obbligatoriamente una dose di organizzazione e una di valutazione.

L’ambito di specializzazione del servizio sociale risiede nella gestione della complessità insita nell’essere umano e nelle strutture dove questi interpreta i propri ruoli. La genesi di questa professione risale al secondo dopoguerra e all’esigenza di ridefinire le attività di aiuto e solidarietà tradizionalmente svolte dalla famiglia e dal vicinato, per affidarle a enti e istituzioni ad hoc.

La complessità dei bisogni e la loro multifattoralità ha origine in questo contesto e conduce gradualmente a una professionalizzazione della funzione valutativa, programmatoria e erogatoria degli “interventi di aiuto”.

L’esercizio delle professioni così dette d’aiuto, impegnate nell’erogare prestazioni anche di natura immateriale (come per es. la condivisione emotiva) avviene da sempre nella cornice di una organizzazione: in passato marcatamente di stampo religioso o pseudotale, attualmente sempre più laica (anche se spesso ancora molto legata a una cultura di

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tipo caritativo-assistenzialistico). Organizzazione, organismo, organo sono tutti termini che hanno una comune radice che richiama questa complessità che deve essere letta e valutata nella sua multidimensionalità e poi ricondotta a unitarietà e trattata senza tralasciarne alcun aspetto. Quella pubblica è un’organizzazione del tutto particolare che ha il fine di promuovere il benessere della società: una mission molto complessa in cui si legano etica e profitto, sempre più d’attualità in una pubblica amministrazione che non può più contare soltanto su finanziamenti pubblici.

La psicologia dell’organizzazione, scienza di genesi relativamente recente, si occupa di isolare gli elementi caratteristici delle organizzazioni, diagnosticarne le disfunzioni, curarne le malattie, elaborare modelli di funzionamento più salubri per gli utenti e gli stessi membri.

La psicologia di comunità studia invece l’individuo nel suo rapporto con il contesto, nelle proprie relazioni con se stesso e il suo mondo concreto. Il benessere e il malessere, esperienze quotidiane dell’essere umano, assumono nella dimensione delle organizzazioni una connotazione rilevante al pari di quella dei contesti privati: contenere il malessere e favorire il benessere nella dimensione lavorativa è funzionale a migliorare la qualità di vita non solo nelle organizzazioni ma nella società tutta intera e compito anche della psicologia di comunità e della psicologia dell’organizzazione, come messo in luce nella prima parte del secondo capitolo.

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Il ruolo professionale dell’assistente sociale si situa ordinariamente in ambiti organizzati e il valutare è una delle sue funzioni principali, uno strumento, una fase ben definita del processo metodologico.

La valutazione è una pratica che consente di agire in senso critico verso processi, progetti, politiche e azioni al fine di render conto e apprendere; quello del valutare è un processo complesso per cui non è sufficiente essersi fatta un’idea su qualcosa, occorre utilizzare non la sola esperienza personale ma parametri oggettivabili, affinché i risultati siano riconoscibili, ossia abbiano lo stesso valore anche a distanza di tempo e spazio.

Sul tema della valutazione si incentra parte del secondo capitolo di questa tesi, come concetto generale e poi nel particolare del lavoro dell’assistente sociale. L’autoreferenzialità a cui gli operatori sociali si sono abituati nei decenni ha avuto il pregio di accrescere in ciascuno strumenti, virtù, competenze che sono preziose nel lavoro professionale, ma che il più delle volte non consentono una sistematicità, un’organicità che le faccia diventare prassi da trasmettere, strumenti di lavoro che possono essere appresi.

Oltre a essere uno strumento in sé la valutazione si effettua attraverso strumenti, in parte descritti nel terzo capitolo.

L’autovalutazione, trattata sempre nel secondo capitolo, in senso generale consente di leggere se stessi e cogliere ciò che stona con

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maggiormente efficace. Nello specifico delle professioni d’aiuto assume la caratteristica di un mezzo per elaborare i vissuti al fine di migliorare la pratica quotidiana e con essa i propri “prodotti”, i rapporti interni all’ente e con l’esterno.

Anche nel caso dell’autovalutazione esistono strumenti, non molto numerosi, che consentono di codificare sensazioni e emotività, rendendoli leggibili alla persona e all’esperto (supervisore) ed elaborabili.

Con questo finalità si è proceduto a effettuare una rilevazione, illustrata nel quarto capitolo: il dato che ha mosso l’azione è stato che c’è un’assenza, nella pratica quotidiana degli assistenti sociali, e la motivazione è stata l’esigenza di colmare questo vuoto. Il tempo dedicato al pensiero riflessivo è importante per l’elaborazione di strategie e progetti che facciano collimare bisogni a risorse: non se ne avverte l’esigenza se l’agire sovrasta il ragionare, a causa dell’emergenza o dell’eccessivo carico di lavoro.

Si è pensato di offrire un’opportunità in un breve spazio temporale (30 minuti) al gruppo delle assistenti sociali che lavorano nell’ambito di una zona distretto, alle dipendenze di varie organizzazioni. Gli esiti sono pubblicati nel quarto capitolo.

Non si può considerare l’individuo scisso dal suo mondo, novello Robinson Crusoe, impegnato nel guadagnarsi il riparo e il pane, contando solo sulle proprie risorse: l’organizzazione, dal greco antico

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organon, ci induce a soffermarci sulla caratteristica multidimensionale

del mondo moderno, a coglierne i pregi e cercare di agire per riparare gli svantaggi. Salute e benessere passano da un percorso condiviso di crescita collettiva, perché, come nella Favola delle api. Vizi privati e

pubbliche virtù di Bernard De Mandeville1 del 1728, l’uomo organizzato aspira contemporaneamente a qualcosa di più e qualcosa di meglio.

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CAPITOLO 1

IL RUOLO DELL’ASSISTENTE SOCIALE E L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

1.1 IL RUOLO DELL’ASSISTENTE SOCIALE

1.1.1 Un punto di partenza “costituente”

I fondamenti della professione dell’assistente sociale si ritrovano fin dalla Carta Costituzionale: l’art. 3 afferma che “[…] tutti i cittadini hanno pari

dignità sociale e […] è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione […]”.

È in questo articolo che va ricercata la legittimazione dell’intervento pubblico in ogni sua articolazione nell’ambito dei servizi sociali e alla persona: intendendo ricomprendere nel termine “Repubblica” sia lo Stato, in senso stretto, che le Regioni, le Provincie, i Comuni e le Città metropolitane2.

All’art. 38 sono riportati i principi fondamentali del nostro sistema assistenziale e previdenziale: non si ritiene che lo Stato debba detenere il monopolio dell’assistenza, pur se si deduce un obbligo a carico dello stesso a provvedere al mantenimento di alcune categorie di cittadini: in generale l’assistenza privata è libera.

2

Città metropolitana: ente locale territoriale previsto nella Costituzione, all'articolo 114.

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La legge costituzionale 3/2001, che ha arrecato modifiche al titolo V della Costituzione, afferma il principio di sussidiarietà fra Stato, Regioni, Province, enti locali, definendo quelle che sono le materie di potestà esclusiva dello stato e rinviando così alle Regioni ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello stesso (art. 117, comma 5): si tratta delle battute di avvio della costituzione di uno stato sociale e di un sistema di sicurezza sociale sempre più connotato territorialmente e disegnato sui bisogni e le peculiarità locali.

1.1.2 Il quadro socio-economico

Con gli anni ‘60 si è sviluppato a livello socio-politico lo scollamento fra politica economica, in pieno boom, e politica sociale: ne è scaturita la richiesta di un modello di sviluppo integrato coerente ai principi della Costituzione.

È maturata la richiesta di una politica globale di sviluppo che non si limiti ad accrescere il benessere materiale dei cittadini, ma risponda anche a bisogni che hanno a che fare con le relazione tra le persone, per tradizione considerati marginali rispetto ai compiti e alle risorse finanziarie della Pubblica Amministrazione (Maggian, 1990).

I bisogni, a seguito dello sviluppo economico, come nella piramide di Maslow (1954) si sono evoluti da un tipo prettamente materiale a necessità sempre più complesse, evidenziando un tipo di povertà conseguente ai bisogni. Pertanto si è passati

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2. ad una povertà istituzionale, determinata dalla mancanza, o insufficienza, di istituzioni funzionali a dare risposte adeguate a bisogni connessi alle modificate condizioni e articolazioni della vita familiare e lavorativa,

3. per arrivare infine a una povertà relazionale, caratterizzata dalla caduta o rottura dei rapporti umano-affettivi e dal venir meno dei valori di solidarietà primaria, con crescente isolamento degli anziani, ampliarsi dei fenomeni di devianza giovanile, crisi di coppia, alienazione lavorativa e perdita di identità sociale e individuale.

Queste tre povertà attualmente coesistono, insieme a nuovi bisogni espressi da categorie di nuova marginalità (homeless, immigrati del terzo mondo, anziani non autosufficienti…).

Alla consapevolezza di una tale complessità non consegue una riforma delle politiche sociali coerente: la centralità dei rapporti economici prevale su quella dei rapporti umani anche nelle iniziative legislative degli anni ‘70-‘80.

La novità di quegli anni giunge comunque con l’affermazione del valore aggiunto dell’integrazione fra intervento pubblico e privato: la promozione di una rete articolata e integrata di servizi alla persona e ai gruppi che garantisca anche la libertà di scelta rispetto ai vissuti e in funzione dei bisogni individuali e collettivi (Ferrario, 1992).

Una rete in cui il cittadino non sia solo fruitore, messo nella condizione di scegliere fra più proposte, ma anche valutatore, programmatore e erogatore. L’emanazione della “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” (L. 328/2000) ha dato avvio alla riforma

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socio-assistenziale, un cammino ancora in corso e lungi dalla sua conclusione (Bartolomei, Passera, 2005).

1.1.3 Evoluzione storica della professione in Italia

All’indomani dei mutamenti socio-economici indotti

dall’industrializzazione, lo scenario politico istituzionale appare stravolto: l’estrema urbanizzazione dei centri abitati e lo svuotamento delle campagne ha ridisegnato in maniera essenziale la geografia delle relazioni interpersonali in generale e familiari in particolare. Emerge l’esigenza di ridefinire le attività di aiuto e solidarietà tradizionalmente svolte dalla famiglia e dal vicinato, per affidarle a enti e istituzioni ad hoc.

La complessità dei bisogni e la loro multifattoralità ha origine in questo contesto e conduce gradualmente a una professionalizzazione della funzione valutativa, programmatoria e erogatoria degli “interventi di aiuto”.

In questo percorso di costruzione del sapere e di identificazione dello specifico professionale, il lavoro di aiuto e di assistenza sociale si è andato consolidando come attività professionale (Passera, 2005).

Con un lungo percorso maturativo e definitorio si viene realizzando la professione dell’assistente sociale nell’ambito del sistema di Welfare, inteso come sistema istituzionalizzato di risorse, servizi, interventi e prestazioni garantite dallo Stato ai propri cittadini, nel superamento progressivo degli interventi assistenziali di natura riparatoria, discrezionale e filantropica che ha caratterizzato le istituzioni private (laiche o religiose) che fino al recente passato detenevano il monopolio degli interventi di beneficienza.

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In Italia la nascita ufficiale del servizio sociale avviene nel secondo dopoguerra, con l’apertura delle scuole di servizio sociale; è solo a partire dagli anni ‘70, però, con la già richiamata ondata di riforme politico-sociali in risposta al boom economico, che si assiste al delinearsi della professione di assistente sociale.

La professionalizzazione avviene a seguito dell’affrancamento del ruolo dalla tradizionale influenza della Chiesa, pur se con alterne vicende; il processo di rinnovamento istituzionale, avviato con il decentramento regionale e la riforma sanitaria (L. 833/1978), porta alla sperimentazione del servizio sociale di zona, con l’attribuzione di funzioni fondamentali che vanno a delineare il profilo dell’attuale struttura del servizio sociale: diagnosi e consulenza psico-sociale, osservatorio sociale sulle nuove povertà e sulle risorse territoriali, programmazione e organizzazione dei servizi, promozione della partecipazione e dell’informazione dei cittadini.

1.1.4 La specificità del ruolo dell’assistente sociale

Una prima definizione ufficiale di assistente sociale in Italia è contenuta nel D.P.R. 14/1987 conseguente al riordino delle scuole dirette a fini speciali: all’art. 2 è così declinata l’identità della professione “[…]consiste

nell’operare, in rapporto di lavoro subordinato o autonomo, con i principi, le conoscenze, i metodi specifici del servizio sociale e nell’ambito del sistema organizzato delle risorse sociali, in favore delle persone singole, di gruppi e di comunità, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno”.

La legge 84/1993, istituendo l’albo professionale, all’art. 1 recita

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giudizio in tutte le fasi dell’intervento per la prevenzione, il sostegno ed il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative. Svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione e alla programmazione e può esercitare attività di coordinamento e di direzione dei servizi sociali.”

La figura dell’assistente sociale è prevista in tutti i servizi territoriali degli enti locali e delle aziende sanitarie locali (ASL) rivolti alle famiglie, ai minori, agli adolescenti e alle persone adulte che per ragioni socio-economiche, culturali o sanitarie si trovano in situazione di difficoltà o a rischio di esclusione sociale e di emarginazione nonché alle persone disabili e alle persone anziane. L’assistente sociale ha, inoltre, una funzione di «consulenza» socio-assistenziale per i soggetti più vulnerabili come anziani (oltre i sessantacinque anni), minori (0-18 anni) persone affette da grave disabilità fisica e psichica, stranieri extracomunitari, tossicodipendenti, alcolisti, malati mentali e adulti portatori di varie problematiche. Rientra nelle sue competenze anche il rapporto con il tribunale e con il giudice minorile in materia di adozione, di affidamento familiare e in tutti i casi previsti dalla legge. La professione di assistente sociale è esercitata, oltre che nei servizi sociali territoriali, all’interno dei servizi sociali del Ministero della Giustizia sia per il settore minorile, sia per il settore degli adulti. In tale ambito, all’assistente sociale sono affidati compiti di sostegno e di assistenza nei confronti degli utenti sottoposti a misure cautelari o a pene alternative alla detenzione e in particolare all’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale.

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Il suo compito, in generale, è contribuire all’analisi del bisogno sociale o socio-assistenziale, ovunque esso si manifesti.

Gli assistenti sociali svolgono in condizioni di autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, l’attività professionale prevista dalle norme dell’ordinamento professionale, nel rispetto dei propri fondamenti teorico-disciplinari, nonché delle norme del relativo profilo professionale e del codice deontologico, utilizzando la metodologia propria della professione, sia in regime autonomo sia in regime di lavoro subordinato o parasubordinato (Canevini Diomede, 1999).

Il mandato dell’assistente sociale delineato dalla già richiamata normativa di riferimento (L. 833/1978, L. 328/2000, DPR 14/1987, L. 84/1993), dalla letteratura e dal codice deontologico (l’attuale è in vigore dal 01 settembre 2009) individua essenzialmente tre funzioni del servizio sociale professionale:

- la funzione riparativo-curativa messa in atto in favore di persone o gruppi che presentano patologie gravi, tramite l’utilizzo delle risorse istituzionali, territoriali, della comunità;

- la funzione organizzativo-gestionale svolta all’interno delle organizzazione e finalizzata a monitorare l’efficace utilizzo delle risorse o a ridefinirne l’orientamento;

- la funzione preventivo-promozionale svolta in prevalenza verso l’esterno dell’organizzazione e rivolta a promuovere percorsi di prevenzione primaria, tramite la promozione di progetti di benessere ampio.

L’obiettivo privilegiato dell’azione del servizio sociale è quello di dare delle risposte a bisogni espressi, individuali, di comunità, di gruppo.

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A tal fine occorre evidenziare i valori assoluti del lavoro sociale che l’assistente sociale condivide con altre professioni di aiuto: la dignità e la libertà della persona, intese nell’accezione più umanista possibile (Olivetti Manoukian, 2006).

Concorrere alla salvaguardia di questi due valori significa esserne ontologicamente pervasi, soprattutto quando l’estrema fragilità dell’utente porterebbe a soverchiarne l’autodeterminazione. Si tratta comunque di valori assoluti, politicamente corretti, sempre meno realizzabili, soprattutto se si tiene in considerazione quelli che sono i vincoli (di risorse, di personale) con cui devono fare i conti quotidianamente le organizzazioni.

Dai valori derivano i principi-guida:

- il rispetto della persona, indipendentemente dalla sua situazione e dai problemi che porta;

- il principio dell’uguaglianza; - il principio della solidarietà; - il principio della responsabilità; - il principio della coerenza;

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1.2 L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO, ELEMENTI BASE E TEORIE ORGANIZZATIVE

Il termine “organizzazione” viene usato per definire una molteplicità di realtà: la famiglia, un ospedale, una fabbrica, un organismo, ecc, che pur nella estrema differenza di natura, sono accomunate dall’essere aggregazioni che hanno caratteristiche non riconducibili a quelle del singolo elemento, e nel quale le relazioni tra questi sono regolate da norme. Qui vorremmo affrontare le organizzazioni nella loro forma di sistemi sociali costituiti non da entità statiche, ma dinamiche.

L’organizzazione può essere funzionale a superare i limiti del singolo individuo, in termini di capacità fisica, emotiva e conoscitiva nonché per perpetuare, nel tempo, il perseguimento di scopi e obiettivi ma è opportuno descrivere come avviene la costruzione socialmente condivisa dei significati che un’organizzazione assume.

Si tratta di un processo che si sviluppa intorno e verso alcune direttrici, elementi di base del sistema organizzativo. Si possono suddividere in elementi interni (fini, coordinamento e divisione del lavoro) ed elementi esterni (vincoli fisici e tecnologici e vincoli politico-istituzionali) all’organizzazione; in realtà una distinzione fittizia in quanto l’organizzazione svolge un ruolo di intermediazione fra individui e gruppi, che costituiscono i sottosistemi sociali dell’organizzazione, e l’ambiente inteso come la complessa rete di vincoli istituzionali, politici, economici.

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Secondo Karl Weick (1997) noi diamo forma e struttura alle nostre realtà attraverso un processo di attivazione, sensemaking, un processo che consiste nel conferire un ordine logico all’insieme caotico di informazioni che riceviamo dall’esterno, strutturando tutti gli elementi all’interno di

mappe cognitive che predispongono il nostro comportamento futuro e

possono, allo stesso tempo, essere influenzate da ciò che, in un secondo momento, si presenta alla nostra attenzione.

I processi di creazione di senso, secondo Weick (ibidem), coincidono con i processi di organizzazione, detti organizing: creare senso e organizzare sono la stessa cosa, non c’è distinzione tra questi due atti, nonostante attengano uno al piano mentale e l’altro al piano pratico.

Tra gli elementi interni del sistema organizzativo, i fini

dell’organizzazione, come di un gruppo, sono gli obiettivi manifesti che muovono la vita di quel sistema.

Le organizzazioni per poter sopravvivere necessitano di trovare compromessi tra esigenze eterogenee, a volte più vicine, talvolta molto distanti (Bonazzi, 2000).

La divisione del lavoro costituisce un elemento interno che ha rimandi anche all’esterno dell’organizzazione: quella interna si usa definirla come divisione organizzativa o tecnica del lavoro, in quanto si basa sul grado di specializzazione delle mansioni.

La suddivisione dei ruoli nel lavoro deve essere chiara al membro dell’organizzazione, ne devono essere esplicitati mansioni e confini e a chi

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far riferimento, in modo da rendere chiara la gerarchia organizzativa (Taylor, 1967).

Esiste anche una divisione cosiddetta “sociale” del lavoro: si tratta di una componente esterna all’organizzazione e si intende la distinzione dei tipi di occupazione in rapporto ai settori produttivi (agricoltura, industria, terziario).

Il terzo elemento interno all’organizzazione è riferito al coordinamento

organizzativo: lo strumento con cui viene esercitato il potere e le forme di

controllo sull’attività dell’organizzazione svolta dal singolo o dai gruppi. La divisione del lavoro senza il coordinamento sarebbe priva di senso in quanto il “prodotto” delle varie parti sarebbe fine a se stesso.

Occorre operare una distinzione fra coordinamento e coordinatore, soprattutto se si parla di organizzazioni che producono non solo oggetti materiali che sono destinati ad acquirenti esterni, ma anche relazioni (come nel caso del terzo settore o di gruppi di lavoro temporanei o permanenti che nascono per affrontare determinate questioni, dentro un’azienda qualsiasi) (Quaglino, Cortese, 2003).

I rischi che più frequentemente si presentano in un coordinamento sono la dipendenza, l’autoritarismo e la burocratizzazione: il coordinamento crea dipendenza quando viene monopolizzato e sembra che ci sia un’unica persona in grado di creare ordine nel lavoro di gruppo; è autoritario quando il fare ordine viene realizzato tramite il dare ordini, collocandosi al di sopra del gruppo e assegnando ricompense e sanzioni in funzione di criteri personali (Likert, 1932). Weick (ibidem) in merito sostenne che la

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condivisione di una stessa modalità di lettura della realtà organizzativa può dipendere dalla presenza di stili di leadership sufficientemente autorevoli da poter fornire ai soggetti mappe cognitive specifiche e ambienti conformi alle mappe proposte.

Il coordinamento è burocratico quando la regolazione si estende a aspetti marginali del lavoro e i parametri della valutazione del lavoro tengono conto soprattutto delle questioni formali piuttosto che di quelle sostanziali. I pericoli insiti in questo coordinamento sono soprattutto riconoscibili nel lungo periodo, nel complesso dei prodotti del gruppo: se l’obiettivo viene raggiunto il coordinatore tenderà ad attribuire a sé tutti i meriti, se così non sarà il gruppo attribuirà la colpa al coordinatore e questi invece al gruppo. In ogni caso il prodotto sarà un oggetto che i componenti dell’organizzazione non riconoscono come proprio e la stessa appartenenza all’impresa sarà vista in maniera strumentale (per raggiungere ad esempio vantaggi economici), deresponsabilizzando e alienando il singolo dal percorso “produttivo” (Hatch, 1999).

Per elementi esterni si intende l’insieme di vincoli (valori, istituzioni, sistemi di potere a livello sociale e condizioni economiche) presenti in un dato ambiente; si deve avere tra essi e gli elementi interni all’organizzazione (fini, strumenti, regole organizzative, risorse umane) una certa corrispondenza. I vincoli in questione sono essenzialmente di due tipi, vincoli fisici e tecnologici e vincoli politico-istituzionali.

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un’organizzazione si intende come il complesso di strumenti che trasformano gli input che vengono dall’esterno in output (prodotti), materiali o immateriali (ad esempio cultura, istruzione o salute). Vi sono ricompresi sia strumenti di tipo fisico (attrezzature e macchine) che il know-how per realizzare i prodotti e utilizzare la strumentazione. Come nel caso della divisione del lavoro, le tecnologie si trovano al confine fra ambiente esterno e interno e la scelta verso l’una o l’altra influisce direttamente sui prodotti, le relazioni, il coordinamento (Hatch, ibidem).

I vincoli politico-istituzionali dell’ambiente in cui opera un’organizzazione ne influenzano pesantemente la vita: il sistema giuridico detta le regole che formalizzano l’organizzazione, l’utilizzazione del personale, le limitazioni di utilizzo di tecnologie ritenute nocive. Il sistema economico (e anche quello politico) detta le regole della concorrenza, identifica un certo tipo di sistema di mercato, favorendone la stabilità o l’instabilità.

Gli elementi esterni influenzano quindi grandemente un’organizzazione, che non può permettersi di vivere come realtà chiusa, ma deve esistere in modalità dialettica con l’ambiente nel quale è inserita.

La stabilità o l’instabilità dell’ambiente nel quale è inserita l’organizzazione e il livello di formalizzazione o di flessibilità delle strutture organizzative e del comportamento individuale costituiscono due dicotomie molto interessanti per gli studiosi: la messa in evidenza di questi aspetti ha condotto gli scienziati dell’organizzazione a mettere in luce le fasi del pensiero organizzativo e i modelli gestionali (Morgan, 2004).

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1.2.2 Teorie organizzative

La storia del pensiero sull’organizzazione (Bonazzi, 2000) conduce attraverso i modelli “originali” di Taylor (1967) e del fordismo, passando per la “rivoluzione” della scuola delle relazioni umane (Mayo, 1969) e la scoperta dell’esistenza di un’organizzazione informale, all’affermazione che la spinta all’azione dell’homo socialis è la motivazione (Herzberg, 1959) e l’assolvimento dei bisogni (Maslow, 1954).

L’accostamento dell’organizzazione e del cervello deve a Morgan (2004) e alla sua metaforosofia il maggior contributo: lo studio del cervello e della sua funzionalità ha origini remote e molto recenti tentativi di riproduzione, con gli esperimenti sulla intelligenza artificiale e la costruzione di robot mobili.

L’utilizzo della metafora del cervello serve a cogliere alcune caratteristiche salienti delle organizzazioni quali la funzione di elaborare le informazioni, la capacità di apprendere e la contemporanea presenza di caratteristiche di centralizzazione e di decentralizzazione.

Le organizzazioni sono e hanno dei sistemi informativi che consentono loro di prendere decisioni e di conservarne i risultati.

Sulla scia dell’innegabile “fattore umano” che la teoria di Mayo (1969) ha introdotto, il premio Nobel Herbert Simon (1958) si approccia allo studio dei processi decisionali nelle organizzazioni: analizzando le similitudini fra attività decisionale umana e organizzativa, sostenendo che le organizzazioni non potranno mai essere completamente razionali dal

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momento che i loro membri sono dotati di capacità limitate di trattare informazioni.

In un percorso che assomiglia al gioco del telefono senza fili o ad una sorgiva la decisione, a causa del fattore umano che la determina e che la processa, porta con sé elementi estranei alla fonte ma obbligatori al passaggio in quel determinato “ospite”; si tratta delle articolazioni di cui è composta un’organizzazione e che sono necessarie alla sua funzione.

La scuola decisionale ha contribuito in parte a potenziare il modello razionale, a dare alle organizzazioni dei cervelli centralizzati in grado di pensare per tutti e che consentano loro anche di essere sistemi in grado di apprendere e quindi di auto-regolarsi, modificando le proprie condizioni a seconda del tipo di stimolo esterno.

Si tratta dell’assunto alla base del concetto di “ricerca-azione” divulgato in Europa da Reg Revans (1982) e René Barbier (2007): l’idea di riuscire a sviluppare negli individui e nelle organizzazioni la capacità di apprendere, considerata fondamentale in una società turbolenta e sempre più in evoluzione come quella attuale.

Le organizzazioni di tipo burocratico sono le meno adatte ad apprendere, in quanto si basano su processi decisionali rigidi e quindi poco suscettibili ad autoregolarsi, senza una norma che lo induca: i componenti di questo tipo di organizzazioni solitamente sono incoraggiati a occupare un posto ben definito e premiati se seguono queste linee (Morgan, ibidem).

Una sorta di sistema di protezione dai cambiamenti e di “conservazione della specie” al fine di scongiurare situazioni imbarazzanti o di minaccia a favore di sé e dei congiunti (nelle organizzazioni i colleghi e/o i sottoposti):

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formalismi, mansionari, rigide catene di comando, norme scritte che costituiscono routine comportamentali difensive, e diventano schemi mentali di gruppo impedendo per contro flessibilità e adattamento dei sistemi e rendendoli inadatti a perpetuarsi in certi contesti.

Un’organizzazione invece che agisce secondo i principi della learning organization (o della ricerca-azione, Barbier, ibidem) dovrà uscire dai propri confini e entrare in contatto con gli utenti, oppure come nel caso delle organizzazioni pubbliche far entrare gli utenti perché possano partecipare alla sua organizzazione.

Nell’era dell’informatica è anacronistico promuovere tipi di organizzazione che non tengano in considerazione, accanto alla difesa dei valori e delle motivazioni, l’esigenza di evolversi, adattarsi, secondo gli assunti dei sistemi di qualità totale; questa affermazione deve però tenere conto del fatto che esistono conflitti tra una struttura che apprende e si auto struttura e i fenomeni di potere che tradizionalmente la regolano e la strutturano.

Per l’influenza già richiamata degli elementi esterni dell’organizzazione, lo studio delle stesse non può essere condotto a prescindere dalla cultura nella quale si collocano: la cultura, al pari della lingua, cambia a seconda della società e del tempo; così come le organizzazioni che essendo fatte da e di persone mutano in base al contesto nel quale si sviluppano (Morgan, ibidem).

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diversi da una “organizzazionale” (Presthus, 1962), che esercita la propria influenza sulla maggior parte degli aspetti della vita quotidiana.

E proprio per il fatto che il sistema culturale è il substrato, o il terreno di coltura di sistemi organizzativi tipici è molto difficile esportare con successo organizzazioni da società a società.

L’organizzazione può essere vista come un insieme di interessi diversi, a volte contrapposti, che trovano nella politica organizzativa una conciliazione più o meno pacifica.

Nelle organizzazioni si giocano relazioni di potere che devono essere in qualche modo incanalate, in una modalità formale attraverso l’esercizio del potere che in bene o in male risolve i conflitti.

Secondo il politologo USA Robert Dahl (2000) il potere è la capacità di indurre qualcuno a fare qualcosa che altrimenti non avrebbe fatto: il potere quindi può trattarsi come una risorsa, cioè un qualcosa che si ha, oppure come il prodotto di una relazione non paritaria. In ogni caso, per essere efficace il potere necessita di essere legittimo, ossia riconosciuto da chi lo subisce.

Le organizzazioni, al pari della società civile, sono sistemi complessi, il cui funzionamento oltre che dipendere da una struttura più o meno elaborata è caratterizzato da delle ideologie alla base delle quali si trova una visione del mondo-istituzione diverso.

Organizzazioni che privilegiano una dimensione coesa e strettamente orientata a un obiettivo comune, assumeranno l’idea dell’unitarietà dove

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ogni elemento è proiettato a realizzare un fine (mission) ben delineato (sia condiviso o meno).

Realtà organizzative maggiormente focalizzate sui processi invece, si sostanziano in molteplici unità, tutte dotate dello stesso potere “in nuce”, alle quali spetta il compito di realizzare un frame più o meno complesso del “filmato”.

L’esercizio del potere autoritario (“hard”) è maggiormente frequente nelle organizzazioni, perché raramente la situazione vede una parità di potere al suo interno (Pichierri, 2005): c’è sempre qualcuno che ne ha di gran lunga di più, in genere il dirigente, che può servirsi del conflitto per mantenere una posizione di forza e controllo.

Ma autorità formale e potere sono ontologicamente due realtà diverse: la prima è attribuita una volta per tutte, la seconda è costantemente negoziata, siano gli individui o i gruppi le parti in gioco. Il potere è la capacità di sfruttare il margine di incertezza situato nell’imprevedibilità. Negli angoli in ombra si annidano le possibilità del tiranno e del golpista (Gherardi, 2002).

Si può dire che l’organizzazione si muove in uno spazio tridimensionale guidata da un software o programma del quale compatibilità, coerenza, coesione e continuità nel tempo costituiscono il linguaggio.

Il programma è il fil rouge che lega i singoli componenti (risorse, persone, strutture, tecnologie, ambiente esterno ecc), senza il quale non esisterebbe l’organizzazione.

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La compatibilità sostanzia il rapporto fra elementi interni (fini, divisione del lavoro, coordinamento) e esterni dell’organizzazione: un obiettivo mobile da perseguire tramite la strategia dell’organizzazione.

La strategia può rendere compatibili azione organizzativa e ambiente in due modi: adeguando la prima al secondo (come nel caso della piccola e media impresa in grado di modificare sistemi produttivi e prodotti stessi in base alle richieste di mercato); oppure, quando l’organizzazione è di una certa consistenza, mirando a modificare l’ambiente (influenzare la domanda tramite la pubblicità, modificare i vincoli sull’inquinamento tramite pressioni sugli amministratori…).

La seconda condizione, quella della coerenza, riguarda la relazione fra mezzi adottati e fini dichiarati, nonché fra tipo di coordinamento e divisione del lavoro; si tratta quindi di un valore tutto interno all’organizzazione.

La coesione tra i membri che fanno parte dell’organizzazione è una priorità: può essere raggiunta in modi diversi, incentivando, mantenendo alta la comunicazione, favorendo occasioni di confronto e conoscenza anche extra-lavorative (il mito USA dell’”azienda come una grande famiglia”). Si tratta di una misura più difficile da rilevare: assente o limitata conflittualità, un clima collaborativo, fiducia e stima reciproca fra le persone, l’esistenza di una cultura condivisa che sta alla base dell’organizzazione.

Infine la continuità nel tempo è caratteristica fondamentale per l’esistenza di un’organizzazione: la necessità delle organizzazioni di superare i limiti dell’azione individuale, sia in termini di risorse materiali che di tempo.

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L’organizzazione pertanto è la realtà che consente al singolo di perpetuare i propri intenti e i propri fini oltre se stesso.

Inoltre se non si realizza una continuità nel tempo non si può obiettivamente parlare di organizzazione, tutt’al più di progetto o anche di ATI (associazione temporanea d’impresa), che può avere molti tratti in comune con l’organizzazione ma di fatto non lo è.

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1.3 L’ORGANIZZAZIONE PUBBLICA

In un contesto impegnato nella trasformazione verso la multiculturalità, il moltiplicarsi delle tipologie di famiglie, l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei lavoratori atipici, pur essendo il tradizionale modello burocratico alla Weber (1995) la modalità organizzativa prevalente nel settore pubblico, la crescente presenza di professionisti nelle pubbliche organizzazioni ha portato a forme di burocrazia che contemperino l’esigenza dell’imparzialità e della standardizzazione (circa la prestazione erogata e la capacità dei professionisti) con l’autonomia professionale, l’orientamento ai risultati nella salvaguardia delle conoscenze acquisite e del codice deontologico.

Dalla sua “invenzione” il sistema pubblico di protezione ha sensibilmente cambiato il proprio aspetto, di pari passo all’inserimento di nuovi attori nell’ambito della contrattazione e dei ruoli che via via questi hanno rivendicato.

Negli ultimi decenni infatti si è assistito in Italia a un’evoluzione delle politiche sociali, una delle componenti delineanti il contesto in cui operano gli assistenti sociali.

Secondo la schematizzazione di Ranci Ortigosa (2000) questa evoluzione ha seguito la seguente linea di sviluppo:

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Focalizzazione Oggetto Target Attore prevalente Anni 60/70 Assistenza al caso singolo Problema conclamato

Utente singolo Singolo professionista

Anni 80/90 Prevenzione Rischio Gruppo a rischio

Servizio

Anni 90/2000

Promozione Disagio diffuso Fascia di popolazione

Rete

Si evidenzia una tendenza evolutiva che muove verso una complessità sempre maggiore, in cui sono coinvolti disagi sempre più multifattoriali che richiedono risposte multiprofessionali.

In questa evoluzione sostenere l’esclusività dell’offerta delle tutele sociali da parte dell’apparato pubblico appare anacronistico e perdente, suggerendo che tale ruolo possa e debba essere svolto invece da comunità competenti.

Sulla promozione di questa competenza tanto ruolo possono avere le professioni di cura, che sono chiamate a elaborare strategie di lavoro che conducano all’autocoscienza delle potenzialità, allo sviluppo delle risorse e all’implementazione di mezzi che consentano di “fare da sé”.

Se nel dopoguerra il dialogo sul tipo di welfare si poteva intrattenere fra interlocutori ben definiti, sindacati da una parte e stato dall’altra, lo sviluppo socio-economico ha portato a sensibili cambiamenti negli assetti produttivi e sociali e alla scesa in campo di voci e realtà che non possono essere escluse dalla “conversazione”.

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• È pressoché sparita la famiglia convenzionale, con il capofamiglia uomo unico percettore di reddito: sempre più donne lavorano, sempre più famiglie sono monogenitoriali o mononucleari, il lavoro di cura originariamente affidato ai membri della famiglia si è esternalizzato;

• Multicultura e intercultura permeano assessorati e ministeri;

• Si è modificato l’assetto lavorativo: sempre meno il lavoro è a tempo indeterminato, il terziario ha invaso l’ambito produttivo e la differenziazione dei contratti non favorisce una “coscienza di classe lavorativa” come nel secolo scorso;

• È stato dichiarato fallito lo “stato sociale” impiantato da tutte le nazioni occidentali nel secondo dopoguerra. Spesa eccessiva legata a corruzione e a sistemi partitici totalitari, hanno decretato la fine del welfare tradizionale e la necessità di una sua conseguente revisione.

I cambiamenti del contesto socio-economico non agiscono solo a livello macro e non solo nel modo di produzione dei beni, ma anche localmente e nel mercato di produzione dei servizi.

La pubblica amministrazione è pertanto chiamata a ripensare a se stessa, ai suoi principi, alle strutture di produzione e erogazione dei propri “prodotti”.

Una società civile non può funzionare efficacemente senza un governo efficace dei servizi pubblici; l’impossibilità di introdurre i concetti di competizione in determinati ambiti (come i beni pubblici) determina la necessità di elaborare meccanismi di gestione e controllo che tengano

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presenti altri caratteri in via prioritaria che non siano solo il rendimento o il minor costo.

Efficienza, efficacia e qualità, devono andare a braccetto con responsabilità, consenso e tutela.

Concetti come la produttività e i compensi per obiettivi, coniugando la dimensione economica con la responsabilità, stimolano le tensioni di individui e gruppi di lavoro alla realizzazione personale anche e soprattutto attraverso il perseguimento dei valori in cui credono.

I sistemi di valutazione della produttività introdotti negli enti pubblici, attraverso modelli innovativi come quello della Total Quality Managment (o qualità totale) mirano a riconoscere il lavoratore più competente valutando l’apporto di ciascuno, secondo parametri misurabili (Ishikawa, 2004).

Strumenti come le carte di servizio, i processi dell’accreditamento, la certificazione di qualità, il controllo strategico e di gestione, i codici di comportamento, la formazione continua dei dipendenti ha portato il settore socio-sanitario, con il privato sociale in testa e il settore pubblico a ruota, alla ricerca di identità nuove affiancate a percorsi di aziendalizzazione. E questo pur nella consapevolezza che il modello organizzativo sinottico-razionale (Leone-Prezza, 1999), stante alla base di una filosofia di tipo manageriale, tendendo a negare la partecipazione di attori molteplici alla programmazione si pone in evidente contraddizione sia con quanto attiene all’oggetto delle politiche socio-assistenziali, sia con la filosofia che ha animato e anima il legislatore recentemente ed è

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La sfida che la produzione industriale ha conosciuto nel diciannovesimo secolo, di adattare e reinventare i mezzi di produzione funzionalmente al progresso tecnologico e alla domanda del mercato in crescita, i governi la devono affrontare oggi nel ridefinire gli assetti politico-organizzativi a un panorama di cittadini che è profondamente mutato; tutto questo senza sacrificare una cultura in favore dell’altra, ma realizzando nuovi sistemi di produzione di norme e cultura.

La universalità dei destinatari sancita dalla L. 328/2000 non è dettata da una moda, ma dall’esigenza che non si vada a creare una società di diversi nell’uguaglianza (formale e superficiale), ma di uguali nella diversità (sostanziale e trasversale).

Per questo le politiche sociali non possono affidare al mercato la determinazione dei rapporti tra coloro che sono in stato di bisogno e coloro che producono le relative risposte in servizi e interventi, né affidare allo stesso mercato il compito di determinare l’entità delle risorse da destinare a tale obiettivo.

Circa il modello da applicare si possono rintracciare alcune caratteristiche. La flessibilità deve essere un valore trasversale, attributo non solo dei processi e degli interventi (secondo la “legge degli sbocchi” dell’economista Jean Baptiste Say, 1803) ma, soprattutto, delle strutture operative. In tal senso non occorrono dirigenti che conducono operatori imbrigliati in rigide relazioni di tipo gerarchico, ma gruppi di lavoro che siano coordinati sulla base di obiettivi quanto più condivisi (Peters, Waterman, 1993).

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Una sorta di darwinismo organizzativo, che privilegia la sopravvivenza di chi si adatta alle mutate condizioni ambientali, automodificando la propria struttura genetica.

La mission delle organizzazioni pubbliche è far sì che il cittadino e l’impresa/utente sviluppi un positivo attaccamento (Bowlby, 1989) all’ente come care-giver in grado di condire di “valore” il soddisfacimento del bisogno, ossia come fare le cose nel modo giusto, oltre che fare le cose giuste in una prospettiva che privilegia l’orientamento al cliente: l’approccio della Qualità Totale (Total Quality Management) indica il percorso da realizzare all’interno dell’organizzazione.

Parlare di efficienza significa realizzare la razionalizzazione dei costi dell’impresa pubblica, si tratti di ore uomo o di materie prime o di strumenti. Il monopolio di segmenti produttivi, che non riguardino beni pubblici puri, non dovrebbe più avere ragione di esistere, soprattutto alla luce dell’evoluzione normativa in atto, in quanto rischia di togliere al cittadino/cliente la facoltà di scegliere il gestore a suo parere più adatto; non ne deve conseguire un’esternalizzazione o privatizzazione selvaggia, in virtù della salvaguardia dell’efficienza, ma creare “valore aggiunto”, quel surplus che costituisce il guadagno dell’ente pubblico, differenza fra costo e “prezzo di mercato” del bene: è su questo tipo di surplus che l’ente pubblico deve mettersi in competizione per perseguire la realizzazione di eguaglianza di opportunità e di accesso a tutti i cittadini, soprattutto quando ci sono in gioco beni pubblici essenziali e diritti di cittadinanza. L’empowerment (responsabilizzazione) è la pietra filosofale in grado di

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sulla gerarchia rischiano di apparire pratiche di accanimento terapeutico su un modello organizzativo panottico che ormai da tempo sta emanando fetore di decomposizione e al quale solo la pietosa mano di un direttore generale illuminato può dare la pace eterna.

Nella consapevolezza che le sfide che gli enti devono affrontare non richiedono solo conducenti patentati e accorti, ma anche sensori di parcheggio, sistemi GPS, fari allo xenon, dispositivi ABS… insomma sistemi di guida intelligenti, occorrerà che ogni elemento della macchina sia investito di responsabilità per le funzioni che deve svolgere, e sottoposto a periodiche verifiche e messe a punto rispetto ad aggiornamenti dei sistemi disponibili sul mercato.

La letteratura sul lavoro di squadra (Quaglino, Cortese, 2003) mette in luce come il dare il potere di mettere in discussione (e quindi di ricercare il consenso su) l’organizzazione del lavoro alle persone che sono coinvolte nella realizzazione dei servizi, permette loro di acquisire maggiore consapevolezza verso i processi lavorativi nei quali sono coinvolti e maggiore valorizzazione professionale; perché le risorse umane “si espandono illimitatamente quando le persone cominciano a

pensare” (Ohno, 1989).

“Un luogo è tuo quando sai dove portano tutte le strade” (King, Straub, 1983)

Un po’ come nella relazione tra un organismo ed un ospite: se il territorio ha determinate caratteristiche, bisogni e risorse, l’ente ha il compito di utilizzare le risorse a disposizione facendole fruttare e quindi attirando altre risorse (investimenti) che siano un’opportunità di benessere per tutta

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la popolazione, pena l’essere espulso perché inutile o nocivo, come un parassita.

Una rete di servizi efficienti e in linea con le esigenze dei cittadini e delle imprese rappresenta un bene fondamentale per le economie delle nazioni; la competitività del territorio si basa anche sulle garanzie di sviluppo che una pubblica amministrazione (grounded = radicata) è in grado di assicurare alle aziende private che vogliono operare su quel territorio rispetto a beni fondamentali come l’energia, i trasporti, le politiche del lavoro (Ambrosini, Buccarelli, 2009).

Un settore pubblico sensibile a logiche di promozione del territorio, finalizzate ad attrarre risorse e investimenti esterni sia a livello nazionale che estero, costituisce esso stesso una ricchezza e inevitabilmente otterrà dai suoi cittadini il consenso necessario a continuare ad incrementare il proprio ciclo vitale.

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CAPITOLO 2

LO STATO DI BENESSERE E/O MALESSERE DEI

DIPENDENTI: LA VALUTAZIONE E L’AUTOVALUTAZIONE

2.1 BENESSERE O MALESSERE, QUESTO E’ IL PROBLEMA!

Il benessere (da ben – essere = "stare bene") è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell'essere umano, e caratterizza la qualità della vita di ogni singola persona; non più incentrata sull’idea di assenza di patologie, ma come uno stato complessivo di buona salute fisica, psichica e mentale, coinvolge più dimensioni e definisce il livello di salute di un individuo, di un gruppo, di una società: uno stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale che consente all’individuo di raggiungere e mantenere il proprio potenziale nella società (WHO Europe, 2012-2015). Una condizione di armonia tra uomo e ambiente, risultato di un processo di adattamento a molteplici fattori che incidono sullo stile di vita.

2.1.1 Benessere organizzativo

Per “Benessere organizzativo” si intende la condizione da perseguire attraverso la messa in atto di tutte le misure volte a promuovere e tutelare il benessere fisico, sociale e psicologico di tutti i lavoratori.

Da un’iniziale disinteresse del mondo produttivo, all’epoca della rivoluzione industriale e dell’organizzazione scientifica del lavoro di tipo meccanicistico (Taylor, 1911), verso la salute nei luoghi di lavoro, la

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nascita del movimento delle Relazioni Umane (Mayo, 1933) pose le basi alla genesi della psicologia del lavoro e della salute organizzativa (Avallone, Paplomatas, 2005).

Si assiste alla trasformazione del concetto di lavoro, che porta a desiderare di stare in un ambiente sano, accogliente, stimolante, bel illuminato e caratterizzato da relazioni positive con i colleghi e i superiori (Cheli, Buccioni, 2010)

Numerosi elementi concorrono al raggiungimento del benessere organizzativo, sia di natura individuale (progresso di carriera, autonomia, responsabilità, riconoscimenti, soddisfazione..), sia dal punto di vista dell'organizzazione globale (cooperazione, flessibilità, mobilità, sicurezza, fiducia..). I cambiamenti organizzativi e il clima di competizione sono spesso cause scatenanti di conflitti di ruolo, cattiva gestione delle risorse umane e non, insoddisfazione e demotivazione personale. Fondamentale è l’impegno da parte non solo dei singoli lavoratori ma soprattutto dell’organizzazione aziendale di prevenire tali disagi e contrasti, agendo su più fronti, al fine di eliminare o almeno ridurre tali problemi. È doveroso dare merito alle strategie manageriali private che per prime hanno incluso interventi volti a migliorare le condizioni lavorative delle persone e delle loro performance, l’utilizzo delle risorse che impiegano, al fine di migliorare insieme al clima organizzativo, il livello del profitto.

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I fattori che contribuiscono a minare la condizione di benessere negli ambienti e luoghi di lavoro non possono essere attribuiti esclusivamente a cause personali, né al contesto organizzativo in sé (Mondo, 2008): la mancanza di organizzazione e programmazione del lavoro, la fatica, i ritmi veloci, l’incertezza relativa al ruolo da svolgere, la mancanza di controllo sul proprio lavoro, le richieste superiori alle proprie capacità, la cattiva strutturazione e vivibilità dei luoghi di lavoro. Un lavoratore quotidianamente si trova a gestire molteplici situazioni, prendere decisioni sotto pressione, conseguire risultati: tutte queste azioni (a cui si devono sommare ulteriori condizioni quali relazioni e comunicazione interpersonale, fattori di igiene del lavoro) possono originare stress. Anche la mancata realizzazione di una buona cooperazione tra singolo e organizzazione lavorativa può comportare numerosi problemi per entrambe le parti, di carattere socio-economico (riduzione della produttività, conflitti interni, forti tensioni) e di carattere psicosomatico. La Commissione Europea (1999) ha definito lo stress lavorativo “un

insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi del contenuto del lavoro, dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro”.

Lo stress non è di per sé un fattore negativo, può condurre al contrario a reazioni di crescita e salute, di cambiamento (Avallone, 2011); se però diventa ingestibile conduce a conseguenze che possono essere estremamente negative.

Avallone (ibidem) ne elenca fondamentalmente 2: il burnout e la violenza.

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La sindrome del burnout colpisce principalmente chi lavora a stretto contatto con gli altri, in costante e stretta relazione e in coinvolgimento emotivo con le problematiche dell’utenza (Borgogni, Consiglio, 2005): si tratta di una risposta di difesa allo stress lavorativo che coinvolge colleghi, utenti e che si estende spesso anche ai congiunti, messa in atto con “comportamenti di distacco emozionale e di corrosione psicologica” (Baiocco et al, 2004).

Il mobbing (violenza) si può definire come una forma di abuso agito attraverso un insieme di comportamenti aggressivi che colpiscono l’integrità psico-fisica della vittima mettendo in pericolo il suo rendimento lavorativo e in generale il clima del luogo di lavoro (Mondo, ibidem).

2.1.3 Soluzionipossibili

Il primo soggetto interessato a soluzioni volte a favorire salute e benessere organizzativo è lo Stato: per mezzo dell’azione normativa (L. 300/1970 “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”; D.Lgs. 626/1994 “Attuazione delle direttive europee […] riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro”; L. 123/2007 “Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”) la collettività si preoccupa di tutelare i diritti inalienabili di vita e libertà e conseguentemente di prevenire stati di

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permanente, trattamenti medici o psichiatrici, assistenza e previdenza). L’interesse pubblico si combina a quello delle aziende private, interessate a mantenere o migliorare lo stato di salute dei propri lavoratori funzionalmente a obiettivi di performance economica e produttiva.

Su questa lunghezza d'onda si posizionano anche le aziende e le amministrazioni pubbliche, che ormai si trovano a dover fare i conti con bilanci sempre in rosso, per cercare di risanare situazioni disastrose o al limite. Dunque il benessere organizzativo, contribuendo al benessere generale della persona, diventa un must contemplato anche nel settore pubblico: il Ministro della Funzione Pubblica nella direttiva del 24 marzo 2004 circa le “Misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni” riconosce l’importanza di un “[…] clima organizzativo che stimoli la creatività e

l’apprendimento, l’ergonomia – oltre che la sicurezza – degli ambienti di lavoro delle Amministrazioni Pubbliche”. La finalità della direttiva sta

pertanto nel favorire e sostenere la creazione di condizioni che possano incidere sul miglioramento della cultura organizzativa; riveste carattere di estremo interesse il percorso indicato, ossia quello di valutare al fine del suo miglioramento il benessere all’interno dell’organizzazione, attraverso la rilevazione delle opinioni dei dipendenti sulla qualità della vita e delle relazioni all’interno dei luoghi di lavoro, per comprendere e gestire in modo costruttivo le risposte emotive al lavoro (Cherniss, 1983).

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Al punto 4 la direttiva si sofferma su due punti cruciali: l’insoddisfazione per gli strumenti tradizionali dei gestione del personale e, stante un sistema ad alta intensità di lavoro intellettuale, l’inadeguatezza dell’utilizzo del solo sistema gerarchico.

Trasversale a tutta la direttiva la rilevanza attribuita al ruolo svolto dalle associazioni sindacali.

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2.2 LA VALUTAZIONE

La valutazione è parte integrante della vita, un’azione che si svolge più volte durante l’arco della giornata e della vita, privata e sociale; nel corso della nostra vita siamo valutati fin dalla nascita (De Ambrogio, 2004). La parola “valutare” etimologicamente riporta alla necessità di “dare valore” alle cose e alle esperienze, ai servizi e alle politiche, ai beni e alle persone; riporta anche alla necessità di operare delle scelte, non solo tra ciò che è più o meno buono ma soprattutto fra ciò che è più o meno utile e vantaggioso (che vale), maggiormente rispondente alle necessità di ciascuno, sia di chi domanda sia di chi offre.

Quale che sia il livello che si sta valutando, la valutazione si articola in tre fasi distinte: ex ante, in itinere ed ex post (Leone, Prezza, 1999). Focalizzando l’attenzione sulla terza fase si possono individuare altrettanti momenti distinti: una valutazione di esito (output), una di risultato (outcome) e una di impatto. La prima risponde alla domanda se l’intervento o la politica sono state realizzati, la seconda se sono stati fatti bene o male (sulla base di un criterio predefinito, ad esempio di economicità), la terza se l’intervento o la politica sono stati utili ai destinatari, alla popolazione, alla politica…

Altri due concetti si devono sottolineare soprattutto quando si tratta di valutare nel sociale, ossia la valutazione di processo e quella di qualità (Foglietta, 2000).

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Parlare di processo e di qualità serve a ridefinire l’oggetto dell’intervento in ambito sociale, in quanto richiama una dimensione allargata anche ai destinatari delle politiche e degli interventi, troppo spesso estranei dall’esercizio di una cittadinanza attiva (De Ambrogio, 2003).

Valutare il processo significa affrontare l’analisi delle relazioni fra i soggetti coinvolti nel progetto e la gestione dei ruoli, il modo in cui i destinatari sono raggiunti, le procedure di partecipazione adottate, i fattori di successo e gli ostacoli incontrati nella realizzazione del progetto.

Valutare la qualità significa rendere rilevante il punto di vista dell’utente, anche e soprattutto in relazione al processo suddetto e soprattutto in riferimento agli elementi che possono impedirne la partecipazione (De Ambrogio, 2004).

Ne è nata pertanto nell’ambito proprio delle scienze sociali, a partire dalla fine dagli anni ‘70 in Europa, una filosofia che si può chiamare di customer satisfaction, andata via via sviluppandosi anche in Italia, soprattutto a seguito dei processi di esternalizzazione dei servizi (sanitari e sociali) e dell’esigenza di acquisire strumenti per valutare e scegliere i progetti e gli enti gestori, in un neonato ambito di “quasi mercato”. In un panorama in cui le risorse, soprattutto nell’ente pubblico, scarseggiano ormai da decenni, investire in valutazione diventa l’antidoto alla perdita di motivazione degli operatori, al depotenziamento dei servizi, allo svuotamento di senso delle politiche.

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La legislazione in merito (dal D.Lgs. 502/92 “Riordino della disciplina

in materia sanitaria” che adotta in via ordinaria il metodo della verifica

e revisione della qualità e quantità delle prestazioni alla L. 285/97 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia

e l’adolescenza” che impone la valutazione di efficacia degli interventi

rispetto agli obiettivi, dal “Piano sanitario nazionale 1998-2000” che rende sistematico l’orientamento del SSN alla valutazione alla L. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di

interventi e servizi sociali” che sancisce l’irrinunciabilità della verifica

dei risultati in termini di qualità e efficacia delle prestazioni) si muove in maniera sempre più certa nella direzione di una valutazione come mezzo finalizzato alla progettazione di politiche e servizi che coinvolgano gli interlocutori in un processo discorsivo e ricorsivo, favorendo la partecipazione non solo alla fase di pianificazione, ma anche di lettura e valutazione e pertanto di riprogettazione: valutare le politiche sociali significa mettere a confronto la domanda sociale documentata di un territorio e i risultati ottenuti dal sistema integrato di servizi e interventi offerti.

2.2.1 Valutare le politiche

Le politiche pubbliche possono essere valutate a più livelli: nazionale, regionale, provinciale e locale in genere.

A seconda del diverso livello e di chi valuta cambiano gli interessi nei confronti della valutazione: ad esempio il decisore pubblico a livello nazionale o regionale può essere interessato a valutare l’impatto di una

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determinata politica specifica o a mettere a confronto, in un’ottica benchmarking, diversi progetti sperimentali che operano in contesti diversi (Barretta, Vagnoni, 2005); l’amministratore di un comune può invece essere interessato nell’ambito di un progetto sperimentale a livello locale ad attivare percorsi di valutazione partecipata che consenta ai vari attori di sentirsi parte integrante di una politica di promozione della salute sociale di una determinata comunità territoriale.

A fianco del concetto di localizzazione delle politiche e della valutazione si colloca il loro carattere di complessità, una multidimensionalità nei contenuti e nei processi di costruzione che richiede una programmazione e una verifica multisettoriale, globale e trasversale (piani che tendono a superare i tempi e lo spazio, delineando tessuti in cui sono variegati i fili, le trame e gli orditi, in un “multi” che diventa il prefisso più ricorrente).

Per quanto riguarda gli attori, la normativa nazionale definisce la valutazione come una funzione allargata a tutti gli stakeholders (chi progetta, chi paga, chi eroga e chi usufruisce delle politiche); occorre a tal proposito soffermarsi a riflettere sui modi e le forme di partecipazione più efficaci in una logica diffusa di governance, dove attori portatori di logiche distanti e diverse co-progettano, co-gestiscono e co-verificano (Vecchiato, 2000).

Esiste comunque un non lieve ritardo rispetto alla messa in opera di procedure di valutazione stabili, da ricondurre principalmente alla

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ispettivo; per questo in un situazione di budget all’osso la prima funzione che viene tagliata è proprio quella valutativa, tanto più se si devono anche ricomprendere “voci di fuori” nel processo.

Una volta affermato il ruolo del pubblico quale soggetto erogatore e controllore si pone la necessità di sperimentare la via della valutazione che assume la doppia valenza di accountability (rendicontazione) e di learning (apprendimento) (De Ambrogio, 2003).

La prima azione ricade su tutti i livelli di un’organizzazione (pubblica o privata che sia) in maniera indistinta e in senso ascendente: la valutazione si intende come rendicontazione quando conduce alla realizzazione di un “ambiente” costruito attraverso l’invio di informazioni sullo stato operativo dei molteplici livelli dell’organizzazione o del servizio.

Si realizza così un profilo dinamico della realtà che è oggetto di valutazione, sempre in trasformazione a ridefinire i propri caratteri somatici.

In continuità e coesistenza con l’accountability si realizza il processo di learning: la valutazione da fine diventa mezzo per raggiungere un orizzonte di miglioramento.

Nelle politiche pubbliche in generale e nei servizi sociali in modo particolare si vorrebbe prevalesse la seconda funzione: è nell’ambito di un processo di apprendimento che il decisore pubblico si appresta a conoscere i fenomeni, stendere un giudizio e assumere pertanto una decisione in merito alle linee di cambiamento da perseguire.

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I fans del “just in time” (Ohno, 1989) ne sottolineano poi la dimensione troppo spalmata nel tempo, tanto da sollevare dubbi sull’effettivo vantaggio di fare valutazione: quello che si realizza oggi avrà effetti nel lungo termine che non è vantaggioso pensare di misurare oggi.

In risposta a questa obiezione, De Ambrogio (2003) propone la

Theory-based evaluation nata e sviluppatasi negli USA proprio per conciliare lo

sviluppo di nuovi programmi di intervento nel campo delle politiche sociali con metodi e tecniche di valutazioni tradizionali inadeguati ad affrontare la complessità che questa new generation di politiche porta con sé.

Occorre, a parere dei promotori di questa approccio, evidenziare quelle che sono le teorie alla base dei progetti; si tratta di legare i punti di vista degli attori (la lettura di una realtà e la messa in luce dei problemi che questa presenta) con le conseguenti soluzioni messe in campo dai piani: la teoria comprende l’esplicitazione degli obiettivi, delle attività e delle strategie del progetto, di come queste si legano tra loro e con il contesto per produrre i risultati attesi.

Scopo della valutazione è esplicitare queste teorie, scomporle in micro-f asi che contengono micro-assunti, in modo da esaminarle segmento per segmento e valutare la “tenuta” del progetto complessivo tramite l’analisi passo passo delle attività e delle loro ricadute sul piano globale, nei termini di mutamento atteso; si tratta di isolare le diverse variabili in gioco (economiche, sociali, culturali…) e i nessi presenti fra queste, al fine di mettere in luce anche quelli che sono i passaggi maggiormente

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