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Appropriarsi dello spazio

Nel documento Caserma Pepe (pagine 50-53)

CAPITOLO 2 ABITARE LO SPAZIO

2.1 Il Forte San Nicolò del Lido

2.3.4. Appropriarsi dello spazio

Oltre agli skater, molte altre persone hanno costruito qualcosa nella ex caserma, contribuendo a modificarne l’aspetto esteriore e l’identità, rendendola sempre più distante dal suo passato, e togliendola da quell’inattività che l’aveva caratterizzata prima della passeggiata esplorativa del 2014. Se con le parole resta difficile definire la Pepe, guardando alla pratica di ciò che vi è stato concretamente fatto diventa meno complicato comprenderla. Con il passare del tempo e della permanenza di Biennale Urbana e di chi nel corso degli anni si è avvicinato e ha cominciato a frequentare lo spazio si sono create delle modalità di utilizzo che hanno reso più familiare l’ambiente, il quale a poco a poco è stato in gran parte occupato, con un percorso che è partito dall’esterno, cioè dall’ingresso, ed era arrivato quasi ovunque. Ci sono stanze, addirittura, che erano diventate “di qualcuno” perché ci ha lavorato a lungo, magari lasciando un’istallazione artistica. È questo il caso di Antonia, un’artista inglese che ho conosciuto il primo giorno che ho passato in Pepe, e che proprio in quel periodo stava creando la sua opera, rimasta intatta fino a quando abbiamo dovuto smontare tutto. La stanza in cui si trovava la sua opera è ancora adesso, quando se ne parla, “la stanza di Antonia” [fig. 10 e 11], in un’attribuzione di identità che passa dalla pratica dell’uso dello spazio. Oltre a questo esempio, ce ne sono molti altri, come la falegnameria o l’atelier, che erano le stanze usate più spesso e da più tempo, e che quindi sono state rinominate in base al loro uso. Dare un nome ai locali è un modo di ordinare lo spazio, di fare “mente locale”, come scrive La Cecla: se, infatti, essere fuor di luogo accade quando uno spazio non corrisponde all’idea che ne abbiamo, la risposta a questa condizione è l’orientamento. Perdersi è la situazione iniziale necessaria per potersi ritrovare, e questo accade dopo un processo culturale di adattamento all’ambiente, che a sua volta viene modificato in modo da diventare conosciuto e familiare (La Cecla, 2000: 16). Stalker, di cui ho parlato all’inizio di questo capitolo, quando cammina fa questo: cerca di conoscere di nuovo la città passando per i suoi luoghi abbandonati, per le pieghe che si sono create nell’industrializzazione e urbanizzazione, in un tentativo di modificare il rapporto che la società ha instaurato con i territori che occupa, che vengono fruiti, più che percepiti (91). Per fruire di un ambiente è necessario sentircisi al sicuro, nel senso di essere sicuri di dove ci si trova, e questo non può avvenire se non sembra di conoscerlo. Nella città

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contemporanea è un problema che fatica a porsi perché si riproduce ovunque e sempre uguale un orientamento standardizzato, che elimina le differenze e non permette di riflettere sulla realtà intorno, con cui si smette di interagire (91-92). In questo periodo storico siamo educati a concepire il mondo non come un insieme di luoghi diversi e con caratteristiche singolari, ma come un insieme di occasioni e azioni simili che si possono riprodurre sempre uguali in diversi punti del pianeta (90). A Venezia questo è un rischio ancora più reale che in altri luoghi, perché lo spopolamento della laguna, unito alla turistificazione, sta rendendo la città sempre più “a misura di visitatore”, favorendo l’apertura di strutture ricettive e sistemi di accoglienza che accompagnano il turista nella sua visita, senza permettergli di sentirsi sperduto e disorientato. Per questo luoghi come la Pepe sono così importanti, perché sono al di fuori dell’ordine culturale che governa la relazione con la città e costringono chi la frequenta a lavorare attivamente per poter ristabilire quest’ordine e a ragionare sui processi che lo hanno formato, ridefinendo anche la propria posizione nello spazio sociale, non solo in quello fisico.

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Figura 11: l’installazione nella “stanza di Antonia” (2018). Fonte: Antoniabeard.com.

Dare poco valore all’orientamento e alle differenze che esistono tra i luoghi ha messo in ombra anche l’altro elemento della relazione con lo spazio, ovvero il corpo, che è quello che percepisce la posizione e “l’essere qui”, una condizione necessaria per trovarsi e non essere più dispersi. Orientarsi, come ho già detto, non è però solo percepire cosa abbiamo intorno, ma riuscire anche a definirlo, e per farlo bisogna adattarcisi e adattarlo, in uno scambio che modifica non solo lo spazio, ma anche chi vi si trova. Parlare di fisicità della Pepe obbliga a parlare anche di fisicità di chi l’ha abitata, che con la sua sola presenza l’ha modificata, in una interazione che ha necessariamente coinvolto almeno due soggetti. Facendo un esempio banale, quando la ex caserma è stata inserita insieme ad altri luoghi nell’itinerario della camminata esplorativa del 2014 durante la quale Mazzorin e Curtoni vi sono entrati la prima volta, ha smesso di essere abbandonata ed esclusa dal tessuto urbano. Questo è stato l’inizio di un percorso che si è sviluppato di pari passo con l’approfondirsi del rapporto tra i due architetti e l’edificio. A partire da un’esplorazione informale sono arrivati ad organizzare Esperienza Pepe, un progetto che ha portato centinaia di persone nella ex caserma come non succedeva dai tempi della leva, e che ha quindi comportato la necessità di rivalutare nuovamente la gestione dello spazio. Da visitatori informali Giulia Mazzorin e Andrea Curtoni, nella forma giuridica di Biennale Urbana, si sono trovati a essere in un certo senso i custodi della Pepe e a dover coordinare un numero consistente di individui al suo interno. Per farlo sono stati aiutati da una squadra che si è dovuta allargare, includendo persone che

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sono state più o meno costanti nella loro frequentazione della ex caserma, e che, come vedremo, ha continuato ad esistere anche dopo la fine della concessione.

Nel documento Caserma Pepe (pagine 50-53)