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Adattare e adattarsi

Nel documento Caserma Pepe (pagine 57-60)

CAPITOLO 2 ABITARE LO SPAZIO

2.6 Adattare e adattarsi

Quando ha presentato la Pepe a me e ad altri tre ragazzi che vi erano appena arrivati, Giulia Mazzorin ha voluto sottolineare l’importanza del “prendersi cura del luogo” (precisamente “taking care of the place”, l’intera conversazione si è svolta in inglese). Questo concetto si è rivelato fondamentale per instaurare una relazione con l’edificio, perché per rispettarne l’identità era necessario approcciarsi ad esso con cautela, rispettandone non solo le caratteristiche fisiche, ma anche le persone che già vi lavoravano, per dovevamo adeguarci alle specificità della situazione in cui ci trovavamo inseriti per la prima volta. Prendersi cura dello spazio non poteva riassumersi in un’azione unica. Non significava solo non sporcarlo o danneggiarlo, non fare murales (come alcuni ospiti hanno proposto) o rispettare le regole e gli orari. Era un insieme di tutto questo e altro ancora, un insieme di azioni che servivano a relazionarsi con uno spazio che per la sua fragilità e indefinitezza necessitava di essere rispettato nella sua particolarità, perciò solo a partire da questo rispetto poteva nascere un rapporto stabile e duraturo.

Questo processo di adattamento l’ho visto replicato anche dopo il bando di maggio, quando abbiamo dovuto spostare le attività dalla Pepe, in cui non potevamo più stare, nella proprietà di un’amica di Giulia Mazzorin alle Vignole, l’Orto delle Vignole. Vi abbiamo trascorso qualche giorno durante un workshop organizzato da Biennale Urbana in collaborazione con il padiglione tedesco della Biennale di Venezia che ha coinvolto per le ultime tre settimane di giugno degli studenti universitari da diverse città della Germania. Dalla costruzione delle docce solari alla predisposizione delle tende in cui dormire, il lavoro di preparazione che abbiamo svolto è stato essenziale per rendere abitabile un luogo che non aveva mai ospitato così tante persone che vi pernottassero. Su questa esperienza avrò modo di tornare, per ora mi limito a sottolineare che anche in questa nuova situazione di utilizzo di uno spazio è rintracciabile quel procedimento fisico e mentale di orientamento che già era avvenuto nella ex caserma. Alla fine dei quattro giorni che abbiamo trascorso alle Vignole, Biennale Urbana vi aveva addirittura predisposto un ufficio. Questo consisteva in una semplice scrivania, che riusciva però a rendere anche la nuova località adatta al lavoro. Nonostante l’orto fosse ancora in uso, e quindi non abbandonato come la ex caserma, c’è stato comunque bisogno di rendere ordinato lo spazio, reinterpretandolo secondo le nostre necessità. Il prato è diventato il dormitorio grazie alle tende, la polveriera presente sull’isola è diventata la sala da pranzo, ma anche laboratorio del workshop. Siamo riusciti ad adattare lo spazio solo dopo un

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lavoro che ci ha impegnati per giorni, prima e durante la nostra permanenza lì. Rispettare le caratteristiche dell’Orto così com’era prima del nostro arrivo è stato ancora più importante di quanto lo fosse nella ex caserma, perché mentre in quest’ultima avevamo una maggiore libertà nella reinterpretazione dello spazio (sempre entro i limiti della concessione), l’Orto ha ancora una propria specifica identità. Tutto quello che abbiamo installato sull’isola doveva quindi essere mobile e temporaneo, non poteva intaccare in maniera permanente lo spazio, che dopo la nostra partenza è tornato alla sua funzione originale.

Nel corso dell’anno che ho passato a fianco di Biennale Urbana e del gruppo di persone che ha lavorato con l’associazione, ho avuto modo di vedere come in ciascuno degli spazi avuti a disposizione sia sempre stato possibile operare quel ri-ambientamento necessario per fare “mente locale” (La Cecla, 2000), ovvero per ricostruire una relazione tra lo spazio e chi lo occupava. L’orientamento doveva passare necessariamente per un primo momento di spaesamento e “fuor di luogo”, che nel caso della ex caserma erano dati dalla natura stessa dell’edificio, mentre nel caso dell’Orto erano dovuti piuttosto al suo contrasto con quanto avevamo conosciuto fino a quel momento, e al momento particolare in cui l’abbiamo abitata. Abbiamo conosciuto le Vignole subito dopo i risultati del bando, quando abbiamo scoperto di non avere più la possibilità di rimanere in Pepe e gli architetti di Biennale Urbana sono stati costretti a trovare una soluzione alternativa per poter continuare il loro lavoro. Adattarsi all’Orto non ha significato solo adattarsi a un nuovo spazio, ma, più in generale, prendere coscienza di una nuova situazione che ha creato molte difficoltà non solo a livello organizzativo, ma anche nelle relazioni personali all’interno del gruppo, impegnato in un processo di costruzione di “place identity”, ovvero della congruenza tra l’immagine di sé e quella del luogo in cui si vive (o, in questo caso, lavora) (Baroni, 2008: 77). La “place identity” non è l’attaccamento a un luogo particolare, ma è costituita dalle “dimensioni che definiscono l’identità personale dell’individuo in relazione all’ambiente fisico” (77). Questa relazione aiuta l’individuo a mantenere la coscienza della propria identità nel tempo. Nel caso della Pepe, ma anche della Casa Rossa, più che all’identità delle singole persone, questo concetto è applicabile all’intera comunità formata da chi le ha abitate e che si identificava proprio per la comune partecipazione dei suoi membri ai lavori che vi svolgevano e al tempo che vi avevano dedicato. Nel prossimo capitolo cercherò di spiegare chi faceva (o fa ancora) parte di

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questa comunità. La ex caserma ha infatti ospitato una grande varietà di individui che senza di essa non avrebbero probabilmente mai trovato un punto di incontro a Venezia.

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CAPITOLO 3

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