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Il Re e Rattazzi: «una congrega di Palazzo […] codarda e intrigante per ambizione e per interesse»

3 «Io non sono del mestiere, e perciò mi è accaduto quello che mi è accaduto»: la caduta d

1. Il Re e Rattazzi: «una congrega di Palazzo […] codarda e intrigante per ambizione e per interesse»

Il dibattito parlamentare del dicembre 1861 oltre a mettere in luce l’inesperienza e la debolezza parlamentare di Ricasoli, vide finalmente emergere dall’ombra il programma politico di Urbano Rattazzi. Egli nel suo discorso del 4, nonostante avesse dichiarato fin dall’inizio, di non voler «gettare un biasimo sugli uomini onorandi che seggono nei Consigli della Corona», in realtà non risparmiò le critiche all’operato del gabinetto. In primo luogo rimproverò la condotta su Roma e le aspettative che intorno ad esse il ministero aveva poco prudentemente suscitato:

Queste voci, signori, quando non hanno fondamento alcuno, sono sempre funeste, perché creano illusioni e speranze, che, quando scompaiono, lasciano il malcontento, tengono gli animi incerti e sospesi, e li distolgono dall’occuparsi di cose sovra le quali più efficace può essere l’opera del cittadino1.

E questo fu un punto. Successivamente Rattazzi affrontò i rapporti con la Francia sottolineando come Napoleone III avesse ragione ad usare molta prudenza nella questione romana. A differenza dell’impaziente Ricasoli, il presidente della Camera aveva compreso le ragioni di politica interna che guidavano l’Imperatore e si offriva quale interlocutore ideale respingendo in pari tempo l’accusa di essersi trasformato, visto il suo recente viaggio, in docile strumento di Parigi. Era la sua grande esperienza politica («io conto

quattordici anni di vita politica»2), un’esperienza che il barone non poteva assolutamente vantare, a dettargli le considerazioni che veniva facendo. Rattazzi, dunque, cercò di proporsi nelle vesti dell’uomo competente per esperienza a guidare il Paese e consapevole di dover rispettare, senza forzarli, gli equilibri fra il Parlamento e la Corona. Fissati questi punti la Camera ascoltò il programma dell’oratore, programma che nei nodi generali (completamento dell’unità, politica estera, riordino delle amministrazioni, bilancio) non si discostava molto da quello ricasoliano. Rattazzi, però, poneva maggiormente l’accento sulle questioni interne alle quali l’Europa guardava con interesse poiché costituivano il banco di prova per dimostrare la solidità del nuovo Stato. In particolare andava curata la scelta degli uomini e sottolineando questo criticava neppur troppo velatamente Ricasoli che, come si è visto, si era più volte scontrato con i Luogotenenti. Su questo punto Rattazzi fece una chiara apertura a sinistra, con la quale era in buoni rapporti politici.

[…] il Governo deve pur valersi di tutte indistintamente le forze attive della nazione; deve valersi di tutti gli uomini, a qualunque partito appartengano. Certo, o signori, io non intendo di dire che il Ministro debba rivolgersi agli uomini che sognano il passato col ritorno delle antiche dinastie, ed avversano l’unità italiana sotto il pretesto della religione. […] Ma, mentre credo che non deve valersi degli uomini i quali avversano l’unità italiana o non la vogliono colla bandiera della Monarchia e della Casa di Savoia, altrettanto io dico, il Governo deve, senza distinzione di partito, sena tener conto di diversità di opinioni in questioni più o meno secondarie, valersi indistintamente di tutti coloro i quali sinceramente accettarono l’Unità nazionale colla bandiera della Monarchia e della Casa di Savoia3.

Il presidente della Camera, dunque, tendeva una mano a quel partito d’azione visto sempre con sospetto da Ricasoli4. Rattazzi, va evidenziato, non apparteneva alla destra cavouriana, ma era a capo di un proprio schieramento, il cosiddetto terzo partito, non sufficientemente forte e numeroso da garantirgli una maggioranza alla Camera. Da qui la necessità di cercare consensi a sinistra, senza però rompere con la destra. Votò, infatti, a favore dell’ordine del giorno Conforti-Bon Compagni che, come già osservato, pur venendo da ambienti favorevoli al ministero, non chiedeva un netto ed inequivocabile voto di fiducia a Ricasoli. Consapevole

2 Ibidem. 3 Ibidem.

4 Cfr. E Morelli, Ricasoli e la sinistra rivoluzionaria, in Ricasoli e il suo tempo, a cura

di queste sue debolezze ‘numeriche’ in fatto di consenso, Rattazzi lavorò costantemente per evitare un precipitare della crisi affinché il ministero in carica si esaurisse da solo.

Lo stesso 4 dicembre, giorno dell’intervento di Rattazzi, il barone pensò alle dimissioni ormai persuaso che «degl’intriganti e della gente senza convinzione» stessero lavorando al fine di costringerlo ad accordarsi con Rattazzi, uomo «che vive nell’intrigo e nella cospirazione». Non gli sfuggiva, infatti, che conferendo a quest’ultimo un incarico avrebbe formalmente abdicato alla sua funzione di presidente del Consiglio 5.

È giusto dire che Rattazzi finalmente uscì allo scoperto poiché da qualche tempo Vittorio Emanuele II stava lavorando dietro le quinte per provocare la caduta del barone, colpevole anche di non aver voluto l’avvocato di Alessandria per ministro all’indomani delle dimissioni di Minghetti come gli era stato consigliato di fare6. In fondo, la svolta centralistica e le proposte incentrate sul recupero della legge del 1859 rendevano Rattazzi il candidato perfetto per la poltrona di ministro dell’Interno. Ricasoli, tuttavia, fu fermissimo nel rifiutare qualunque accordo con il presidente della Camera il quale alla fine di dicembre poteva scrivere a La Marmora che era «inutile pensare ad una siffatta unione»7. Rattazzi nelle sue lettere di fine 1861, infatti, diffondeva l’idea di un ministero politicamente finito, nonostante il voto di fiducia di dicembre, in attesa solo di ricevere la comunicazione ufficiale di sfiducia8. Ricasoli, sordo alle voci in favore di una ricomposizione ministeriale e cieco di fronte al calo del proprio gradimento pubblico, era il primo responsabile di tutta la situazione.

Ricasoli ha perduto molto negli ultimi mesi nella pubblica opinione; non gli rimane che la riputazione d’uomo onesto, il che sarebbe molto nelle cose private, ma è molto poco negli affari di Stato. Se volesse conservare un portafoglio, non so quale aiuto e quale forza porterebbe. Tutt’al più potrebbe avere la Presidenza senza portafoglio; il suo nome servirebbe di bandiera e non cagionerebbe imbarazzi9.

Rattazzi, conscio di non avere una maggioranza propria, aveva nutrito la speranza di poter entrare nel ministero in carica relegando il barone al ruolo

5 Cfr. B.R. a V. Ricasoli, Torino 4 dicembre 1861. XIX, p. 20. Vincenzo era d’accordo

sul ritiro. Cfr. V. Ricasoli a B.R., [Firenze] 6 dicembre [1861]. Ivi, p. 38.

6 Cfr. R. Vergani, La lotta politica in Italia durante il primo ministero Ricasoli,

«Rassegna Storica Toscana», 1972, 2, pp. 200-221.

7 U. Rattazzi a A. La Marmora, Torino 28 dicembre 1861. RATTAZZI, I, p. 542.

8 Cfr. U Rattazzi a O. Vimercati, Torino 8 dicembre 1861 e U. Rattazzi a A. La

Marmora, Torino 13 dicembre 1861. Ivi, pp. 534-535 e pp. 538-539.

puramente onorifico, ma necessario per i voti alla Camera, di presidente del Consiglio senza portafogli. Insomma, si voleva un Ricasoli garante dell’immagine del gabinetto, allo stesso tempo però politicamente esautorato poiché, allora, la presidenza del Consiglio dei ministri non esisteva come ente a se stante e per questa ragione veniva sempre abbinata ad un ministero ‘pesante’, generalmente gli Interni o, come nel caso del barone, gli Esteri.

Rattazzi, inoltre, godeva dell’appoggio di una Parigi irritata dai modi e dalle pretese di Ricasoli. Vincent Benedetti, ambasciatore di Francia a Torino, si schierò apertamente dalla parte del presidente della Camera10. «La noblesse de caractère, l’indépendance et l’inflexibilité» del barone indisponevano particolarmente il diplomatico che mirava a «diriger tous les actes du cabinet italien»11. Nella sua corrispondenza, perciò, demolì sistematicamente il presidente del Consiglio che, dal canto suo, soprattutto sulla questione romana non si impegnò certamente per fargli mancare gli argomenti. James Hudson aveva cercato di avvertire Ricasoli che a Torino una sorta di partito filofrancese si stava impegnando contro di lui12. All’interno della stessa missione diplomatica italiana a Parigi si lavorava a screditare il barone. Non Nigra, costantemente impegnato a cercare di calmare il presidente del Consiglio, ma l’addetto militare Ottaviano Vimercati, amico di Rattazzi e strumento del sovrano13.

Rattazzi, inoltre, tra il 16 ottobre e l’inizio di novembre aveva fatto un viaggio a Parigi durante il quale ebbe modo di incontrare i principali dirigenti politici del Secondo Impero ai quali, sostenuto dal Re, si propose come un’alternativa all’impaziente Ricasoli14. Quest’ultimo, informato del viaggio, si dimostrò irresoluto su come disinnescare il pericolo. Incontrò anche Rattazzi prima della sua partenza, ma evitò di toccare la questione15. Questa «inconsiderata dimora a Parigi» rese impossibile ogni eventualità, peraltro come si è visto già altamente improbabile e indesiderata per il barone, di accordo tra il presidente della Camera e quello del Consiglio16.

10 Cfr. P.Guichonnet, Ricasoli et la France, in Ricasoli e il suo tempo, cit., p. 191. 11 H. d’Ideville, Journal d’un diplomate en Italie. Notes intimes pour servir à l’histoire

du Second Empire. Turin 1859-1862, Paris, Hachette, 1872, p. 273.

12 J. Hudson a B.R., Torino 11 settembre 1861.

13 Cfr. P. Gentile, L’ombra del Re. Vittorio Emanuele II e le politiche di Corte, Torino,

Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 2011, p. 197.

14 Cfr. R. Mori, La Questione Romana 1861-1865, Firenze, Le Monnier, 1963, pp. 43 e

ss.

15 Cfr. A. Gotti, Vita del barone Bettino Ricasoli, Firenze, Le Monnier, 1895, pp. 412-

413.

Lo statista toscano, infatti, ritenne la candidatura Rattazzi un nuovo atto di intromissione della Francia negli affari italiani17.

E così mentre il ministero trattava con Parigi per Roma, il Re chiedeva attraverso Rattazzi «due linee di trattato» perché «se fossimo a soffrire rovesci» in caso di guerra con l’Austria per Venezia l’Imperatore «col suo esercito ci sostenga e guarantisca il regno attuale d’Italia». Ovviamente rinunciava «per ora a trattare più caldamente la questione di Roma»18. Insomma il Sovrano offriva una politica estera diversa da quella del Governo, iniziando un’opera di delegittimazione di quest’ultimo.

Il principale punto di attrito fra il Re e il barone verteva proprio sulle priorità della politica estera. Tra le condizioni poste per accettare la presidenza del Consiglio, infatti, Ricasoli aveva dato «poca importanza sulla Venezia»19. Quest’ultima, infatti, preoccupava molto il barone poiché ogni tentativo di annetterla avrebbe comportato una guerra contro l’Austria. La monarchia asburgica, seppur travagliata da crisi interne, rimaneva un’avversaria militarmente temibile per il neonato esercito italiano. In più era favorita dal sistema di fortezze conosciuto come quadrilatero che allo stesso tempo proteggeva l’accesso al cuore del Veneto e costituiva un ottimo trampolino per un’offensiva. Già prima di assumere il governo del Paese, il 21 maggio 1861, il barone aveva affermato alla Camera che benché «la Venezia ha sacrosanto diritto di essere riscattata», essa «dovrà rimanere l’ultima a godere del patrio riscatto, l’ultima a far parte della grande famiglia italiana»20. Da presidente del Consiglio ribadì fin dal suo primo discorso «il diritto che ha l’Italia di costituirsi e di compiersi» e che il Governo per ciò avrebbe proseguito «con alacrità indefessa l’armamento nazionale». Tuttavia, il 1 luglio successivo avrebbe chiarito come «l’opportunità che si prepara e sorge nel tempo, aprirà la via a Venezia». La Serenissima, dunque, pur costituendo una priorità dell’agenda politica ricasoliana, avrebbe dovuto aspettare che si presentasse un’occasione favorevole. L’Italia da sola non avrebbe infatti preso le armi contro Francesco Giuseppe. Ricasoli dava la precedenza a Roma anche per queste ragioni tutt’altro che astratte. Vittorio Emanuele, invece, avrebbe preferito concentrare tutti gli sforzi sul Veneto, magari convincendo Napoleone III a

17 B.R. a A. La Marmora, Torino 19 febbraio 1862. XIX, p. 362.

18 Vittorio Emanuele II a U. Rattazzi, 26 ottobre 1861. VITTORIO EMANUELE, vol. I, pp.

721-722.

19 Cfr. P. Solaroli a Vittorio Emanuele, Torino 7 giugno 1861. Ivi, I, p. 697.

20 Il discorso, bollato da Musolino come «geremiadi», serviva a presentare un ordine del

giorno, poi approvato all’unanimità, a sostegno del governo Cavour che aveva biasimato l’Austria per aver escluso ciò che era rimasto in suo possesso del Regno Lombardo Veneto dalle riforme costituzionali del 26 febbraio 1861.

prendere le armi al suo fianco per completare e compiere quanto lasciato aperto nel 1859. Per questo manteneva contatti per una possibile insurrezione anti austriaca delle popolazioni balcaniche soggette a Vienna. Ricasoli, anch’egli informato dai suoi agenti sulla situazione dei Balcani, riteneva questi sforzi inutile perché «Ungheresi, Transilvani, Croati, Schiavoni, tutti si odiavano cordialmente e sebbene portino odio all’Austria, io credo che più potente sarà l’odio domestico, l’odio fra loro»21. Dunque bisognava attendere tempi migliori e battere altre strade. Una differenza politica non da poco che forse il Re pensava di temperare puntando sull’inesperienza del suo nuovo ministro in fatto di politica estera.

Si aggiunga che i due si conoscevano poco. Prima del 1861 non avevano mai avuto occasione di approfondire la conoscenza reciproca22. Durante un viaggio nel Regno di Sardegna del 1855, il barone aveva maturato una visione idealizzata di un Re «onesto e leale», caratterizzato da «grandezza e fermezza dell’animo»23. Nei mesi di governo della Toscana, Vittorio Emanuele II era stato per il barone poco più che l’intestazione degli atti ufficiali. Solo il trasferimento a Torino e l’assunzione della presidenza del Consiglio permisero a Ricasoli di comprendere meglio il carattere del Sovrano, deciso in tutto e per tutto a restare al centro del sistema costituzionale nella stessa misura in cui lo era stato nel Regno di Sardegna24. Di questo tratto della personalità politica del Re, il barone aveva avuto un saggio nel marzo del 1861 quando gli offrì di comporre un ministero al posto di Cavour che aveva rassegnato le dimissioni. Il conte in realtà non stava affrontando una crisi di consenso, anzi le elezioni di febbraio avevano sancito la netta vittoria della sua linea25. Aveva rimesso il mandato nelle auguste mani solo per dar vita ad un ministero in cui trovassero una composizione tutte le anime regionali della maggioranza che lo sosteneva. Cavour, infatti, aveva consigliato al Re di consultare gli uomini politici più eminenti indicandoli in Rattazzi, Ricasoli, Farini e Poerio26. Vittorio Emanuele avrebbe voluto, invece, che il presidente del Consiglio annunciasse le dimissioni e il reincarico nel medesimo momento,

21 B.R. a C. Nigra, Torino 18 gennaio 1862. DDI, S. I, vol. II,

22 S. Camerani, Il Re e Ricasoli, in Studi in memoria di Nino Cortese, Roma, Istituto per

la Storia del Risorgimento Italiano, 1976, p. 81.

23 Diari, VII, annotazione intitolata Memoria delle cose essenziali udite e vedute, p. 258. 24 Sulla personalità del sovrano cfr. la recente biografia di A. Viarengo, Vittorio Emanuele II, Roma, Salerno, 2017. Si veda anche D. Mack Smith, Vittorio Emanuele II,

Bari, Laterza, 1972.

25 Sul punto cfr. R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. III, Roma-Bari, Laterza, 2012,

pp. 905 e ss. Le elezioni si erano tenute il 27 gennaio e il 3 febbraio (ballottaggi) 1861.

annunciando immediatamente alla Camera i nomi dei nuovi ministri. Il conte rifiutò si seguire queste indicazioni «par respect pour la Chambre», consigliando appunto le consultazioni27. Come spiegava a Vimercati affinché desse tutti i dettagli necessari al governo imperiale,

[…] le ministère qui vient de tomber, s’étant formé peu à peu dans des circonstances très différents, n’était pas assez fort pour garder et tenir d’une main ferme le gouvernail; la Chambre était docile, il est vrai, cependant dans les questions secondaires on n’aurait pas manqué de faire subir des petits échecs individuels aux membres du Cabinet, qui se serait trouvé peu à peu affaibli et sans autorité. J’ai préparé à cela en amenant cette petite crise: de cette manière le Ministère du Roi de Sardaigne fera place au Ministère du Roi d’Italie, qui aura sans doute le même programme politique dans les grandes questions intérieures et extérieures, sans avoir la responsabilité de la période de transition qui vient de finir28.

Queste considerazioni dimostravano ancora una volta la grande attenzione con cui Cavour guardava al Parlamento e alle sue possibili interazioni col governo. Il conte, infatti, voleva evitare che piccole schermaglie potessero logorare il gabinetto impedendogli di affrontare le grandi questioni. Una tale attenzione per quelle che potrebbero sembrare solo questioni di forme e di piccolo momento, sarebbe costantemente mancata al politico toscano.

Vittorio Emanuele, tuttavia, con Ricasoli andò oltre una semplice consultazione:

Ieri il Ministero si dimise tutto. […] La dimissione del Ministero è riguardata per un espediente, onde far vuoti dei seggi, destinati ad essere riempiti con altri individui, tra’ quali un siciliano e un napoletano. Il Re prese la cosa sul serio, e chiamò me ieri sera, e questo sia detto a lei solo. […] quando ieri il Re mi fa chiamare per le sei, e mi dà un attacco così premente di affetto e di fiducia ond’io mi ponessi alla testa d’un nuovo ministero. […] Sebbene io non voglia scemare la sincerità dell’animo di chi pronunziava tali parole, che erano dette e troppo ripetutamente con forte effusione d’animo, pure travidi, e lo dissi con parola serena e franca al Re stesso, che il Re era eziandio mosso dal desiderio di torsi dal fianco Cavour, con cui nulla simpatizza, per avere appunto due caratteri opposti; e questa ragione distrugge ogni poesia dell’animo mio, cosicché fra l’antipatia che mi sento di entrare in un Ministero, e il parermi che la circostanza fosse oltre ogni modo meschina, la mia coscienza e l’affetto mio mi condussero a un’assoluta e irresistibile rinunzia, che pose me però per la parte del sentimento in una grave

27 C. Cavour a O. Vimercati, Turin 20 mars 1861. Ep. Cavour, XVIII, t. 2, p. 766. 28 Ibidem.

depressione, perché la resistenza affettuosa del Re e le parole d’ogni maniera lusinghiere, avrebbero vinto tutti quelli che non erano me29!

Non credo che in queste considerazioni vi fosse, come è stato sostenuto, la prova che Ricasoli «non pareva menomamente curarsi» delle reali possibilità di successo della manovra regia30. La chiave giusta per comprendere il pensiero ricasoliano più che nel linguaggio sentimental- patriottico, va ricercata nel «meschina» con cui definiva la circostanza. A nessuno dei contemporanei, e dunque neppure al barone allora ai primi passi nel sistema parlamentare, poteva sfuggire che senza Cavour era impossibile dar vita ad un governo. Ricasoli chiaramente subiva il fascino di quel Sovrano che per l’Italia aveva messo in gioco il proprio trono. Se ci si sforza di andare oltre, però, non è difficile cogliere che la sua era una decisione tutto sommato politica, nonostante i sentimentalismi e le sottolineature sulla sua forza caratteriale. Fu probabilmente in questo momento che egli iniziò a capire il carattere e la personalità di un Re che ambiva a svolgere un ruolo attivo nel gioco politico. Il barone, allora, decise di non essere il suo strumento per sbarazzarsi di un’ingombrante presenza.

Tenuto conto di questo precedente, le precise condizioni che Ricasoli pose per accettare la successione di Cavour possono a ragione venir considerate come il tentativo di mettere dei paletti il più chiari possibile per garantirsi dall’attivismo della Corona. Già allora, il Re gli avrebbe preferito Rattazzi. Preso atto del fatto che il barone non aveva intenzione di farsi dirigere neppure in politica estera, Vittorio Emanuele II decise di agirgli alle spalle puntando su personalità che davano vita ad un vero e proprio «partito di corte». Tra i più attivi, oltre a Rattazzi, vi fu il già ricordato Ottaviano Vimercati, addetto militare dell’ambasciata italiana a Parigi, che contribuì a creare un clima sfavorevole a Ricasoli presso la corte imperiale31.

Vittorio Emanuele II avvertì un Napoleone III già infastidito dalla politica estera ricasoliana di condividere le sue vedute su Roma e dintorni.

Je suis fâché si le Ministère en présence de la nation s’est cru en devoir de faire des propositions plus avancées, mais il faut que Votre Majesté se mette parfaitement d’accord avec moi sur tous les points qu’il faudra traiter à l’avenir, avant que la question soit traitée par la voie diplomatique, je lui dirai toujours franchement et

29 B.R. a C. Bianchi, Torino 21 marzo 1861. XVI, p. 155.

30 Cfr. A. Aquarone, La visione dello Stato, in Ricasoli e il suo tempo, cit., p. 37. 31 Sul «partito di corte» cfr. P. Gentile, L’ombra del Re, cit., p. 197.

loyalement ma manière de penser et Votre Majesté verra qu’on se mettra facilement d’accord32.