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5 «Conviene dunque che il Ricasoli si prepari per necessità ad andare al potere»

1. «Ma la libertà della Chiesa che cos’è?»: il progetto Corsi

Ricasoli all’inizio del 1864 si era lamentato della scarsa audacia con la quale il ministero Minghetti affrontava le grandi leggi di riforma di cui il Paese aveva bisogno. Da quale di queste bisognava partire? Sul punto lo statista toscano aveva le idee chiarissime.

Una delle quali, che mi par massima, – scriveva Ricasoli – sarebbe quella che riguarda la legge normale per la libertà in materia religiosa, la quale legge, regolando lo stato presente delle cose ecclesiastiche, e determinando l’avvenir, porrebbe le basi della libertà della Chiesa e delle Chiese in Italia, facendo cessare l’anomalia di un ministero dei Culti in un paese dove ognuno vuol essere libero, si sente libero ed è libero nella sua coscienza religiosa1.

Intorno a questo tema fondamentale dell’opera ricasoliana, il barone si era lungamente aperto con Giovan Battista Giorgini. Purtroppo, «l’Italia non si conosce che per i suoi briganti»2. Essa, invece, avrebbe dovuto distinguersi dimostrando all’Europa che la riteneva debole di saper «compire alcuno di quei grand’atti civili che segnano la rigenerazione di un popolo e che sono il precursore del suo avvenire»3. La repressione del brigantaggio e le leggi finanziarie non rientravano tra questi; la «riforma immediata dell’amministrazione temporale della Chiesa, l’abolizione dei

1 B.R. a P. Puccioni, Brolio 20 gennaio 1864. XXI, 1, pp. 79-80. 2 B.R. a G.B. Giorgini, Brolio 7 gennaio 1864. Ivi, p. 42. 3 Ibidem.

conventi con poche, o meglio ancora nessuna eccezione» invece sì4. Ma come poteva essere raggiunto un simile obiettivo?

La riforma dell’amministrazione temporale della Chiesa la intenderei in questi punti sostanziali: vendita di tutti i beni stabili, salvo l’orto e la canonica, e conversione del valore in debito pubblico; la vendita da farsi man mano che la sede vaca, e anco a sede piena se il Rettore lo consenta; la vendita per allivellazione, con diritto però di affrancazione, onde interessare nelle compre anco le piccole fortune. Ordinamento delle Parrocchie a Classi, in modo che il parroco avesse modo di vivere con indipendenza e comodità. Riduzione dei Vescovadi a quante sono in Italia le Province, Prefetture. Consegna del patrimonio ecclesiastico alle comunità, come quelle che in Italia rappresentano l’associazione dei fedeli, e siccome quelle cui spetta, tra gli attributi naturali, di provvedere a culto nel rispettivo territorio. Abolizione di tutti i benefizi semplici, di tante collegiate lussuriose e, finalmente, rinunzia per parte del Governo alla nomina dei Parrochi, e restituzione di questa nomina ai parrocchiani, e alle comunità stesse; renunzia alla nomina dei Vescovi in favore dei capitoli, o soli o misti d’elemento secolare. Anco i Vescovadi dovrebbero essere distinti per classi rispetto alla rendita assegnata. La mensa del vescovado può essere assegnata o alla provincia o al comune ove ha sede il Vescovo. Naturale conseguenza di questa riforma è l’abolizione del Ministero dei Culti, vera anomalia in uno stato come l’Italia5!!

Non vi era più bisogno di giurisdizioni o leggi speciali perché «per gli spropositi dei preti come cittadini, v’è il codice criminale e i tribunali»6. Insomma si doveva smettere di agire avvalendosi di strumenti antiquati come i diritti di nomina, per puntare ad una riforma generale, dai tratti rivoluzionari rispetto alle tradizioni giurisdizionalistiche, nei rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Non erano idee nuove. Il barone, un anno prima, il 23 gennaio 1863 aveva indirizzato allo stesso Giorgini un’altra lunga meditazione in cui affermava che era necessario dare libertà alla Chiesa «suo malgrado»7, intervenendo sull’amministrazione del patrimonio ecclesiastico. Nel suo concetto di libertà religiosa Ricasoli dimostrava di contemplare anche la facoltà dei credenti di organizzarsi per la gestione della Chiesa indipendente dalle autorità ecclesiastiche, anzi partecipando addirittura alla loro determinazione. Punto questo inaccettabile per la teologia e l’ecclesiologia dominanti che vedevano nel laicato un gregario

4 Ivi, p. 43. 5 Ibidem. 6 Ibidem.

dell’autorità8. Ancora una volta il barone dimostrava una scarsa conoscenza e un dichiarato disinteresse per le posizioni della Chiesa. Per lui essa era semplicemente fuori della storia e per rientrarvi doveva rendersi conto che un profondo rivolgimento era inevitabile.

Io ho la coscienza che siamo alla vigilia di una grande rivoluzione nel cattolicismo romano a pro del vero cattolicismo, ed io la desidero ardentemente, e prima di morire, vorrei vederla. Mi struggo di porci lo zolfanello, ma non so dove stia il punto più vivo all’esplosione. La materia è tutt’altro che combustibile, è infingarda e putrida, e da ogni lato è così; così è Roma, così i preti, così sono i secolari. Così siamo tutti9!

A conferma di questa fiducia proprio alla fine del 1863 aveva concluso l’acquisto di una residenza nell’Urbe, la Villa del Belvedere sul Gianicolo che dopo Porta Pia avrebbe costituito la sua residenza romana10.

Nelle sue riflessioni Ricasoli, quindi, anche per la sostanziale sconfitta politica subita, abbandonò il sistema seguito durante il primo ministero, cioè quello di un accordo con Roma, mediato dalla Francia tanto simile a un concordato. Dopo che l’esperienza ebbe dimostrato l’impossibilità di questa strada, Ricasoli preferì puntare tutto sulla riforma della Chiesa favorita dalla legislazione ecclesiastica dello Stato11. L’occasione propizia per provare a tradurre in realtà questi suoi pensieri si concretizzò proprio nell’autunno del 1864. Superato felicemente il problema dell’approvazione della Convenzione, i ministri di Grazia, giustizia e culti e delle Finanze del ministero La Marmora, rispettivamente Giuseppe Vacca e Quintino Sella, presentarono congiuntamente, nella tornata del 12 novembre 1864, un disegno di legge sulla soppressione degli enti ecclesiastici12. Esso sostituiva un precedente disegno di legge posto all’attenzione della Camera il 18 gennaio 1864, da Giuseppe Pisanelli, allora ministro di Grazia, giustizia e culti del governo Minghetti. Questo progetto si incentrava sulla soppressione delle congregazioni regolari e secolari e sulla creazione di un fondo speciale per il culto avente per fine l’incameramento dei beni immobili degli enti soppressi e il corrispettivo, in titoli del debito pubblico, di quelli che tra questi sarebbero passati al Demanio dello stato. Tali

8 Cfr. G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto Chiesa-Società nell’età contemporanea, Casale, Marietti, 1985, pp. 21 ess.

9 Ivi, p. 571.

10 Cfr. A. Gotti, Vita del barone Bettino Ricasoli, Firenze, Le Monnier, 1894, p. 452. 11 Cfr. S. Jacini, La politica ecclesiastica italiana da Villafranca a Porta Pia, Bari,

Laterza, 1938, pp. 178-180. Cfr. anche R. Romanelli, L’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 101.

soluzioni, però, non suscitarono molti consensi13. Il ministero La Marmora, di conseguenza, preferì presentarne uno nuovo, il progetto Vacca-Sella appunto che ampliava il numero degli enti da sopprimere e prevedeva che i loro beni passassero direttamente al Demanio. Contemporaneamente si riconosceva a favore degli enti soppressi un rendita del debito pubblico trasformando, di fatto, gli ecclesiastici in stipendiati dello Stato, richiamando il modello già tentato in Francia all’epoca della rivoluzione con la costituzione civile del clero14. Secondo procedura, il progetto venne affidato agli studi di una commissione formata dai deputati Francesco Borgatti, Filippo Cordova, Antonio Mordini, Gregorio Ugdulena, Giuseppe Biancheri, Giovan Battista Giorgini, Bettino Ricasoli, Giuseppe De Luca e Tommaso Corsi. Nella riunione del 7 dicembre, la prima tenuta dalla commissione, Ricasoli venne designato presidente, con Borgatti vice e Mordini a fungere da segretario. Relatore, invece, sarebbe stato Corsi, figura importante della deputazione toscana molto vicina al barone del quale curava gli interessi legali15.

Ricasoli, però, a causa di una malattia della figlia, non prese parte alle prime sedute16. Per questo motivo inviò una lunga lettera di raccomandazioni e di istruzioni a Giorgini, col quale, come si è visto, aveva una lunga consuetudine di scambi su questo delicato argomento.

Ti chiedo, amico mio, di non paventare a porre innanzi, e scrivere nella nuova legge, i solenni e fecondi principj che debbono essere base, e radice di una libertà vera nella Chiesa. Lo Stato non deve preoccuparsi di ciò che è predestinato rispetto alla istituzione papale; deve anzi preoccuparsi che per nessuno interesse politico attuale quella istituzione sia influita, e in qualche modo i suoi destini ulteriori modificati. Il vero interesse dell’Italia politica, e dell’Italia religiosa, secondo me, chiede che lo Stato nulla chiegga e nulla offra al Papa; e di una cosa sola sola si occupi, di restituire cioè ai cittadini le loro libertà religiose, cioè il diritto di amministrare il patrimonio temporale della Chiesa, come eglino amministrano ogni altro interesse locale, e nazionale, secondo le leggi dello Stato17.

13 Cfr. M. Falco, La politica ecclesiastica della Destra, Torino, Bocca, 1914, pp. 12-13. 14 Sul punto cfr. R. Mori, La questione romana, cit., pp. 360-361. Cfr. anche PSCM, http://archivio.camera.it/resources/are01/pdf/CD1100029846.pdf. Sulla costituzione civile del clero cfr. D. Menozzi, Cristianesimo e rivoluzione francese, Brescia, Queriniana, 1983, p. 91.

15 Nell’Archivio Mordini si conservano le bozze dei verbali delle sedute della

Commissione. ASRAM, f. 54, fasc. I, L, M.

16 Cfr. B.R. a P. Bastogi, Firenze 4 dicembre 1864, Id. a G.B. Giorgini, Firenze 6

dicembre 1864. XXI, 2, pp. 106-107 e pp. 107-109.

Era la stessa soluzione che aveva proposto al medesimo interlocutore a inizio anno, quando si stava preparando la discussione del disegno di legge Pisanelli. L’affidare l’amministrazione del patrimonio temporale della Chiesa ai cittadini costituiva, nell’ottica di Ricasoli, il grimaldello per «la vera rigenerazione della Chiesa»18. Questo, infatti, doveva essere il punto d’arrivo della politica ecclesiastica ideale del barone. La storia aveva dimostrato che l’accordo tradizionale fra altare e trono, «onde meglio conseguire il dispotico dominio sui popoli; l’uno incatenò le coscenze (sic), onde meglio l’altro potesse assoggettare il pensiero, e la vita dei popoli»19, aveva ormai concluso la propria traiettoria. Se la Chiesa persisteva in una battaglia di retroguardia a difesa di questo mondo vecchio, lo Stato doveva, invece, dimostrarsi al passo con i tempi e rompere il legame applicando in ogni dominio le «libertà civili e politiche» che costituivano le sue nuove basi. Lo doveva fare a maggior ragione poiché il cattolicesimo costituiva un collante morale irrinunciabile. Il barone, infatti, era preoccupato che «gl’italiani in fatto di sentimento religioso si dividono in due grandi schiere, gli scettici, o meglio gl’indifferenti, e i creduli»20. Entrambe rappresentavano «grossi mali» per una visione della società in cui al «sentimento religioso» si affidava una funzione centrale. Ricasoli, si potrebbe dire, non metteva tra le urgenze né la nazione legale, né la nazione reale, bensì la nazione morale.

Tenuti nel debito conto questi punti fermi bisognava agire evitando accuratamente «qualche concordato, che sarebbe per la Chiesa e l’Italia una vera sventura»21, istituendo invece il sistema della «libertà della Chiesa».

Quando si disse Chiesa libera – continuava Ricasoli – non s’intese altro che libertà

religiosa. Lo Stato che tutto ravvolge, e di tutto costituisce l’interesse nazionale

(che altro non è se non l’interesse singolo in armonia e cospirante all’interesse di tutti) ha diritto e obbligo di porre in accordo con tutte le altre libertà quella pure della Chiesa, e così compire l’ufficio suo di costituire la piena libertà dell’anima umana. Uno stato ove questa libertà sia ancora in difetto, non è ancora in condizioni di perfetta civiltà, perché questa anima non può esplicarsi in quella universalità di attinenze per la quale fu creata; e come l’anima è una, così se da un lato infrenata, ne soffre nell’intera sua essenza, e male compie i suoi alti destini22.

18 Ivi, p. 108. 19 Ibidem. 20 Ibidem. 21 Ibidem. 22 Ivi, pp. 108-109.

Ecco i punti essenziali che Ricasoli raccomandava a Giorgini. Da questi propositi non arretrò mai tanto che nel marzo poteva ribadire a Bianchi:

Non parliamo più di libera Chiesa in libero Stato; ma di separazione della Chiesa dallo Stato, in questo senso soltanto che come nel regime di libertà lo Stato deve chiamare gl’interessati a fare i loro proprii affari, con tanta più forte ragione sotto quel regime, di cui è base la libertà religiosa, lo Stato deve spogliarsi delle ingerenze fin qui attribuitesi in rapporto all’amministrazione del patrimonio, e ai diritti temporali delle associazioni religiose, e farne restituzione agli aventi diritti e interessi. […] Lo Stato è impotente in materia religiosa; lo Stato è il solo potere sociale; la religione è un atto privato23.

Ricasoli, infatti, trovava più proprio parlare di «separazione» che di «libera Chiesa in Libero Stato» poiché quest’ultima locuzione poteva riconoscere alla prima una qualche sovranità e lasciare aperta la via ad un concordato24. Solo affermata l’unica sovranità dello Stato si poteva instaurare un sistema di libertà religiosa, rinunciando ad ogni ingerenza nella vita della Chiesa e all’esercizio dei tradizionali strumenti della politica giurisdizionalista come il placet e l’exequatur. Su questo delicato punto, però, dovette cedere qualcosa alle richieste dei colleghi. Riassumiamo brevemente i punti programmatici del progetto annesso alla relazione della Commissione depositato alla Camera il 7 febbraio dal relatore Corsi. L’art. 1 prevedeva una misura rivoluzionaria:

La proprietà dei beni destinati al culto cattolico è riconosciuta nella comunione cattolica delle diocesi e delle parrocchie, rappresentata da una congregazione diocesana o parrocchiale. Essa avrà l’esercizio di ogni diritto civile relativo all’opera locale alla quale presiede25.

La Commissione, e in questo fu tutto sommato concorde, era contraria a creare un clero in qualche modo dipendente dallo Stato come era accaduto con la cassa ecclesiastica. Perciò i beni non andavano lasciati al Demanio. Il diritto di voto (art. 2) per costituire le congregazioni veniva riconosciuto ai maschi domiciliati da sei mesi nella parrocchia o nella diocesi con trent’anni compiuti26. L’art. 3, invece, recitava:

23 B.R. a C. Bianchi, Lione 21 marzo 1865. XXI, 2, pp. 255-256.

24 Cfr. G. Gentile, Bettino Ricasoli e il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, in Id., Gino Capponi e la cultura storia nel secolo XIX, Firenze, Sansoni, 1973, p. 99 (I. ed.

Vallecchi 1922)

25 In G. D’Amelio, Stato e Chiesa, cit., p. 483. 26 Ivi, pp. 483-484.

La proposta ad uffici ecclesiastici di libera collazione, o di prerogativa regia, ed alle parrocchie o cappellanie degli ordini religiosi soppressi con la presente legge spetterà alle opere diocesane e parrocchiali secondo che l’ufficio da provvedersi si riferirà alla diocesi o alla parrocchia, salvo per quelle di prerogativa regia l’assenso reale innanzi l’investitura27.

Un colpo netto al giurisdizionalismo statalista, anche se l’assenso reale per taluni casi rimaneva in vigore. Globalmente, però, si andava ben oltre il semplice abbandono del placet e dell’exequatur poiché si coinvolgeva il laicato nella determinazione degli uffici ecclesiastici. Da sottolineare, infine, l’art. 15:

Al verificarsi delle rispettive vacanze non saranno ulteriormente provvisti: […] Gli arcivescovati o vescovati, tranne uno per ogni provincia amministrativa scelto tra quelli aventi maggiore dignità per fondazione, e designato con decreto reale da pubblicarsi entro sei dalla emanazione della presente legge28.

Lo Stato, quindi, con questo disposto si sarebbe assunto il compito di ridisegnare le circoscrizioni ecclesiastiche facendole coincidere con quelle amministrative. L’insieme di queste prescrizioni, insomma, costringeva la Chiesa ad una riforma che il Pontefice non avrebbe mai consentito e sulla quale avevano molte perplessità anche i moderati della Destra. Anche un amico come Antonio Salvagnoli aveva esortato Ricasoli a limitarsi alla soppressione degli enti ecclesiastici e all’incameramento dei beni senza spingersi a toccare l’articolazione territoriale della Chiesa cosa su cui lo Stato, proprio in nome del principio della libertà, non doveva vantare alcun interesse29.

Questa legge ha due parti, una di volere ciò che noi possiamo, questa accetto; la soppressione degli ordini religiosi, l’incameramento dei beni possiamo far noi, ed il Parlamento può ordinarli. Ma la variazione delle circoscrizioni diocesane non è in nostra mano; ordinarla, prende l’aria di vendetta, di impotente smargiassata. Dà poi l’arme ai nemici nostri di offenderci, di dire al popolo che vogliamo fare uno scisma. Questa rigetto30.

27 Ivi, p. 484. 28 Ivi, pp. 485-486.

29 A. Salvagnoli a B.R., 19 febbraio 1867. XXV, pp. 294-295. Gli argomenti della lettera

mi portano a datarla al 17 febbraio del 1865 in quanto il progetto Borgatti-Scialoja non contemplava, come si vedrà, la riorganizzazione delle diocesi. Si tratta, dunque, di un errore di datazione.

Ricasoli non cedette all’appello dell’amico e lo invitò ad incontrarsi «quando tu l’avrai letta, compresa e meditata»31. Gli stessi ricasoliani storici, quindi, nutrivano dubbi su una politica, per citare Mario Falco, fatta di «sentimenti più adatti a promuovere un’agitazione religiosa che a preparar leggi statuali e senza nessuna chiara idea pratica»32. Queste considerazioni, però, non toccarono più di tanto il barone tutto preso nel contrastare il centralismo romano e il potere temporale in cui aveva identificato il vero male di una Chiesa sempre più arroccata in una cieca difesa dal divenire storico. La pubblicazione del Sillabo degli errori del nostro tempo, allegato all’enciclica Quanta cura33, aveva confermato questa chiusura. Ricasoli non commentò il documento nelle sue lettere probabilmente poiché anche lui, come tanti altri esponenti della classe dirigente, non lo ritenne una novità. Sia per la destra, sia per la sinistra, infatti, il Sillabo confermò semplicemente l’impossibilità di ogni dialogo con una Roma ormai capace solo di emettere e ribadire condanne34. Non a caso l’interlocutore principale identificato dal progetto Corsi non era la Chiesa, bensì il laicato cattolico al quale si voleva affidare una funzione centrale35.

Si può intuire come le posizioni ricasoliane non fossero condivise neppure da tutti i membri della Commissione, anche se i verbali non segnalano contrasti degni di nota. Il progetto messo a punto, tuttavia, non fu il risultato di un’opera senza contrasti. Come ha notato Arturo Carlo Jemolo, i commissari «non si erano trovati d’accordo sui punti più notevoli del progetto, su quelli dove più palese appare l’influenza della tendenza riformatrice»36. Gregorio Ugdulena, ad esempio, avrebbe ricordato alla Camera che «votato tutto ciò che riguardava l’abolizione dei frati e dei conventi» aveva deciso di non prendere più parte ai lavori poiché dissentiva su quella che definiva la «ricostituzione della Chiesa»37. Ricasoli stesso, inoltre, avrebbe ricordato qualche tempo dopo: «Giorgini nella questione di

31 B.R. a A. Salvagnoli, Torino 20 febbraio 1865. XXI, 2, p. 212. La risposta si connette

perfettamente con il senso della lettera di cui sopra.

32 M. Falco, La politica ecclesiastica, cit., p. 14.

33 Cfr. L. Sandoni (a cura di), Il Sillabo di Pio IX, Bologna, Clueb, 2012. 34 Cfr. R. Mori, La questione romana, cit., p. 348.

35 Cfr. Sul punto R. Pertici, Ricasoli e il “liberismo” in politica ecclesiastica: il progetto Borgatti-Scialoja, in Da Custoza a Mentana. Ricasoli e Rattazzi alla sfida del completamento del processo unitario. 1866-1867, a cura di G. Manica, Firenze, Polistampa,

2017, p. 354.

36 A.C. Jemolo, La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d'Italia 1848-1888, Bologna, 1974, p. 114.

Roma può dirsi che fosse meco?»38. L’amico, infatti, pur convinto della necessità di una separazione fra lo Stato e la Chiesa, era contrario ad inasprire una conflittualità già alta per provocare riforme velleitarie che non avrebbero certamente aiutato la soluzione della questione romana e che, evidentemente, esulavano dalla tanto abusata formula «libera Chiesa in libero Stato»39. Dunque, le lettere sulla questione romana dirette a quest’ultimo durante i lavori della commissione vanno viste come un tentativo di persuasione nei confronti di chi non sposava in pieno le posizioni ricasoliane. E nonostante ciò il barone riuscì a far prevalere il grosso delle sue idee. Probabilmente i commissari accettarono perché credevano che la Camera e il ministero avrebbero fatto sentire la loro voce.

Nonostante tutte queste difficoltà si era riusciti ad arrivare ad un testo con un aspetto «rivoluzionario»40, anche se si presentava come un «ibrido», un tentativo di sintesi tra le diverse posizioni degli estensori41. Infatti esso non prefigurava un sistema separatista puro. «Vero è che – osservava ancora Jemolo – la relazione afferma di voler attuare il sistema della separazione della Chiesa dallo Stato; ma in pari tempo non le appare già preferibile il sistema in cui lo Stato e la religione sono affatto separati e vivono indipendenti, non avendo lo Stato altra cura delle cose religiose tranne quella di reprimere gli atti che offendessero la sicurezza degli individui o dell’intera società; bensì il sistema in cui Stato e Chiesa sono