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Acqua (#ter_acqua): acqua (VII, 103); acqua (VII, 118); acqua (VII, 119); acqua (VIII, 16); acqua (VIII, 30); acqua (IX, 77); acqua (XIV, 98); acqua (XIV, 134); acqua (XV, 3); acqua (XVI, 2); acqua (XVI, 92); acqua (XVI, 104); acqua (XVII, 20); acque (XIX, 107); acqua (XX, 66) acqua (XX, 76); acqua (XXII, 25); acqua (XXIII, 46);

acqua (XXIV, 51); acqua (XXXII, 24); acqua (XXXII, 32)

Sotto questo concetto sono state catalogate le 21 occorrenze del lemma acqua con le quali Dante si riferisce all’acqua in contesti di acque interne. Nell’Inferno l’ambiente acquatico è menzionato spesso e non soltanto a causa della presenza dei fiumi infernali. L’alta incidenza di questa area concettuale trova la sua giustificazione anche nei versi che evocano l’idrografia del mondo naturale, nelle metafore e nelle similitudini che rimandano a contesti di acqua dolce. Di queste 21 occorrenze, 12 hanno un referente diretto all’interno del primo regno ultramondano, 6 sono presenti all’interno di similitudini e le restanti 3 si riferiscono all’acqua di ambienti terreni.

Considerando che le occorrenze totali del lemma nella cantica sono 26, si rende necessaria la giustificazione dell’esclusione delle 5 occorrenze non presenti in questo catalogo.

Nel VI canto viene descritta la precipitazione atmosferica che affligge i golosi: «Grandine grossa, acqua tinta e neve / per l’aere tenebroso si riversa» (If VI 10-11). In questo caso, il lemma “acqua” ha il significato di pioggia e va ricondotto al concetto presente in:

A. L’UNIVERSO → I. IL CIELO E L’ATMOSFERA → b) Il tempo atmosferico e i venti → Pioggia.

Nel canto XXX, all’interno della bolgia dei falsari, mastro Adamo, assetato a causa dell’idropisia, afferma di bramare «un gocciol d’acqua», dove il termine ha una chiara relazione con l’utilizzo umano e perciò è da catalogare in:

B. L’UOMO → 1. L’UOMO COME ESSERE FISICO → k) I bisogni dell’essere umano → 1. L’alimentazione → cc) Gli alimenti → 8. le bevande → acqua

Ancora nel canto XXX si trova un utilizzo di acqua in riferimento all’uomo, dal momento che l’acqua che deforma il corpo di maestro Adamo - l’ “acqua marcia” di If XXX 122 - si riferisce all’umore prodotto dall’idropisia nel ventre del dannato. La malattia in questione veniva descritta così da Isidoro: «Hydropis nomen sumpsit ab aquoso humore cutis. Nam Graeci ὑδωρ aquam vocaverunt. Est enim humor subcutaneus cum inflatione turgente et anhelitu foetido». Anche in questo caso il lemma dovrà essere catalogato all’interno della parte “B. L’UOMO”, presumibilmente nella sezione “i) La salute e la malattia”.

Infine, le 2 occorrenze di acqua in riferimento all’acqua del mare sono state classificate sotto il concetto ‘Acqua di mare’, nella sezione ‘b) Le acque, 2. il mare’.

Sorgente (#ter_sorgente): fonte (If I 79); fonte (If VII 101); fonti (If XX 64); fonte (If XXV 98)

Nell’italiano antico il concetto di ‘Sorgente’ è espresso principalmente dal lemma fonte, come si evince dalle numerose occorrenze registrate nel corpus TLIO, mentre il lemma “sorgente”, di uso normale come sostantivo nell’italiano moderno, viene ancora utilizzato come aggettivo all’interno di sintagmi come “surgente vena”, “fonte surgente” e “aqua surgente”. Il vocabolario del TLIO (s.v. fonte) riporta la seguente definizione del termine: «Punto del terreno in cui una vena d'acqua sotterranea sgorga in superficie (spontaneamente o per opera dell'uomo), dando origine e alimento a uno specchio o a un corso d'acqua; sorgente (anche fig. e in contesto fig.)». Il termine volgare, maschile e femminile, continua normalmente il significato del sostantivo maschile latino fons: «Fons caput est aquae nascentis, quasi aquas fundens» (Isidoro).

 «come in fonte surge / aigua, sì 'n lei si surge / virtù che '· llei poi regna» (Panuccio del Bagno, XIII sm. (pis.), 15.31, pag. 98)

 «essendo scacciati i Ghibellini, uscì d' una piccola fonte uno gran fiume, ciò fu d' una piccola discordia nella parte guelfa una gran concordia con la parte ghibellina» (Dino Compagni, Cronica, 1310-12 (fior.), L. 1, cap. 3, p. 133, riga 20)

Delle 327 occorrenze lemmatizzate nel corpus TLIO, per le quali siamo in grado di stabilire il genere (372), 88 (23%) conservano il genere maschile della base latina, mentre 284 hanno il genere femminile (77%).

In Dante il termine ha 18 occorrenze: 2 nelle Rime, 4 nel Convivio e 12 nella

Commedia. Soltanto in Pd XII 62 e XXV 8 fonte si riferisce al fonte battesimale, mentre

negli altri casi il lemma è utilizzato in senso proprio, come termine del lessico ambientale, o figurato col significato di ‘principio, origine’.

La prima occorrenza del vocabolo nell’Inferno si trova nel canto I, dove Dante identifica Virgilio attraverso una metafora di ambiente acquatico: «Or tu se’ Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume?» (If I 79-80).

Dopo aver incontrato l’Acheronte, Dante e Virgilio si imbattono in un secondo corso d’acqua infernale sul limitare del quarto cerchio. Infatti, la Palude Stigia, che costituisce l’ambiente del quinto cerchio, deve la sua origine a «una fonte che bolle e riversa / per un fossato che da lei deriva» (If VII 101-102) nel cerchio precedente.

All’interno della digressione di Virgilio sul corso del fiume Mincio viene menzionato il lago di Benaco (Garda) che è alimentato da innumerevoli corsi d’acqua che nascono nell’area geografica circostante:

Per mille fonti, credo, e più si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino

de l’acqua che nel detto laco stagna. (If XX 64-66)

In questo caso non è possibile determinare il genere con cui Dante adopera il sostantivo, proprio come in quello dell’ultima occorrenza del lemma nell’Inferno, quando viene detto che Ovidio, nelle Metamorfosi, converte «in fonte» (If XXV 98) la ninfa Aretusa92.

Sgorgare, scaturire (#ter_sgorgarescaturire): deriva (If VII 102); spiccia (If XIV 76);

esce (If XIV 79); si diriva (If XIV 122); si disserra (If XIV 79).

Nel sistema ideato da Hallig e Wartburg il concetto di sortir è distinto da quello di

jaillir, saillir. Il primo verbo rimanda al significato generico di ‘uscire’ che, in

riferimento a un corso d’acqua nascente, può essere reso in italiano con ‘sgorgare’; gli altri due verbi riuniti sotto un unico concetto possono essere tradotti con ‘zampillare’,

92 Per quanto riguarda il genere del sostantivo nell’opera dantesca, Dante utilizza “fonte” al femminile

cioè «fuoriuscire con impeto e getto sottile da una stretta apertura, da una fonte sorgiva, dal terreno, ecc.; sgorgare, scaturire a zampilli» (GDLI, s.v. zampillare). Questa differenza concettuale viene messa da parte dagli estensori del DAO e del DAG, i quali uniscono jaillir e sortir in un solo concetto [209 jaillir, sortir (de terre)].

Andando ad applicare il sistema concettuale alla lingua di Dante ci rendiamo conto che si può benissimo accettare la scelta operata nel DAO/DAG, dal momento che non si rilevano sul piano lessicale quelle differenze concettuali a proposito della modalità di nascita di un corso d’acqua pensate da Hallig e Wartburg. Nell’italiano antico il fuoriuscire di un corso dalla propria sorgente viene espresso solitamente attraverso i verbi nascere e uscire, i quali non possiedono sfumature semantiche circa la modalità di quell’azione:

 «uno monte chiamato Obscobare, onde nasce il fiume di Ganges e di Laser» (Bono Giamboni, Orosio, a. 1292 [fior.], L. 1, cap. 2)

 «Quine sono due fonti: dell’uno escie uno ffiume che ssi chiama Tigris» (Giordano da Pisa, Pred. Genesi 2, 1308 [pis.], 13, p. 113, riga 4)

Lo scaturire delle acque è richiamato esplicitamente in cinque luoghi dell’Inferno, tre volte in riferimento ai fiumi infernali e due volte in riferimento a corsi d’acqua del mondo terreno.

- derivare

La fonte che i poeti incontrano sul margine interno del cerchio di avari e prodighi dà origine al fossato che, disceso ai piedi della ripa, si immette nella Palude Stigia. Dante scrive che questo fossato “deriva” (If VII 102) da questa fonte, utilizzando un verbo che contiene nell’etimo un chiaro riferimento alle acque interne: derivare è voce dotta dal lat. derivāre (comp. parasintetico di rīvus ‘rivo, ruscello’), propr. ‘condurre, far venire acque’ (DELI, s.v. derivare2

); il verbo latino viene anche utilizzato intransitivamente col significato di fluere, venire ad93.

Nell’italiano antico il lemma derivare continua i due significati principali della base latina, poiché occorre sia con il senso di «espandersi liberamente da un punto di origine in una o più direzioni (una quantità di liquido); scorrere» che con quello di «costringere (un corso d'acqua) a cambiare direzione» (Vocabolario del TLIO, s.v. derivare1).

93

Il lemma, come verbo pronominale, ritorna nell’Inferno in riferimento al fiumicello che attraversa il sabbione nel cerchio dei violenti. Dopo aver ascoltato la lezione di Virgilio circa le acque che scorrono nell’inferno, le quali hanno origine nell’isola di Creta, Dante chiede al maestro: «Se ’l presente rigagno / si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?» (If XIV 121-123)94.

- spicciare

In If XIV 76 viene detto che il fiumicello rosso che attraversa il sabbione «spiccia fuor de la selva» dei suicidi. Il verbo spicciare deriva dal «fr. ant. despeechier […], ‘sbarazzare’, rifatto con cambio di pref., su empêcher ‘impedire’, che continua il lat.

impedicāre», comp. parasintetico di pĕdica ‘laccio per piedi’ (da pēs, genit. pĕdis

‘piede’), col pref. in-» (DELI, s.v. spicciare). La prima occorrenza del lemma registrata nel corpus TLIO si trova in una cronaca fiorentina del Duecento, dove è descritta una tortura mortale. Il significato è quello di ‘fuoriuscire’ :

 «ed uno palo li fece ficcare per la natura disotto, ed ispicciolli per la bocca, e come un pollo il fece arrostire» (Cronica fiorentina, XIII ex., p. 139, riga 21)

Dante utilizza il verbo con lo stesso significato in contesto ambientale, dove un fiumicello fuoriesce da una selva.

La maggior parte dei commentatori non ritiene che Dante si trovi di fronte a una vera sorgente, ma che il fiumicello, emissario del Flegetonte, attraversi la fitta selva dei suicidi per poi scorrere nel sabbione95. Tra i pochi sostenitori della presenza di una sorgente vera e propria v’è Giovanni da Serravalle: «Tacendo devenimus illuc, unde scaturit, spiccia, extra arenam, idest fluit, unus fluviellus». La chiosa del commentatore romagnolo trova la sua giustificazione in uno dei numerosi codici che leggono «fuor de la rena», anziché «fuor de la selva» che è lezione messa a testo dal Petrocchi, il quale scarta la variante rena ritenendola un «effetto dei vv. 74, 81» nei quali compare il medesimo sostantivo96. In ogni caso, sia che l’acqua rossa abbia la sua sorgente sul

94 Un uso identico si trova già in Cv, III, XIII, 9: «dal quale, sì come da fonte primo, si diriva». 95

Così Benvenuto: « Ad quod sciendum quod iste est tertius fluvius infernalis vocatus Phlegeton, qui facit fossam in qua puniuntur violenti in proximum. Modo iste fluvius ex illa valle exit in sylvam, et labitur ad modum canalis per ipsam, et deinde transit per arenam istam».

96 Giorgio Inglese, nell’edizione dell’Inferno pubblicata nel 2007, ha messo a testo la variante «rena».

limitare esterno del sabbione97, sia che essa attraversi - non vista dai poeti - la selva dei suicidi, essa, agli occhi di Dante, sgorga, esce fuori98.

- uscire

Nella terzina successiva a quella in cui si descrive lo “spicciare” del fiumicello, ci troviamo di fronte allo sgorgare di un altro corso d’acqua. Dante istituisce un confronto tra lo scorrere del fiumicello e quello del ruscello che “esce” (If XIV 79) dal Bulicame, una sorgente di acqua calda nei pressi di Viterbo. Come abbiamo visto in apertura di questo paragrafo, il verbo uscire è di uso normale per questo concetto. In Dante lo si ritrova in Pg XXXIII 113: «Eüfratès e Tigri / veder mi parve uscir d'una fontana».

- disserrarsi

Un altro verbo che Dante utilizza per indicare lo sgorgare di un corso d’acqua è il verbo

disserrare, utilizzato con diatesi riflessiva (disserrarsi) in If XXVII 30. Guido da

Montefeltro si presenta ai pellegrini dicendo che proviene dai «monti là intra Orbino / e ’l giogo di che Tever si diserra». Il primo significato del lemma nel Vocabolario del TLIO è quello, etimologico, di «aprire (una porta o un contenitore chiuso); anche fig.», dal momento che la voce è formata dal prefisso dis- e dal verbo serrare, il quale deriva dal «lat. tardo serāre (da sĕra ‘spranga per chiudere la porta’, d’orig. sconosciuta), forse con sovrapp. di ferro)» (DELI, s.v. serrare).

 «Lo ençegnoso amore sì dessera le porte e le ferme seraie…» (Pamphilus volg., c. 1250 [venez.], [La Vecchia], pag. 73, riga 3)

 « la quale guardia sia tenuto le decte piscine guardare, e voitare, e nectare e spazzare di fuore; e l'uscia de le decte piscine, d'ogne tempo, da mane e da sera, serrare e diserrare, e ogne dì di festa» (Stat. sen., 1298, dist. 8, cap. 16, pag. 272, riga 2)

97

Lo scorrere dell’emissario del Flegetonte per via sotterranea nei pressi della selva è ammesso dal Michelangeli (op. cit., p. 52). Leggo nel saggio del Ciafardini che il Filalete è convinto dello scorrimento per via sotterranea e adduce, tra le ragioni della sua convinzione, la presenza del verbo spicciare che «per lui significa pullular di sorgente»; all’opinione del re dantista si contrappone quella del Murari, per il quale il valore di “spicciare” è attenuato dall’espressione “fuor de la selva”, la quale negherebbe la presenza di una sorgente. Cfr. E. CIAFARDINI, op. cit., p. 31.

98 Il Ciafardini, integrando l’opinione del Murari riportata nella nota precedente, afferma che «mettendo

in rapporto con la selva il fiumicello, è detto benissimo spicciare: anche noi oggi di un fiume, che, dopo aver percorso un bosco più o meno fitto e oscuro, esca in una pianura, diremmo che spicci, che sgorghi, quasi venga all’aperto».

L’uso esteso del termine in contesti militari, col significato di ‘disperdere (una schiera)’ si riscontra nei testi di Bono Giamboni, mentre è con Dante che il verbo viene utilizzato per la prima volta come termine ambientale, nella forma pronominale «si disserra». Oltre che per indicare lo sgorgare del Tevere, il verbo occorre, nel Paradiso, in riferimento alla scarica di un fulmine: «Come foco di nube si diserra / per dilatarsi sì che non vi cape, / e fuor di sua natura in giù s’atterra». Il lemma disserrarsi assume qui il significato di «venir fuori liberandosi da un impedimento» (Vocabolario del TLIO), con cui viene utilizzato anche «si diserra» in If XXVII 30, e l’azione del venir fuori di un fiume da un monte (giogo ‘sommità di monte’) altro non è che lo sgorgare, come hanno ben notato, certamente aiutati dal contesto, Benvenuto da Imola e Francesco da Buti: «de quo jugo oritur fluvius Tiberis» (Benvenuto), «cioe dal quale giogo lo fiume del Tevere, che va per Roma, nasce» (Buti).

Scorrere (#ter_scorrere): correr (If XX 76); ha corso (If XX 79)

Già negli autori latini, accanto ai più comuni fluo e mano, è presente l’uso esteso di

curro in riferimento allo scorrere delle acque. In Virgilio, ad esempio, possiamo leggere

espressioni come «dum fluvii current» (Aen., II, 607) o «spumosi amnes […] in aequora currunt» (Aen., XII, 524).

Come curro nei testi latini, il verbo correre è di uso normale nell’italiano antico per esprimere lo scorrere delle acque:

 «tanto era lo sangue ke currea sì como fiume...» (St. de Troia e de Roma Amb., 1252/58 [rom.>tosc.], pag. 327, riga 14)

 «Tigre tien altra via, / ché corre per Soria / sì smisuratamente / che non è om vivente / che dica che vedesse / cosa che sì corresse» (Brunetto Latini, Tesoretto, a. 1274 [fior. ], 978, pag. 209)

Nell’opera dantesca il verbo ha 81 occorrenze, la maggior parte delle quali si riferiscono al correre degli esseri viventi. Nelle opere antecedenti alla Commedia il lemma ha 5 occorrenze come termine ambientale delle acque interne: 1 nella Vita nova e 4 nel

Convivio. Anche in Dante il verbo esprime uno scorrere generico: il «fiume bello e corrente» della Vita nova fluisce proprio come il «rivo che da lungi corre» nel Convivio. Nel canto XX dell’Inferno si legge che acqua del Mincio inizia a «correr» (If

«Non ha molto corso [il Mincio], ch’el trova una lama» (If XX 79). L’acqua, che non può essere contenuta dal Lago di Garda, straripa, inizia a correre facendosi fiume e quel fiume, dopo aver corso per breve spazio, incontra un avvallamento, formando così la palude di Mantova.

Come si vede, nel verbo correre è sì presente il riferimento alla velocità del movimento, ma è assente qualsiasi riferimento alla pendenza del percorso del fiume.

Corrente (#ter_corrente): corso (If XIV 115); corso (If XXXII 25); corso (If XXXIV 132)

Il concetto di ‘Corrente’ rimanda a una massa d’acqua in movimento. Dante fa riferimento a questo concetto in tre luoghi dell’Inferno adoperando il sostantivo corso: il “corso” delle lacrime del Veglio di Creta si diroccia nell’inferno (If XIV 115); nella similitudine volta a illustrare lo spessore del ghiaccio di Cocito, Dante afferma che «Non fece al corso suo sì grosso velo / di verno la Danoia in Osterlicchi, / né Tanaï là sotto ’l freddo cielo» (If XXXII 25-27); infine, del ruscelletto che scorre fino dall’emisfero australe fino al centro della terra, viene detto che esso «discende / per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, / col corso ch’elli avvolge, e poco pende» (If XXXIV 130-132).

Gorgo (#ter_gorgo): gorgo (If XVII 118)

Il concetto di ‘Gorgo’ è l’equivalente italiano di Tourbillon d’eau presente nel sistema di Hallig e Wartburg e si riferisce al «vortice, mulinello d’acqua che si crea nel punto in cui il letto di un fiume o di un torrente diventa improvvisamente più profondo» (GRADIT, s.v. gorgo). Sotto questo concetto è stata classificata l’unica occorrenza dantesca del lemma gorgo. Alla fine del canto XVII Dante è sulla groppa di Gerione che discende lentamente verso Malebolge nel buio infernale. Dal momento che il pellegrino non può vedere niente in tanta oscurità, vengono riporta dapprima le impressioni tattili causate dal vento e, in un secondo momento, quelle sonore che gli fanno percepire l’avvicinamento al cerchio ottavo: «Io sentia già da la man destra il gorgo / far sotto noi un orribil scroscio / per che con li occhi ’n giù la testa sporgo» (If XVII 118-120). La voce volgare deriva dal latino tardo *gurgus, in luogo del latino classico gurges, -itis. A proposito di quest’ultimo, Isidoro scrive che «gurges propie locus altus in flumine», dove è assente il riferimento al vorticare dell’acqua. Diversa è

la definizione data da Papias, per il quale gurges è «locus vertiginosus proprie in flumine» Del resto, come si legge nel TLL (s.v. gurges), già nel lemma latino classico è presente il riferimento al vorticare: «prevalet notio aquae in profundo, praerupto sim. loco sese rapide vertentis, i.q. vorago, vertex».

Come prima definizione del termine volgare gorgo, il Vocabolario del TLIO registra quella di «punto più profondo di uno specchio d’acqua in cui si genera un vortice», anche in contesti figurati.

La chiosa di Benvenuto al luogo dantesco ricorda la definizione data da Isidoro, infatti per l’imolese il gorgo è semplicemente «aquam profundam», senz’altra specificazione. Seguendo questa interpretazione saremmo portati a classificare l’occorrenza dantesca all’interno del concetto ‘Punto molto profondo sul fondo di un corso d’acqua’, negando al lemma quel riferimento alle acque vorticose nel punto - certamente profondo - in cui termina la cascata del fiumicello. Infatti, tenendo conto dell’uso volgare del termine, il Vellutello scrive che «gorgo propriamente è dove, che'l fiume vien da qualche impedimento ad esser in parte ritenuto dal suo corso, onde in quel luogo diciamo il fiume ringorgare». Si deve quindi intendere che l’acqua cadente in Malebolge formi un gorgo, cioè un punto profondo in cui si genera un vortice, e che il rumore di quell’acqua faccia percepire a Dante la vicinanza all’ottavo cerchio99.

Ruscello (#ter_ruscello): fiumicello (If IV 108); fossato (If VII 102); ruscel (If VII 107);

fiumicello (If XIV 77) ruscello (If XIV 79); rio (If XIV 89); rigagno (If XIV 121); ruscel (If XV 2); ruscelletti (If XXX 65); ruscelletto (If XXXIV 130)

- ruscello

Il ruscello è «un corso d’acqua breve e di scarsa o media portata» (GRADIT, s.v.

ruscello). Nell’Inferno il concetto viene richiamato con varietà di lemmi, in riferimento

sia all’idrografia ultramondana che a quella terrena.

Il lemma ruscello deriva da un lat. parlato *rivuscĕllu(m), poi *riuscĕllu(m), doppio diminutivo di rīvus (DELI, s.v. ruscello). Nel corpus dell’italiano antico, la diffusione del termine, attestato per la prima volta nel Tesoretto di Brunetto Latini, è circoscritta ai soli testi toscani100. Che il ruscello non sia un fiume lo si evince già dal passo di Brunetto: «non bestia, non uccello, / non fiume, non ruscello» (Tesoretto, a. 1274

99 Dante, dopo aver accennato in più di un punto all’acqua che cade in Malebolge, non fa mai riferimento

allo scorrere dei fiumi infernali in quel cerchio. L’acqua ricomparirà, in forma solida, soltanto in Cocito.

100

[fior.]). Le occorrenze del lemma presenti nel corpus TLIO rimandano, anche in contesti figurati, a piccoli corsi d’acqua, perlopiù in contesti dove viene fatta menzione di una sorgente.

 «e li ruscelli delle tue fontane vadano fuori» (< Tesoro volg. [ed. Gaiter], XIII ex. [fior.] >, L. 7, cap. 20, 3)

 «La fontana di vita eterna che tutto giorno corre […]. […] neuno non bee di quello ruscello che non sia inebriato di quella abbondanza di gioia» (< Zucchero, Esposizione del Paternostro, XIV in. [fior.] >, p. 105, riga 3)

Il lemma ha 6 occorrenze nell’opera dantesca, 1 nel Purgatorio e 5 nell’Inferno, di cui 2 nella forma diminutiva ruscelletto. Il termine, nella forma normale o alterata, indica sempre un corso d’acqua di piccole dimensioni e, nelle occorrenze di If VII 107 e If XIV 79, un piccolo corso d’acqua che sgorga da una fonte.

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