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Ricasoli e Minghetti: «per queste maledette regioni»

2 «Io non stimo nulla una Nazione in disordine»: la scelta centralistica

1. Ricasoli e Minghetti: «per queste maledette regioni»

La regione fu la grande questione che determinò la rottura politica fra Ricasoli e Minghetti dopo l’assunzione della presidenza del Consiglio da parte del primo, rottura destinata alla lunga ad avere, come si è accennato, un effetto destabilizzante per il ministero stesso1. Per Minghetti la regione costituiva un ingranaggio sostanziale dell’ordinamento amministrativo al quale stava lavorando. Ricasoli, al contrario, la giudicava inutile e dannosa poiché vi ravvisava la conservazione degli antichi particolarismi. Fra i due lo strappo fu esclusivamente politico poiché, nonostante le acredini momentanee, come scrisse Minghetti nel suo Diario: «si dee separarsi fra amici per diversità d’opinioni, non per intrighi»2. E, infatti, una volta tornato semplice deputato il politico bolognese non si mise a fare opposizione al ministero. Una breve analisi delle divergenze d’opinione fra i due statisti mi pare quanto mai necessaria per delineare la cornice della scelta centralistica maturata da Ricasoli.

1 Sui rapporti fra Ricasoli e Minghetti cfr. il classico lavoro di E. Passerin d’Entréves, La politica nazionale nel giugno-settembre 1861: Ricasoli e Minghetti, «Archivio Storico

Italiano», 1954, I, pp. 210-244. Ora in Id., La formazione dello Stato Unitario, a cura di N. Raponi, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1993, pp. 233-266 da cui si cita. Cfr. anche G. Pansini, Bettino Ricasoli e l’unificazione amministrativa dello Stato

italiano, in Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, vol. I, L’unificazione amministrativa ed i suoi protagonisti, a cura di F.

Benvenuti e G. Miglio, Vicenza, Neri Pozza, 1967, pp. 377-405.

Cfr. anche N. Del Bianco, Marco Minghetti. La difficile unità italiana da Cavour a

Crispi, Milano, Angeli, 2008, pp. 107 e ss.

2 M. Minghetti, Diario, a cura di A. Berselli, «Archivio Storico Italiano», 1955, 3, 19

Partendo dall’inizio bisogna ricordare come Luigi Carlo Farini, assunte le funzioni di ministro dell’Interno il 24 marzo 1860, d’accordo con Cavour, iniziasse a lavorare all’organizzazione amministrativa da conferire al costituendo Regno resa impellente dalle annessioni dell’11-12 marzo3. L’obiettivo che i due uomini si ponevano era il superamento del quadro stabilito dalle leggi emanate nell’autunno del 1859 dal gabinetto La Marmora-Rattazzi in virtù dei pieni poteri concessi all’esecutivo del Regno di Sardegna all’inizio della seconda guerra d’indipendenza nazionale. La legge sull’ordinamento comunale e provinciale n. 3702 del 23 ottobre 1859, in particolare, per la sua natura centralistica aveva suscitato vive proteste nella Camera e nell’opinione pubblica, soprattutto in quella lombarda, visto che il primo scopo di quella legislazione consisteva proprio nel ridisegnare la geografia politico amministrativa del Regno di Sardegna ingrandito dalla Lombardia4. Farini, non piemontese e distintosi fra coloro che avevano guidato la rivoluzione nei territori di recente annessione, propose alla Camera di nominare una «Sezione temporanea» presso il Consiglio di Stato col compito di occuparsi del problema. Nella nota inviata a quest’ultima, Farini sostenne la necessità politica di salvaguardare le «membrature naturali dell’Italia», prime fra tutte le «regioni». Il 31 ottobre 1860 a Farini, inviato a Napoli in qualità di Luogotenente del Re, subentrò Marco Minghetti il quale non mutò la linea del predecessore, anzi sollecitò, anch’egli attraverso una nota, i lavori della commissione che nei primi mesi del 1861 riuscì a portare a termine l’incarico5. Il ministro bolognese, infatti, il 13 marzo di quell’anno, fu in grado di presentare alla Camera quattro disegni di legge: Sulla ripartizione del Regno e sulle autorità governative; Sulla amministrazione comunale e provinciale; Sui consorzi; Sull’amministrazione regionale6. Illustrando all’assemblea la regione,

punto essenziale del suo sistema, Minghetti la presentò come

3 Sul punto cfr. i classici studi di A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell’antico regime al chiudersi dell’età cavouriana (1770-1861), 3 voll., Venezia, Neri

Pozza, 1962 e C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da

Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano, Giuffrè, 1964. Per una bibliografia aggiornata in

materia cfr. i recenti P.L. Ballini, Il Governo dal centro. L’unificazione amministrativa del

regno d’Italia e il dibattito parlamentare sulla legge comunale e provinciale (1861-1865),

Roma, Camera dei Deputati-Archivio Storico, 2015 e E.G. Faraci, L’Unificazione

amministrativa nel Mezzogiorno. Le Luogotenenze da Cavour a Ricasoli, Roma, Carocci,

2015.

4 C. Pavone, Amministrazione centrale, cit., pp. 35 e ss.

5 Sulle idee di Minghetti cfr. in particolare i saggi raccolti in A. Berselli, Studi su federalismo, regionalismo e autonomie (1946-2004), Bologna, Pàtron, 2010.

Un consorzio permanente di provincie, il quale provvede alla istruzione superiore, alle accademie di belle arti, agli archivi storici, e provvede inoltre a quei lavori pubblici che non sono essenzialmente retti dallo Stato, né sono proprii dei consorzi facoltativi, o delle singole provincie7.

Gli uffici della Camera chiamati ad un esame preliminare delle proposte ministeriali nominarono come consuetudine una Commissione presieduta da Sebastiano Tecchio di cui fece parte anche Ricasoli8. Egli, il 16 maggio successivo, seduta inaugurale dei lavori della Commissione, fece mettere a verbale una dichiarazione che ci illumina sul pensiero che era venuto maturando sul problema regionale:

Ricasoli comincia col dichiarare, che essendo egli governatore della Toscana ebbe

a spiegare più volte la sua opinione favorevole a secondari centri governativi, con qual nome si vogliano chiamare. Questa opinione però, che allora era sorta massimamente nel suo animo dalle particolari circostanze del paese da lui governato, presa da lui a esame più ponderato e maturo, si è modificata: ed egli ora si dichiara contrario al sistema della regione, nei due rispetti governativo e

amministrativo.

1°) Il compartimento regionale governativo è sommamente dannoso, tutto quanto è generale nello Stato dee dimanare dal governo centrale. Con questo compartimento, il Prefetto se opera, teme di suscitare la gelosia del governatore; se non opera, è perduta la sua azione pel bene del paese. Il ministro dell’interno, a sua volta, non avendo rapporti diretti colla prefettura, non può conoscere per bene lo spirito de’ suoi prefetti e delle loro provincie. Ora il ministro ha sommamente bisogno di conoscere questi uomini, per distribuirli a seconda delle loro qualità rispettive e de’ particolari bisogni nelle diverse provincie. Né la difficoltà obbiettata di trovare 60 prefetti è maggiori di quella di trovare dieci buoni governatori, ricadendo intiere su questi tutte le responsabilità dei singoli prefetti. Quindi passa all’esame delle regioni amministrative, che respinge del pari9.

A quella data Ricasoli, dunque, aveva già maturato più di una certezza circa l’inopportunità della regione sia dal punto di vista amministrativo, sia

7 Ibidem.

8 I componenti, oltre a Ricasoli e Tecchio, erano: Rodolfo Audinot, Camillo Caracciolo,

Leopoldo Galeotti, Giuseppe Toscanelli, Giovanni Battista Bertini, Paolo Paternostro, Pier Silvestro Leopardi, Pietro Mazza, Agostino Depretis, Giovanni Battista Oytana, Giuseppe Piroli, Luigi Amedeo Melegari, Francesco Borgatti, Francesco De Blasiis, Giuseppe Panattoni, Carlo Poerio, Giuseppe De Vincenzi, Antonio Allievi, Massimiliano Martinelli, Francesco Chiapusso, Raffaele Conforti, Carlo Alfieri, Giovanni Lanza, Giovanni Fabrizi, Michelangelo Tonello.

9 Verbali della Commissione per l’Ordinamento Amministrativo del Regno d’Italia (16

dal punto di vista governativo. Amministrativo perché conferendo alla regione una qualche forma di rappresentanza, anche indiretta, si rischiava di perpetuare gli antichi stati che invece si volevano distruggere. Governativo perché la figura del governatore avrebbe impedito all’esecutivo e un rapporto franco e diretto con i prefetti e, dunque, di avere il polso del Paese. Anche Minghetti registrava nel suo Diario un Ricasoli «assolutamente» contrario alle regioni10. Altri tre toscani della commissione, Galeotti, Fabrizi e Panattoni, intimi i primi due del barone, si dissero contrari alla regione governativa e favorevoli a quella amministrativa. Galeotti, in particolare, avrebbe continuato a battersi in sede pubblicistica per salvare il possibile dei progetti minghettiani, almeno a livello di comuni e province11. L’altro toscano, Giuseppe Toscanelli, invece, era sull’identica posizione di Ricasoli, maggioritaria nella Commissione: nella seduta del 18 maggio, infatti, tutti i componenti si dichiararono all’unanimità contro la regione come ente amministrativo mentre si divisero in 17 voti contrari a fronte di soli 6 favorevoli sulla regione come ente governativo12.

Gli avversari della regione, quindi, costituivano la maggioranza della commissione, una maggioranza che rispecchiava le tendenze generali di una classe dirigente spinta verso l’accentramento dalle sempre più allarmanti notizie circa la capacità di tenere sotto controllo il meridione attraverso il sistema delle Luogotenenze in cui molti scorgevano una specie di regione13. Per citare Audinot non era prioritario «conservare le luogotenenze, né le regioni, ma l’unità d’Italia»14.

Questi voti chiarirono che la questione dell’ordinamento avrebbe richiesto una lunga discussione e, di conseguenza, molto tempo. Per ciò Minghetti il 20 maggio si presentò in Commissione riconoscendo «la

10 M. Minghetti, Diario, 17 maggio 1861, p. 372. Nella lettera a Pasolini dell’8 maggio

1861 Minghetti aveva inserito il barone fra gli antiregionisti. M. Minghetti a G. Pasolini, Torino 8 maggio 1861. MINGHETTI-PASOLINI, III, p. 143. Cfr. anche Id. allo stesso, Torino 27 maggio 1861 in cui si parla di un Ricasoli che fa della «centralizzazione a oltranza». (Ivi, p. 157.

11 Sul pensiero di Galeotti cfr. L. Mannori, L’evoluzione politica di Leopoldo Galeotti dalla Toscana all’Italia, in L. Mannori et al. (a cura di), Nascita di un liberale. Leopoldo Galeotti tra locale e nazionale in una antologia di scritti (1840-1865), Pistoia, Gli Ori,

2013, pp. 9 e ss.

12 Cfr, il verbale della seduta del 18 maggio 1861. Giuseppe Piroli, assente in quella

seduta, manifestò per lettera al presidente la propria contrarietà alle regioni «sotto qualsivoglia aspetto». In P.L. Ballini, Il Governo dal centro, cit., pp. 316-323.

13 Sul punto cfr. E.G. Faraci, L’Unificazione amministrative nel Mezzogiorno, cit., pp.

106 e ss.

14 Cfr, il verbale della seduta del 18 maggio 1861. In P.L. Ballini, Il Governo dal centro,

necessità di provvedimenti urgenti». Chiese, però, che fosse la Commissione stessa a presentarli per far così «salva la dignità del Governo». In particolar modo non voleva essere sconfessato personalmente. Il ministro, posto che non si mutassero le circoscrizioni esistenti, fece sei richieste ‘transitorie’ tra cui: la possibilità di riunire più province sotto uno stesso funzionario, quelle del meridione specialmente; togliere il dualismo fra governatore e vice governatore; aumentare le attribuzioni dei prefetti15.

Nelle discussioni che seguirono Ricasoli, «fermo nel ritener cattivo l’ordinamento regionale», introdusse un altro argomento meritevole di attenzione in quanto avrebbe costituito il tratto caratteristico del suo programma amministrativo. Partendo dalla questione su quanti e quali poteri delegare ai prefetti:

Il deputato Ricasoli dichiara che nella presente questione egli è ben lungi dal portarci quel convincimento che guidò il suo voto nella questione delle Regioni. La questione non può risolversi a norma dei principii ma occorre risolverla colla scorta dei fatti. Constata la mancanza di leggi uniformi amministrative, e governative. Non pensa che le attribuzioni dei Prefetti possano allargarsi oltre certi limiti, senza portare l’anarchia dello Stato. Quindi questo mezzo non basta. La questione secondo egli pensa consiste nel determinare se sopprimendo la Luogotenenza delle Province tutti gli affari possono trasportarsi subito al Governo Centrale, senza nulla d’intermedio. Si preoccupa di tutta quella mole di affari che ora dalle province vanno a Napoli. Intende che alcuni possano darsi alle autorità locali, ma dubita che gli altri possano d’un salto condursi a Torino, poiché grande disturbo ne verrebbe in tal guisa agli interessi. Il pericolo in tal guisa cessa quando la unificazione sia compiuta. Se la Luogotenenza dovesse durare in vita la difficoltà cessa. La difficoltà nasce se la Luogotenenza deva sopprimersi16.

Questo intervento mette in luce due dati fondamentali del pensiero ricasoliano: la chiarezza della catena di comando, architrave portante dello Stato; i problemi legati alla soppressione dei governi speciali e il passaggio di tutte le competenze a Torino. Pur con dei dubbi, il barone iniziava a mettere a luce il percorso che di lì a poco tempo avrebbe visto come l’unica via da percorrere. Minghetti, il 27 maggio, avrebbe ritirato l’idea di raggruppare più province sotto lo stesso funzionario17. Tuttavia, qui non mi pare interessante seguire tutta la discussione della commissione, ma sottolineare il ruolo di Ricasoli che ne rimase membro fino a quando il Re non lo chiamò a presiedere il Consiglio dei ministri. Fu in quel contesto,

15 Cfr. verbale 20 maggio 1861. In. Ivi, pp. 324-325. Cfr. ACS, VCM, 20 maggio 1861. 16 Cfr. verbale 24 maggio 1861. In. P.L. Ballini, Il Governo dal centro, cit., p. 337. 17 Cfr. verbale 27 maggio 1861. Ivi, pp. 342-345.

infatti, che nel barone maturò l’esigenza di centralizzare l’amministrazione e di iniziare a pensare l’organizzazione dello stato in termini non più transitori al fine di chiarire in modo netto la catena di comando e il ruolo del governo.

Ricasoli, quindi, rappresenta il caso esemplare di evoluzione verso il centralismo visto come strumento di tutela dell’Unità18. Nei mesi precedenti, infatti, aveva guardato con favore all’idea di regione nella quale aveva visto il contenitore adatto per salvaguardare le tradizioni amministrative degli antichi stati e gli esperimenti portati avanti dai governi provvisori al fine di offrire dei modelli comparativi ai deputati del Parlamento nazionale chiamati ad elaborare un nuovo sistema italiano, non basato per forza su quello piemontese. Lui stesso durante il governo della Toscana aveva sovrinteso il varo di un modello di amministrazione che voleva da un lato compiere le riforme sul governo locale rimaste inattuate o rivisitate in senso restrittivo dal Granduca e dall’altro costruire un esempio alternativo a quello piemontese19. Nella sua visione la Toscana doveva mettere a disposizione della causa nazionale «l’antica sua civiltà» e nella fattispecie la sua tradizione municipale. Il Comune, che rappresentava una delle pietre angolari dell’autorappresentazione del ceto nobiliare toscano, doveva diventare il propagatore di un ordinato e disciplinato processo di «formazione della nazionalità». Già il 17 maggio 1859, quindi, Ricasoli annunciò al Consiglio di Stato, ricostituito da un decreto del giorno prima20, che era sua «intenzione di rimettere in vigore il Regolamento Comunale del 1849». A suo avviso, infatti, non si poteva seriamente intraprendere nessuna riforma delle amministrazioni pubbliche se prima non si metteva mano alle «rappresentanze municipali». L’attenzione per il governo locale mostrata dai liberali toscani intendeva recuperare e portare a compimento quel percorso riformatore iniziato nel XVIII secolo da Pietro Leopoldo che avrebbe dovuto fare della Comunità il tassello basilare di una rappresentanza politica da affidare ai contribuenti fondiari. Disegno, quello leopoldino, ‘tradito’ da Leopoldo II che con le sue tendenze burocratiche ed

18 Cfr. F. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 8. 19 Cfr. G. Pansini, L’inserimento della Toscana nello Stato unitario, in AA.VV., La Toscana nell’Italia unita. Aspetti e momenti di storia toscana, Firenze, Unione regionale

delle province toscane, 1962, pp. 13-57.

20 Con legge del 22 luglio 1852, Leopoldo II aveva ridisegnato le funzioni del Consiglio

di Stato snaturandolo rispetto al provvedimento che il 15 marzo 1848 lo aveva istituito. Il governo provvisorio con decreto del 16 maggio 1859 lo ricondusse alle sue iniziali funzioni. AGT, I, pp. 104-105.

accentratrici voleva soffocare quell’isola di autogoverno costituita dal Municipio21.

Non fu, quindi, un caso che Ricasoli si spendesse a fondo per la riforma delle amministrazioni municipali che furono configurate su tre livelli: la Comunità, il Distretto e il Compartimento. Gli aventi diritto al voto locale eleggevano il Consiglio della Comunità, questo eleggeva il proprio rappresentante presso il Consiglio distrettuale il quale, a sua volta, provvedeva a designare i componenti che la legge gli assegnava presso il Consiglio compartimentale22. Gli elettori, quindi, intervenivano solo sul primo livello, ossia quello che agli occhi del barone costituiva il vero elemento di autonomia con il prefetto, figura istituita in Toscana nel 1848, che doveva sorvegliarne il buon funzionamento e fare da cerniera tra il locale e il centrale.

Il prefetto – scriveva il barone nel gennaio 1860 – dev’esser nel mio concetto l’autorità conciliatrice degli interessi comunali cogli interessi dello Stato, sulla norma imparziale della legge. Questa autorità deve tornare accetta agli stessi amministrati, quando sia esercitata per il bene di tutti, e senza alcuno spirito di sindacato che trascenda le proprie competenze23.

Ho voluto ricordare brevemente l’esperienza toscana di Ricasoli poiché essa dimostra come egli fosse ben consapevole dell’importanza soprattutto pratica delle questioni sul tavolo della Commissione Tecchio. Il barone inizialmente vide nella proposta regionale Farini-Minghetti il contenitore ideale per difendere e ribadire la specificità toscana e mettere il nuovo

21 Cfr. L. Mannori, Da “periferia” a “centro”. I toscani e le leggi di unificazione, in 1865. Questioni nazionali e questioni locali nell’anno di Firenze capitale, a cura di S.

Rogari, Firenze, Polistampa, 2016, p. 39.

22 Con decreto del 4 settembre 1859, Ricasoli reintrodusse il principio elettivo. Tuttavia,

il problema era molto più complesso e non si poteva risolvere solo con quest’ultimo provvedimento. Il vecchio regolamento del 1849 da solo, infatti, non era sufficiente poiché non si poteva fare a meno di alcuni miglioramenti introdotti durante la seconda restaurazione. Il documento in cui l’allora capo del governo toscano esprimeva al presidente del Consiglio di stato queste problematiche portava la data del 23 novembre 1859 (cfr. AGT, III, pp. 84-86), particolare da tener in considerazione poiché giusto un mese prima, il 23 ottobre era entrata in vigore la legge n. 3702 sull’ordinamento comunale e provinciale del Regno di Sardegna, meglio nota come legge Rattazzi. Il 31 dicembre 1859 fu pubblicato il Regolamento comunale nuovo (cfr. AGT, IV, pp. 40-44) e il 20 gennaio 1860, finalmente, fu pubblicato lo Statuto Albertino, «con la riserva di quelle istituzioni particolari che ne accresceranno i vantaggi, conservando i benefizi di libere tradizioni» (cfr. AGT, IV, p. 128). Il 14 febbraio 1860, infine, venne pubblicata l’approvazione provvisoria del regolamento sui Consigli distrettuali e compartimentali (Ivi, pp. 309-314).

sistema alla prova dei fatti per dimostrare al Parlamento italiano che la via costruita a Firenze era migliore rispetto a quella contemporaneamente varata in Piemonte da Rattazzi24.

Perché quando il Parlamento nazionale discuterà le Leggi per il nuovo Regno Italico, se il nostro Regolamento avrà fatto buona prova ed acquistato autorità, potremo sperare che molti retti principii e savie politiche in esso sancite, vengano trasfuse nelle nuove Leggi comuni alle Province del Regno Unito. Così la Toscana darà contributo degno della sua civiltà al regno nazionale, né sarà vana opera quella che per noi si tenta in queste nostre condizioni transitorie, di preparare materiali buoni ad inalzare il grande edificio di un Regno Italico fondato sopra istituzioni dedotte dai bisogni e dalle tradizioni delle province chiamate a comporlo. Quando le parti di una nazione si uniscono insieme non per violenza di conquista ma per spontaneo accordo, e coll’ispirazione della libertà, non vi è provincia principe, non vi sono province soggette, ma tutte insieme concorrono a darsi quelle Leggi che debbono costituire la nazione ed avviarla ai suoi futuri destini25.

Ricasoli, quindi, aveva maturato esperienza ed idee circa il problema dell’ordinamento amministrativo e già riteneva la Comunità, o il Comune che dir si voglia, il nucleo dell’autonomia amministrativa locale mentre riteneva la figura del prefetto il trait-d’union necessario tra centro e periferia. Quella concepita sotto la sorveglianza del barone era una macchina che poteva funzionare a prescindere dalla regione e dal governatore, ma non dal prefetto, figura con la quale in quei mesi egli si abituò a tenere sotto controllo il territorio dell’ex Granducato durante la delicata fase della transizione unitaria.

La svolta antiregionista e centralistica di Ricasoli deve essere inquadrata nella «nazionalizzazione politica» del barone, cioè nel passaggio da Firenze a Torino, momento in cui maturò una visione unitaria anche nelle questioni di organizzazione statuale che gli fece abbandonare ogni idea di livello intermedio fra locale e nazionale26. Lui stesso, mesi dopo, sarebbe tornato sul suo trascorso regionalista indicando proprio nell’esperienza «della fisiologia degli affari» la scintilla che lo aveva portato a mutare d’avviso.

Confesso – ammetteva di fronte alla Camera dei Deputati – d’essere stato per un tempo amico io pure del sistema regionale, ma portataci sopra una meditazione più profonda, più compiuta, e rendendomi meglio conto, dirò, della fisiologia degli

24 L. Mannori, Da “periferia” a “centro”, cit., p. 40.

25 Circolare ai Gonfalonieri della Toscana sul Regolamento Comunale, Firenze 27

gennaio 1860. In AGT, IV, pp. 329-330.