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Ricasoli ministro dell’Interno: «l’abolizione assoluta del provvisorio»

2 «Io non stimo nulla una Nazione in disordine»: la scelta centralistica

3. Ricasoli ministro dell’Interno: «l’abolizione assoluta del provvisorio»

Concordata l’uscita di Minghetti dal gabinetto, Ricasoli poteva, quindi, affrontare subito tre grandi nodi che così riassumeva:

a) Organizzare il Governo del Regno componendo il congegno di ogni Ministero per modo che dal Ministro gli affari, che gli sono propri, per la via più pronta ed efficace si diramino alle periferie del suo Ministero e viceversa.

b) Studiare e comporre quelle leggi organiche così necessarie a costituire il diritto pubblico del nuovo Regno, e le quali dovranno presentarsi allo studio del Parlamento alla sua prossima riapertura.

c) comporre il bilancio di previsione del nuovo Regno in tempo utile allo studio del Parlamento108.

Il primo punto traduceva la volontà di porre un termine ai diversi sistemi provvisori che reggevano le varie province del Regno al fine di porle tutte sotto l’immediata autorità del Governo attraverso un sistema ordinato, uniforme e, soprattutto, ordinario. Solo così il potere esecutivo poteva assolvere al suo compito principale, ossia garantire la tenuta dello Stato.

Ricasoli, come spiegava egli stesso nel secondo punto, non aveva l’intenzione di varare il nuovo ordinamento amministrativo generale per decreto poiché questo compito spettava al Parlamento. Convinto che in quel frangente non vi fosse tempo per le lunghe ed ampie discussioni connesse ad un tema così importante – aveva già avuto modo di sperimentarle in occasione della presentazione dei progetti Minghetti – credeva, però, dovere dell’esecutivo intervenire in materia dando un indirizzo chiaro al problema. Sempre nella stessa lettera spiegava a Nigra che «l’ordinamento nuovo non poteva essere né quel di Piemonte, né quel di Toscana», entrambi «aventi il carattere di ordinamento adattato a piccolo stato, e così disadatto al tempo presente ed a un Regno grande». Occorreva, tuttavia, fissare alcuni punti fermi poiché «uno stato che non abbia la pubblica amministrazione spedita e forte, è un miserabile Stato»109.

Infine, terzo punto, non si poteva dimenticare il problema del bilancio di previsione. Era, infatti, dovere dell’esecutivo impegnare il Parlamento su quella che era una delle sue principali prerogative, ossia il controllo della gestione finanziaria anche perché nei mesi precedenti il ministro delle

108 B.R. a C. Nigra, Torino 3 agosto 1861. XVII, p. 350. 109 Ivi, p. 351 per tutte le citazioni tra «».

Finanze Bastogi aveva esplicato una grande attività al fine di creare un mercato nazionale110.

Il 1 settembre 1861, quindi, il barone assunse personalmente la direzione del ministero degli Interni poiché riteneva che un suo «rifiuto poteva dar luogo ad una crisi ministeriale, terribile in questo momento»111. In realtà, non voleva rimarcare la grande difficoltà incontrata nel trovare un successore al politico bolognese. I sondaggi effettuati dal barone all’interno della maggioranza, infatti, si erano rivelati infruttuosi tanto da risolverlo a lasciare il ministero incompleto. Egli mantenne ad interim anche il ministero degli Esteri, facendo così presagire la possibilità di affidarli ad altre mani in tempi ragionevoli. Lasciò, invece, il ministero della Guerra al generale Della Rovere fatto finalmente rientrare dalla Sicilia. Da quel momento, dunque, nelle mani di Ricasoli si concentrò un potere enorme controllando egli direttamente, oltre alla presidenza, due dicasteri strategici come gli interni e gli esteri. Si tenga conto che i problemi in cima all’agenda di governo erano l’organizzazione amministrativa del Regno e il completamento dell’Unità, ossia una questione interna ed una internazionale. Questo punto va sottolineato non perché lo statista toscano coltivasse disegni dittatoriali quanto perché da quel momento questi due piani si integrarono nella stessa persona.

Negli ambienti ricasoliani l’avvicendamento agli interni fu ben visto. «Grazie a Dio voi avete preso l’Interno che ha gran bisogno d’una volontà e d’un braccio energico come il vostro» si felicitava un Giovan Pietro Vieusseux certo che «tutti i ben pensanti se ne rallegrano»112; Sansone D’Ancona si congratulava con l’amico per l’«abnegazione» dimostrata prendendo direttamente le redini della «questione interna», ormai «questione capitale»113. Toscani furono anche gli uomini che il barone chiamò presso di sé per affiancarlo. Celestino Bianchi venne chiamato nell’agosto. Dopo fu la volta di Marco Tabarrini il quale, da consigliere di Stato, si era occupato della stesura della legislazione amministrativa toscana varata dal governo provvisorio114. Con questi collaboratori di fiducia Ricasoli voleva costituire la sua «provata officina, con cui io possa quasi improvvisare il nuovo sistema»115.

110 Cfr. S. Cassese, Governare gli italiani, cit., pp. 56 ss. 111 B.R. a U. Peruzzi, Torino 2 settembre 1861. XVIII, p. 19. 112 G.P. Vieusseux a B.R., Firenze 3 settembre 1861. Ivi, p. 44. 113 S. D’Ancona a B.R., Firenze 5 settembre 1861. Ivi, p. 56.

114 Sulla collaborazione fra i due cfr. almeno ASFi, Carte Tabarrini, f. 31 ins. 3 e f. 34,

ins. 6.

Il passaggio formale che segnò il nuovo corso in politica interna fu il Regio Decreto n. 271 del 9 ottobre 1861. Esso, a far data dal 1 novembre successivo, abolì la luogotenenza generale per le province napoletane e il governo delle province toscane116. Lo stesso giorno furono emanati altri due decreti degni di nota: il n. 250 e il 251. Il primo stabiliva che, come era già in uso in Toscana, i governatori e gli intendenti generali si sarebbero chiamati prefetti e gl’intendenti di circondario, sotto-prefetti. I consiglieri di governo e d’intendenza sarebbero divenuti consiglieri di prefettura117. Il secondo invece delegava ai prefetti alcune attribuzioni, quelle per cui non era necessario un regio decreto, del ministro dell’Interno. Sostanzialmente si dava al prefetto un largo potere di nomina e di controllo sui propri impiegati, sulla bassa forza delle guardie di pubblica sicurezza e su vari enti provinciali quali, ad esempio, le opere pie e gli ospizi118. Il prefetto, quindi, iniziava configurarsi come il rappresentante del ministro dell’Interno col quale, secondo le istruzioni di Ricasoli, doveva rimanere in stretto contatto così da «porlo in grado di provvedere con celerità e solerzia a tutte le emergenze del pubblico servizio»119.

Un altro decreto del 9 ottobre riformava il ministero dell’Interno, come diceva la relazione di accompagnamento, «al doppio fine di porre in armonia la costituzione del ministero stesso e le nuove leggi, e di ottenere maggiore speditezza e regolarità nel disbrigo degli affari»120. In particolare, Ricasoli sopprimeva la figura del segretario generale al fine di dare stabilità e continuità all’amministrazione del ministero in oggetto perché,

tutte le volte che le vicissitudini della vita politica e parlamentare inducono un cambiamento ministeriale, è passato in costume che il segretario generale segua le sorti del ministro; e come nel sistema presente tutte le competenze e tutti gli affari vengono a concentrarsi nel segretario generale, così la sua dimissione verificandosi simultaneamente a quella del ministro porta una interruzione o per lo meno una pericolosa incertezza nel disbrigo degli affari pubblici121.

116 Per il testo cfr. C. Pavone, doc. n. 46, pp. 492-493. Si utilizzò il Regio Decreto

perché questi istituti erano stati creati con quella forma e dunque il ministero era in diritto di deciderne le sorti senza bisogno di una legge. Cfr. Rapporto al Consiglio dei ministri. ASFi,

Ricasoli. Carteggio A/II-Z/II, cass. E/II, ins. 48.

117 Il decreto divideva i prefetti in tre classi stipendiali (10 mila, 9 mila 8 mila lire), i

sotto-prefetti in due (5 mila e 4 mila lire) e i consiglieri di prefettura in tre (5 mila, 4 mila, 3 mila lire). Per il testo cfr. C. Pavone, pp. 494-496.

118 Per la lista completa cfr. il decreto stesso in C. Pavone, pp. 496-499. 119 Cfr. il regolamento in ivi, pp. 507-509, p. 507 per la citazione.

120 Cfr. il testo del decreto in ivi, p. 499. Per il regolamento e la struttura del ministero

cfr. ivi, pp. 501-506.

Il decreto, dunque, istituiva quattro direzioni generali (centrale, contabilità, personale, carceri), articolate in divisioni. I direttori generali avrebbero avuto facoltà di firmare e risolvere gli affari di minore importanza senza ingolfare così la scrivania del ministro al quale, invece, andavano sottoposte le questioni di maggior gravità. Il ministro, coadiuvato da un gabinetto particolare senza specifiche attribuzioni, dalle riunioni singolari o collettive con i direttori generali avrebbe potuto così «conoscere più a fondo l’andamento delle cose, ma ancora di prendere una parte più efficace alle finali risoluzioni»122. Si trattava, nelle intenzioni ricasoliane, di un modello organizzativo da estendere anche agli altri ministeri nell’ambito di una organica riforma delle amministrazioni centrali123.

Questi i provvedimenti che segnarono la svolta in senso centralista nell’organizzazione amministrativa del regno, una svolta che Ricasoli avrebbe ribadito di fronte alla Camera.

Già voi conoscete che il principio che predomina nel Governo attualmente è il principio d’unificazione. Sì, o signori, io sono lieto di cogliere quest’occasione per dirvi che io credo non vi sia altra salute che nell’arrivare sollecitamente ad unificare tutti quanti i nostri ordini amministrativi e legislativi; che convenga anzi, per arrivarvi più presto, passar sopra al desiderio dell’ottimo, contentarsi del buono, e andar avanti riserbando il miglioramento a tempi più calmi, quando l’esperienza l’avrà anche additato. […] Senza centralità al governo degli atti politici, ed anco direi degli amministrativi in quella parte che spetta al Governo di provvedere, non vi può essere risultato utile nei pubblici servigi, non vi può essere neppure responsabilità124.

Come spiegava al generale Alfonso La Marmora, prefetto di Napoli e comandante militare del napoletano:

Io non stimo nulla una Nazione in disordine! Quale autorità può mai avere un governo di una Nazione scompigliata? Può nemmeno dirsi un Governo? Perciò appunto ho a cuore che il Paese si riordini e si appacifichi, che si condensi, che si

consolidi, e che il Governo giunga a tenere, per dir così, il paese nelle mani125.

L’ordine era una delle caratteristiche fondamentali per definire una «Nazione». L’unico garante possibile di quest’ordine doveva essere il Governo in prima persona. Il centralismo ricasoliano, dunque, aveva come

122 Ivi, p. 500.

123 ACS, VCM, 14 ottobre 1861. 124 APCD, tornata del 6 dicembre 1861.

primo scopo fare del Governo l’unico centro d’impulso per tutto il Regno, l’autorità chiamata a custodire l’Unità politica dello Stato e del processo decisionale.

Non ci si poteva fermare solo alla proiezione periferica dell’autorità centrale, in particolare quella del ministero degli Interni, poiché anche le province e i comuni dovevano ricevere una fisionomia normativa comune. Il 22 dicembre 1861, quindi, Ricasoli presentò alla Camera un progetto in 16 articoli per modificare ed estendere così a tutto il Regno la normativa comunale e provinciale sarda del 23 ottobre 1859, meglio nota come legge Rattazzi126. Quest’idea era già stata discussa nella Commissione per l’analisi dei progetti Minghetti. Il barone stesso sul punto era intervenuto sostenendo che

[…] tutta Italia ha la legge provinciale e comunale del ’59 meno la Toscana. […] Sarebbe forse spediente, per ovviare a tale inconveniente, modificati alcuni articoli più viziosi nella legge del ’59, stendere questa stessa legge eziandio alla Toscana127.

Ricasoli, quindi, si dimostrò pragmatico al fine di poter contare su «una legge d’amministrazione civile pronta ed accettabile e di non assoggettare le provincie a nuove e radicali mutazioni»128. La legge Rattazzi era già in vigore ovunque nel Regno tranne che in Toscana, così gli parve lo strumento meno traumatico e più immediato per completare il percorso iniziato con i decreti di ottobre che avevano riguardato la proiezione periferica del potere esecutivo. Per garantire quest’ultima, vitale, funzione del governo era pronto a sacrificare il modello toscano elaborato all’indomani del 27 aprile 1859. Era, infatti, «mestieri che la provincia ed il comune si costituiscano in tutto il Regno sui medesimi principii e si avviino allo stesso alito di libertà». Il presidente del Consiglio voleva, infatti, completare l’opera per venire incontro alla «necessità suprema il fondare l’unità amministrativa dello Stato» al fine di consolidare l’«unità politica della nazione».

Nell’occasione il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno proponeva alcune modificazioni distribuite in 16 articoli. Suggestivo era l’articolo 2 che mutava, seguendo la tradizione toscana, la denominazione di «sindaco» in «gonfaloniere» e in «priori» quella di «assessori». Come

126 Pubblicato in P.L. Ballini, Il Governo dal centro, cit., pp. 419-424. 127 Verbale 25 maggio 1861. Ivi, p. 342.

128 Relazione sul progetto di legge: modificazioni alla legge 23 ottobre 1859

sull’amministrazione comunale e provinciale e applicazione della medesima a tutto il Regno. In P.L. Ballini, Il Governo dal centro, cit., p. 419.

aveva fatto imponendo «prefetto» e «sottoprefetto», Ricasoli voleva forse controbilanciare, almeno da un punto di vista linguistico, la sostanziale piemontesizzazione che stava varando. Sicuramente più importante era l’articolo 4 che assegnava al prefetto, coadiuvato dal consiglio di prefettura, la sorveglianza sulle elezioni municipali, sull’amministrazione e sulla tutela dei comuni, togliendo queste competenze alle deputazioni provinciali previste dalla legge Rattazzi. Nella Relazione introduttiva, Ricasoli spiegava questa diposizione che poteva apparire illiberale poiché affidava al rappresentante del governo, il prefetto, funzioni prima svolte da un organo elettivo, la deputazione affermando che

La libertà, peraltro, non consiste, a mio avviso, nello spogliare il Governo di tutto che tende a rendere la sua azione conforme al fine per cui è stabilito, né nel confondere le giurisdizioni dei diversi poteri dello Stato. La libertà in un regime costituzionale ha ben altre garanzie, e non guadagna da questi sterili conflitti. Un provvedimento di convenienza amministrativa, se è consigliato dalla ragione, non sembra che possa contraddirsi per ciò solo che tende a restringere le competenze di un corpo elettivo129.

Vi era poi un’argomentazione tecnica a sostegno di questa misura: con i provvedimenti della legge che si proponeva di adottare le province sarebbero state dotate di una loro amministrazione e la giunta provinciale sarebbe stata chiamata, in quanto organo esecutivo, a curare l’applicazione delle delibere del consiglio provinciale. Non pareva opportuno, dunque, assegnare a questi organismi un ruolo di tutela nei confronti dei comuni.

Ricasoli, infine, proponeva l’abolizione dell’articolo 241 della legge Rattazzi che aveva messo le spese obbligatorie delle province a carico dello stato togliendo ogni possibilità di gestione finanziaria autonoma a quell’ente. L’articolo 5 del progetto, dunque, metteva a carico dei bilanci provinciali le spese obbligatorie per: le strade classificate come provinciali; le scuole d’istruzione secondaria non riservate allo Stato; i locali delle prefetture, delle sotto prefetture e dei tribunali collegiali di prima istanza; il mantenimento dei «maniaci poveri». In Toscana, in Emilia, nelle Marche, in Umbria e nelle «provincie siculo-napolitane» l’art. 241 della legge Rattazzi era già stato abolito dai provvedimenti dei governi provvisori. Anche in questo campo, dunque, Ricasoli si adattava in modo pragmatico alla situazione esistente. Inoltre, lui stesso, da buon toscano, credeva fosse la gestione del bilancio che gli competeva a rendere libero un ente e da questo bisognava partire per creare un sistema di ordinate autonomie locali. Compito dello Stato sollecitarne e facilitarne la vita, aiutando quelle che

«per trovarsi in poco ubertosi territorii e per aver bisogni superiori alle loro rendite, male potrebbero sopperirvi abbandonate a se stesse». Così «senza assumere troppo grande ingerenza nell’amministrazione provinciale, lo Stato soddisferebbe in uno alla libertà ed alla libertà ed alla giustizia», lasciando al Parlamento il compito di predisporre gli strumenti di aiuto finanziario con «sussidi straordinarii» da inserire nella legge di bilancio.

Nella Relazione Ricasoli, infatti, era tornato sulle sue convinzioni circa le cornici di autonomia conciliabili con l’esigenza di consolidare lo Stato unitario e il governo centrale. Come aveva già affermato nel discorso del 1 luglio 1861, a suo parere la provincia e il comune rappresentavano la tradizione italiana in fatto di governo locale e su questa bisognava lavorare senza introdurre novità che non fossero una messa a punto della legislazione Rattazzi. Bisognava, affermava nella Relazione, «fare delle libertà comunali e provinciali il fondamento del regime costituzionale»130. Il progetto Ricasoli fu profondamente emendato dalla Commissione incaricata di vagliarlo e non fu mai discusso in aula poiché in quel momento il barone non presiedeva più il Consiglio dei ministri.

La scelta centralistica fu sicuramente la decisione più importante assunta dal primo governo Ricasoli poiché segnò sul lungo periodo l’organizzazione amministrativa del nascente Stato italiano131. Per Ricasoli il centralismo era l’unica soluzione che avrebbe permesso al governo di guidare in prima persona l’uscita dalla transizione rivoluzionaria 1859- 1861 e introdurre il paese nella stagione della vita unitaria. Una vita unitaria che in molte parti della penisola andava sollecitata dall’esecutivo stesso che nella periferia doveva avere la sicurezza di essere ubbidito da funzionari la cui iniziativa individuale era limitata o, comunque, controllabile dal centro. Cosa che luogotenenti e governatori conducendo spesso politiche opposte e dannose in termini di consenso per il ministero non avevano sufficientemente garantito. In quest’ottica si può comprendere come Ricasoli avesse scorto anche nei governatori regionali prefigurati da Minghetti un pericolo. Essi, infatti, si sarebbero comportati come i luogotenenti, privando il governo del sicuro controllo delle province a loro sottoposte. E, ripeto, nessuno meglio dell’antico capo del governo toscano sapeva fin dove poteva arrivare un governatore forte del consenso dei suoi ‘governati’.

Forte delle convinzioni maturate nei primi giorni da presidente del Consiglio, il barone Ricasoli, quindi, decise consapevolmente di imboccare

130 Ivi, p. 420.

131 Cfr. R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall'Unita a oggi, Roma,

la via centralistica. I classici della storiografia su questi temi, con sfumature diverse, si sono generalmente trovati d’accordo nel criticare questa proposta politica ricasoliana contrapponendola a quella minghettiana, ritenuta migliore, di più largo respiro e sul lungo periodo maggiormente efficace nel garantire l’unità e la solidità dello Stato. Insomma ha prevalso la linea dei demeriti dello statista toscano132. Ettore Passerin d’Entrèves, ad esempio, ha parlato per Ricasoli di «una tendenza a semplificare o addirittura a ignorare certi problemi amministrativi»133. Quest’ultimo punto lo aveva ammesso Ricasoli stesso rifiutando il ruolo di relatore nella Commissione sui progetti Minghetti. La vicenda dimostrava sempre secondo Passerin d’Entrèves l’«impolitica durezza» dello statista toscano la cui fierezza si rivelava «una virtù monca ed infruttuosa, che trovava il suo limite in una sorta d’insocievolezza, d’indifferenza orgogliosa di ogni contraddizione»134. Su questi tratti caratteriali avrò occasione di tornare più avanti, ma non credo che essi costituiscano il nodo fondamentale per comprendere il centralismo ricasoliano. Ma Passerin solleva un altro punto interessante: secondo lo storico valdostano infatti Ricasoli «trasforma, impulsivamente la linea politica dettata dall’urgenza delle circostanze in una stabile necessità di centralizzazione, e svisa in pieno le intenzioni ed i programmi dei cosiddetti regionalisti alla Minghetti, lontanissimi dall’indulgere a compromessi con qualsiasi tendenza autonomistica, con qualsiasi federalismo interno, soprattutto di fronte alla pressione della maggioranza del partito moderato, anzi di tutta la classe politica liberale, sempre più restia come si è detto, a concedere troppo alle forze centrifughe, minaccianti la fragile unità del nuovo regno»135. Un Ricasoli che «svisa» insomma. La questione, tuttavia, non sta solo nella contrapposizione fra centralismo e regionalismo. Quello che veramente premeva al barone era in primo luogo uscire dal provvisorio in modo netto, non stimando quello il momento adatto per tentare nuove strade transitorie come voleva fare Minghetti. Questo fu dirimente per il politico fiorentino, sempre più preoccupato che le discussioni allungassero i tempi di risposta alla domanda che l’Europa poneva incessantemente, soprattutto dopo la morte di Cavour, alla classe politica di governo: siete in grado di amministrare il Regno senza ricorrere alla forza? Bettino Ricasoli si dipingeva, ed era, un uomo d’azione, alieno da quella mentalità cavillosa che gli pareva incarnare proprio Minghetti di cui apprezzava le qualità,

132 Cfr. A. Aquarone, La visione dello Stato, cit., p. 49. 133 E. Passerin d’Entrèves, La politica nazionale, cit., p. 256. 134 Ivi, p. 235.

altrimenti non lo avrebbe pregato di rimanere ministro dell’Interno. Sperava, semplicemente, di guadagnarlo alla sua linea accentratrice. Ma non fu Ricasoli l’uccisore di ogni idea di autonomia regionale nella storia d’Italia. Più che a questo presunto demerito dello statista toscano bisognerebbe guardare a quello che era il suo scopo dichiarato cioè salvaguardare l’Unità in un momento storico in cui questa era tutt’altro che scontata.

Forse queste ricerche risentivano anche in una qualche misura di quel