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4 «Io aborro la vita politica, e gli uomini politici»: gli anni 1862-

1. «Il Ministero precedente seppe conciliare la libertà con l’ordine»: Ricasoli osservatore influente della crisi d’Aspromonte

Io aborro la vita politica, e gli uomini politici. Non dico ciò per lodarmi, e neppure per biasimarmi; lo dico soltanto per dire un fatto. Sento di aver fatto male e di far male a non ritirarmi risolutamente dal campo politico, nel quale resto soltanto pel mandato di Deputato che ancora conservo e per alcune delle sue conseguenze, come quella di venire talvolta alla Camera. […] Finché ero al Governo, ove vicissitudini notissime e di forza maggiore mi avevano condotto, vi stavo e facevo buon viso alla necessità, anco per non mancare al fine, se il caso di quelle vicissitudini fosse per avere un fine, cioè un oggetto. Ma una volta che indipendentemente dalla mia volontà ne uscii innanzi di avere raggiunto il fine, io sento di avere fatto male a restare presso il campo politico1.

Queste considerazioni indirizzate a Sansone D’Ancona dimostravano la profonda amarezza che aveva pervaso lo spirito del barone all’indomani delle dimissioni. Principale destinataria del suo sfogo era la politica in generale per la quale non si sentiva tagliato e dalla quale era stato malamente trattato. Solo la possibilità di governare lo aveva realmente appassionato, perciò non chiudeva ad u rinnovo di questa prospettiva. Ma, specificava, lo avrebbe fatto solo «se circostanze imperiose lo richiedessero» o in caso «di una pubblica sventura, che sarebbe reità il desiderare»2.

1 B.R. a S. D’Ancona, Terranuova 23 giugno 1862. XXI, t. 1, pp. 145-146. 2 Ivi, p. 146.

Ricasoli, infatti, era profondamente convinto che i mesi del suo ministero fossero coincisi con una decisiva fase di consolidamento dello Stato unitario, grazie soprattutto alla decisione di uscire da quella provvisorietà di ordinamenti che sia all’interno, sia all’esterno veniva considerata indicatore di anarchia e di instabilità3. Insomma, grazie alla sua opera e a quella dei suoi colleghi «la decretata unità diveniva ogni giorno meglio un fatto autorevole»4. La consapevolezza di non aver potuto raccogliere i frutti di un lavoro che personalmente giudicava ben avviato aveva aumentato un’amarezza profonda, legata più che altro al modo in cui aveva dovuto abbandonare il campo. Di qui il severo giudizio sulla politica espresso nella lettera a Sansone D’Ancona citata in apertura. Di qui anche la decisione di stare il più lontano possibile da Torino, ove regnava «un’atmosfera delle più sozze, che io abbia mai lette nelle storie dei politici intrighi, e delle basse cospirazioni di corte»5.

Tale attitudine, tuttavia, non va presa troppo alla lettera. Il carteggio del 1862, infatti, dimostra ampiamente come la politica, nonostante le delusioni personali, rimanesse costantemente al centro delle riflessioni ricasoliane e come egli continuasse a costituire uno dei pilastri della destra. Non a caso gli amici iniziarono di nuovo ad esortarlo a superare il momento di sdegno per assumere autorevolmente la guida dell’opposizione a Rattazzi dal banco parlamentare. «In questo momento bisogna che tu ci sia» gli scriveva all’inizio di giugno Giovan Battista Giorgini6. Pochi giorni prima, infatti, il ministero aveva ordinato la dispersione e in alcuni casi l’arresto dei volontari garibaldini che si stavano riunendo presso Sarnico, nel bresciano, riportando all’ordine del giorno voci circa pericolose promesse fatte da Rattazzi, d’accordo col Re, a Garibaldi.

Consapevole dei pericoli insiti nell’uso politico della rivoluzione attraverso Garibaldi, Ricasoli negli ultimi mesi del suo governo si era speso per impedire ogni idea di spedizione balcanica che se realizzata avrebbe smentito clamorosamente una politica estera fino ad allora improntata alla massima prudenza. La fase rivoluzionaria si era chiusa con l’Unità su questo, come si è visto, il barone non aveva mai avuto dubbi. Roma e Venezia si dovevano raggiungere attraverso una politica fondata sì sul diritto di nazionalità, ma con mezzi tradizionali, ovvero con l’appoggio delle potenze europee in particolare la Francia, l’Inghilterra e la Prussia. Ciò, tuttavia, non andava fatto assecondando ciecamente la politica di una

3 B.R. a U. Peruzzi, Brolio 2 aprile 1862 e Brolio 3 aprile 1862. Ivi, rispettivamente, pp.

13-30 e pp. 32-42.

4 B.R. a U. Peruzzi, Brolio 2 aprile 1862. Ivi, p. 15. 5 B.R. a A. La Marmora, Firenze 25 aprile 1862. Ivi, p. 82. 6 G.B. Giorgini a B.R., Torino 3 giugno 1862. Ivi, p. 131.

delle tre, in particolare la Francia, come gli sembrava stesse facendo Rattazzi. Egli, infatti, temeva che «il Governo d’Italia possa associare le armi italiane alle francesi nel Messico»7. Una scelta assurda perché l’Italia «non dee prender parte ad una odiosa violenza, e perdere le simpatie che ha in America»8. Al barone non sfuggiva che gli Stati Uniti, benché «impegnati nell’aspra guerra che sappiamo», non avrebbero mai permesso «che né una Monarchia si stabilisca accanto a loro, né altra influenza si eriga a loro fianco nelle cose americane»9. Infine vi era anche una profonda motivazione morale che doveva trattenere l’Italia: il rispetto del principio di nazionalità.

Ella tradirebbe se stessa se l’orgoglio la pigliasse di farsi conquistatrice o di associarsi ad altra Nazione che tendesse a conquiste e si caricherebbe di obbrobrio se si unisse armata ad altra nazione, violando i principi di libertà e d’indipendenza che ella vuole rispettati presso di sé. […] Oggi non è più per l’Italia il caso della spedizione di Crimea; oggi la politica che l’Italia dee seguire non è più di rimorchio, né d’insinuazione nei grossi convegni e tra i grossi banchettanti, e di accordarsi alla gente forte per farsi conoscere e acquistare luce. L’Italia ha oggi luce propria e non è che da lei svolgerla, e divenirne splendente. L’Italia dev’essere previdente e prudente sopra ogni argomento che non tocchi direttamente la sua esistenza, e ciò appunto per crescere efficacia alle richieste del suo diritto e per non diminuire gli avvocati del suo diritto10.

L’interesse nazionale doveva guidare la politica estera del Regno, cosa che non gli pareva guidasse quella condotta da un Rattazzi troppo solerte nei confronti di Parigi. Questi pensieri, destinati a Piero Puccioni affinché ne parlasse su «La Nazione», dimostravano anche il permanere in lui di un comprensibile atteggiamento critico nei confronti della Francia. Però è interessante notare come Napoleone III e i suoi ministri gli manifestassero in quella primavera, attraverso Sansone D’Ancona, la disponibilità ad un incontro11. Ricasoli, infatti, avrebbe dovuto passare dalla capitale francese per raggiungere Londra ove aveva intenzione di visitare la great London Exposition. Tutta questa sollecitudine non piacque al barone per due motivi: in primo luogo perché era «sì viva la memoria, e ingrata, in me di quel viaggio del Rattazzi», cosa che non voleva imitare per non diventare

7 B.R. a P. Puccioni, Figline Valdarno 16 giugno 1862. Ivi, p. 154. 8 Ivi, p. 155.

9 Ibidem. 10 Ivi, p. 154-155.

11 Cfr. S. D’Ancona a B.R., Parigi 5 maggio 1862 e Id. allo stesso Parigi 6 maggio 1862. Ivi, pp. 103-105 e p. 105. Cfr. anche B.R. a P. Bastogi, Brolio 14 luglio 1862. Ivi, pp. 183-

lo strumento di nessuno; in secondo luogo a causa del fatto che Napoleone III aveva sostenuto le trame del Re per costringerlo alle dimissioni. Insomma gli sembrava una ‘trappola’ politica che decise di evitare rinviando di un paio di mesi il viaggio in Inghilterra12.

Comunque, eccettuata l’eventualità di partecipare all’avventura messicana, Ricasoli non credeva che fossero alle viste «prossime combustioni, a promovere le quali non erano mancati emissari d’ogni genere, inviati da coloro, che gradirono, anzi promossero le occasioni al mio ritiro»13. Il barone, però si sbagliava. Dopo l’episodio di Sarnico, infatti, Garibaldi si era imbarcato per la Sicilia ove, ufficialmente, si doveva recare per incoraggiare i circoli di tiro a segno intesi quali nuclei fondanti della «nazione armata»14. Il Generale, invece, iniziò una campagna di arruolamento di volontari al motto di «o Roma, o morte» per riprendere la spedizione interrotta nel 186015. La mossa spiazzò il ministero che dopo Sarnico credeva di aver definitivamente accantonato i progetti in collaborazione con l’Eroe, la destra e anche la stessa sinistra creando un clima politico di incertezza che Rattazzi si dimostrò incapace di gestire. Soprattutto la minaccia di un’iniziativa rivoluzionaria avente come obiettivo Roma apriva alla possibilità di un intervento armato francese in difesa del potere temporale16. Anche la sinistra stessa si trovò in un certo modo spiazzata da Garibaldi17.

Informato dettagliatamente da Ubaldino Peruzzi su quanto Garibaldi stava facendo e sull’azione del ministero18, Ricasoli si convinse «che non si può dubitare che lo stato delle cose non sia grave»19. Trovava, inoltre, che «bello è il vedere come il Governo francese, che gli appoggiava per avere sosta nella questione romana, debba invece trovarsi a sentirsela pigiare addosso più che prima»20. Nonostante ciò egli attivò l’unico contatto francese per il quale, come aveva dichiarato a Bastogi, aveva «simpatia»:

12 B.R. a S. D’Ancona, Genova 9 maggio 1862. Ivi, pp. 110-111 anche per le citazioni. 13 B.R. a G. Fabrizi, Brolio 14 luglio 1862. Ivi, p. 187.

14 Sul legame fra Garibaldi e le società di tiro a segno Cfr. G. Pécout, Les sociétés de tir dans l’Italie unifiée de la seconde moitié du xixe siècle, in «Mélanges de l’Ecole française

de Rome. Italie et Méditerranée», t. 102, n°2. 1990. pp. 533-676.

15 Cfr. E. Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla grande guerra,

Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 56 e ss.

16 Cfr. G. Giordano, Cilindri e feluche. La politica estera dell’Italia dopo l’Unità, Roma,

Aracne, 2008, pp. 33 e ss.

17 Sul punto cfr. C. Satto, Dalla rivoluzione al governo. La sinistra di Antonio Mordini

nell’età della Destra, Milano, Angeli, 2014, pp. 21 e ss.

18 U. Peruzzi a B.R., Torino 26 luglio 1862. XX, 1, pp. 217-220. 19 B.R. a U. Peruzzi, Brolio 287luglio 1867. Ivi, p. 221. 20 Ibidem.

Pierre Marie Pietri21. Senatore dell’Impero e sostenitore di una soluzione favorevole all’Italia della questione romana22, conosceva Ricasoli dagli anni del governo provvisorio toscano23. A lui il barone indirizzò una lunga lettera in cui, dicendo non provare rancore per la condotta francese, corresponsabile della sua caduta, spiegava come fosse il momento opportuno di lasciare i romani liberi di esprimersi per evitare una catastrofe politica per l’Italia e di prestigio per l’Imperatore. In quel momento della crisi, infatti, si riteneva che un pronunciamento in senso italiano dei romani potesse potesse disinnescare la crisi24. I romani, però, con sommo disappunto di Ricasoli che durante il suo ministero aveva lavorato affinché si tenessero tranquilli ma pronti all’azione, non si mossero25. Pietri, che fece leggere la lettera di Ricasoli a Napoleone III26, si disse disposto ad un incontro che poi ebbe luogo, riservatamente, a Marsiglia il 22 agosto27. Dal colloquio, Ricasoli seppe che:

1° non mai (jamais) l’Imperatore cederà davanti una pressione illegittima ed anarchica; 2° l’Imperatore è fermamente risoluto di far cessare questa cagione di comune inquietezza (a lui e all’Italia), le condizioni presenti di Roma; 3° Non darà mai Roma al Re d’Italia, anzi vorrà un’obbligazione per parte del Governo d’Italia, di non toccare il territorio romano, meno il caso di esservi chiamato dalle popolazioni; Rome aux Romains; se il Papa, assicurato della sua indipendenza e decoro spirituale fuggirà da Roma, ne vada in pace, che nessuno ne piangerà28.

Era chiaro insomma che Napoleone III non avrebbe tollerato l’iniziativa che stava prendendo corpo e che non avrebbe mai accettato un passaggio diretto di Roma all’Italia. L’unica strada era quella abbozzata negli schemi di accordo conclusi da Cavour nella primavera del 1861 e che Ricasoli non aveva fatto in tempo a riprendere a causa della caduta del suo governo. La Francia poteva accettare l’annessione dell’Urbe al Regno solo dopo un opportuno periodo di transizione nel quale i romani avessero manifestato la loro volontà. Sul fatto che l’Europa avrebbe accettato la fuga del Papa invece si può nutrire più di una perplessità. Detto questo Pietri,

21 B.R. a P. Bastogi, Brolio 14 luglio 1862. Ivi, p. 183.

22 Cfr. P.M. Pietri, Politique française et politique italienne, Paris, Dentu, 1862.

23 Cfr. R. Ciampini, Il ’59 in Toscana. Lettere e documenti inediti, Firenze, Sansoni,

1958, p. 208.

24 B.R. a P.M. Pietri, Brolio 30 luglio 1862. Ivi, pp. 228-231.

25 B.R. a L. Silvestrelli, Brolio 30 luglio 1862 e B.R. a P. Puccioni, Brolio 1 agosto

1862. Ivi, pp. 230-231 e pp. 239-244.

26 B.R. a C. Bianchi, Marsiglia 23 agosto 1862. Ivi, p. 240. 27 Cfr. N. Graziani a B.R., Parigi 17 agosto 1862. Ivi, pp. 329-330. 28 B.R. a P. Bastogi, Marsiglia 23 agosto 1862. Ivi, p. 340.

Insisté sulla necessità, sull’inevitabilità che il Governo d’Italia richiami all’osservanza e al rispetto delle leggi e all’autorità chi ora ne è fuori, e ritorni ad essere un governo effettivo, senza di che, prevedeva disgrazie per l’Italia, aggiungendo che se un conflitto con l’Austria fosse per uscirne mai dalla presente confusione, la Francia non assisterebbe l’Italia.

Napoleone III minacciava addirittura di lasciare l’Italia sola a fronteggia l’Austria se il Governo non avesse prontamente represso il movimento messo in moto da Garibaldi. Su quest’ultimo punto, cioè sulla capacita di Rattazzi di intervenire, il barone si confessava col fratello «preoccupatissimo»29. A Bianchi scriveva che «i personaggi che sono oggi in scena autorizzano tutto temere, a nulla sperare»30. Non solo gli amici gli avevano descritto l’inazione che caratterizzava il ministero31, ma egli stesso, in un rapido passaggio da Torino, si era personalmente reso conto della gravità del momento32. Gli pareva di essere nel 1848 parigino quando «Luigi Filippo sarebbe restato padrone del trono se non avesse esitato, la sua esitanza pose la defezione nelle sue truppe»33. L’ingresso del Generale a Catania senza opposizioni di sorta da parte della pubblica autorità, e la notizia di diserzioni nell’esercito34, rendeva urgente un intervento deciso di chi aveva la suprema responsabilità di difendere l’ordine costituito. Il proclama del Re, controfirmato da tutti i ministri, diffuso dal governo il 3 agosto non servì a nulla35. La «prontezza della repressione» rimaneva, dunque, l’ultima opzione disponibile36.

Il giudizio del barone su Garibaldi rimase severo, soprattutto perché aveva ceduto sin dall’inverno del 1861 alle azzardate promesse del Re e di Rattazzi, veri colpevoli della crisi secondo Ricasoli.

Io al contrario, pensando che Garibaldi era gloria nazionale, volli serbarlo a noi e impedire che sua gloria si oscurasse nell’opinione universale, come dolorosamente è oggi avvenuto per di lui propria colpa, che sola consiste nell’avere creduto a

questa gente. Egli è stato vittima della propria insipienza e di quell’animo poco

disposto ad apprezzare l’idea governativa, a rispettare tutto quanto si chiama 29 B.R. a V. Ricasoli, Marsiglia 24 agosto 1862. Ivi, p. 346.

30 B.R. a C. Bianchi, Marsiglia 24 agosto 1862. Ivi, p 343.

31 G.B. Giorgini a B.R., Brusuglio 16 agosto 1862; A. Ricci a B.R., Siena 16 agosto

1862. Ivi, pp. 325-326; pp. 326-328.

32 Cfr. B.R. a V. Ricasoli, Marsiglia 24 agosto 1862. Ivi, pp. 345-346. 33 Ivi, p. 346.

34 Cfr. sulle diserzioni E. Cecchinato, Camicie rosse, cit., p. 83. 35 Cfr. G. Giordano, Cilindri e feluche, cit., p. 35.

Governo, e poco fatto a guidare se stesso […] Il trattamento fatto a Garibaldi è iniquo, è infame – continuava più avanti nella stessa lettera –. Egli si merita di trovarsi a questo estremo ridotto perché stupida e sleale fu la sua condotta nel 4 dicembre e lo fu successivamente, dappoiché ebbe preso l’impegno di sostenere uomini che si conosceva per sleali e codardi. Egli però non [giudicò] al metro dell’interesse vero d’Italia, ma nell’interesse d’un suo egoismo, sebbene con un fine consentito da tutti; non è per questo men doloroso di vedere un uomo che operò molto per Italia, che gl’Italiani amano, che le palle dei nemici non toccarono, restare vittima deplorabile di una perfidia senza grandezza e senza decoro37.

Il Generale, insomma, aveva dato prova di scarso intuito politico mettendosi al servizio di persone, il Re e Rattazzi, «senza grandezza e senza decoro». Il barone non aveva mai avuto una gran stima del Garibaldi politico, a suo avviso troppo portato a far confusione tra il proprio ego e la causa nazionale, nonché indocile ai consigli del governo. Nell’idea ricasoliana la regìa della rivoluzione, soprattutto dopo il 1861, spettava all’autorità legittima. Solo al governo, infatti, spettava il giudizio sull’opportunità o meno di promuovere un’azione. Garibaldi non aveva compreso questo concetto. E men che meno lo avevano capito Rattazzi e il Re menti di una «politica subdola, incerta e ceca»38.

Anche se «tradito»39, Garibaldi, quindi, non andava esente da colpe. E comunque non era lui che doveva essere salvato ma la Corona.

Si salvi il Re nell’interesse della Nazione e della Monarchia; Ma non si risparmino i complici delle sue sozze voluttà politiche, egualmente sozze che dei suoi lascivi costumi, e ciò si faccia nell’interesse della monarchia, nonché della nazione, e della moralità pubblica40.

A pagare, dunque, dovevano essere i personaggi che avevano avallato la pretesa regia di avere un ruolo attivo nel processo decisionale, ossia Rattazzi. La crisi in corso lo confermò nella convinzione che la sua politica tesa a fare della Corona un vero simbolo nazionale, senza responsabilità concreta sulle scelte strategiche, era stata giusta. Tuttavia, non era quello il momento giusto per rovesciare Rattazzi perché «per me chi ha fatto il male ha il dovere di rimediarvi»41. Toccava al lui, infatti, assumersi la responsabilità dell’uso della forza, ormai l’unica opzione sul tavolo per fermare Garibaldi e per convincere la Francia della solidità dello Stato

37 B.R. a C. Bianchi, Brolio 10 agosto 1862. Ivi, pp. 283-285. 38 Ivi, p. 284.

39 B.R. a V. Ricasoli, Marsiglia 24 agosto 1862. Ivi, p. 346. 40 B.R. a C. Bianchi, Brolio 10 agosto 1862. Ivi, p. 284. 41 B.R. a R. Bonghi, Brolio 14 agosto 1862. Ivi, p. 314.

consisteva. E fu ciò che successe nel noto scontro dell’Aspromonte quando, il 29 agosto 1862, i reparti regolari spararono sulle camicie rosse ferendo anche Garibaldi, poi imprigionato.

In quei giorni Ricasoli era in viaggio: da Marsiglia proseguì per Parigi, ove non voleva incontrare nessun uomo politico avendo già parlato con Pietri, e poi per Londra. La battaglia per la caduta di Rattazzi, infatti, doveva iniziare alla riconvocazione della Camera. Non si doveva però in nessun caso fare di lui il candidato alla successione a meno di un richiamo «solenne, autorevole e tale da compensarmi del grande insulto avuto»42. Essendo il Re e la Camera gli stessi, il barone non vedeva, infatti, come poter riprendere una politica, la sua, contrastata o appoggiata con poco vigore, da entrambi. Insomma «io di Governo non voglio sentirne più parlare»43. Ciò non voleva dire che si sarebbe astenuto dallo svolgere la propria influenza affinché all’avvocato di Alessandria succedesse una personalità meno pericolosa per il Paese. E fu ciò che il barone fece.

Il 30 novembre 1862 Rattazzi si dimise prima di ricevere un formale voto di sfiducia. Per l’opinione pubblica e per la Camera era divenuto il solo e vero colpevole della vicenda, capace di provocare uno scontro fratricida fra le principali componenti del Risorgimento, quella monarchica e quella garibaldina, nonché di trascinare il Re a firmare proclami anti garibaldini e il Generale a contravvenire agli ordini del sovrano. Uscito di scena Rattazzi, Vittorio Emanuele avrebbe voluto «un ministère de transition», formato da personalità di secondo piano, con lo scopo eventuale di prorogare e sciogliere la Camera44. Individuò così in Cassinis e Pasolini le due persone a cui affidare la delicata missione. Alla fine, grazie a Pasolini che chiarì di non voler partecipare ad un’amministrazione priva di sostegno parlamentare, si riuscì ad imporre al monarca un vero e proprio ministero politico anti-rattazziano e anti-piemontese. Si è sostenuto che Vittorio Emanuele II impose alla presidenza Luigi Carlo Farini, ormai a tutti noto per la precaria salute mentale, per influenzare il Consiglio dei ministri. Tuttavia, alla luce del fatto che Farini non assunse alcun portafogli ministeriale e della presenza di Peruzzi e di Minghetti in ministeri chiave quali gli Interni e le Finanze, con Pasolini, amicissimo del secondo, che tenne gli Esteri, credo si possa, invece, vedere nel gabinetto che entrò in carica nel dicembre del 1862 un’amministrazione assolutamente in grado di contenere le iniziative regie. Alle personalità nominate si aggiunsero il

42 B.R. a C. Bianchi, Menaggio 17 ottobre 1862. Ivi, p. 403. 43 B.R. a R. Bonghi, Brolio 19 ottobre 1862. Ivi, p. 407.

44 Cfr. Vittorio Emanuele a O. Vimercati, 7 dicembre 1862, Id. a G.B. Cassinis,

dicembre 1862, Id. a G. Pasolini, dicembre 1862. VITTORIO EMANUELE, vol. I, rispettivamente p. 750 anche per la citazione fra virgolette, p. 751, p. 754.

generale Della Rovere alla Guerra, il generale Menabrea ai Lavori pubblici, Giuseppe Pisanelli alla Giustizia, Giovanni Ricci alla Marina, Michele Amari all’Istruzione e Giovanni Manna all’Agricoltura, industria e commercio.

Ricasoli sugli uomini con i quali sostituire Rattazzi e i suoi collaboratori aveva detto la sua già durante i difficili giorni d’agosto. Sottolineando all’amico Giovan Battista Giorgini la necessità strategico-politica che si dovesse arrivare alla crisi di governo con una lista di ministri pronta da