CAPITOLO 1 UN PROGETTO CULTURALE A VENEZIA
1.6 Scegliere un progetto culturale
Quando ho sentito Maria Francesca De Tullio parlare della sua esperienza all’interno de L’Asilo, mi sono quasi subito apparse chiare le differenze e le somiglianze con quanto ho avuto modo di osservare durante la mia ricerca. Come ho già detto, la ex Caserma Guglielmo Pepe non è mai stata considerabile giuridicamente un bene comune, poiché la proprietà statale è sempre rimasta invariata, e Biennale Urbana era la beneficiaria di una concessione per il suo uso temporaneo. Al contrario, l’Asilo è stato riconosciuto come “bene comune emergente” (De Tullio, Riccio, 2017: 1) e non è stato affidato a una persona o un ente specifico, dato che il Comune di Napoli ha riconosciuto la capacità dell’Assemblea di autogestirsi, senza il bisogno di un ente ufficiale, come era invece Biennale Urbana per la ex caserma. La gestione dei due spazi è infatti molto diversa: nella ex caserma i responsabili erano Curtoni e Mazzorin, che si occupavano dell’organizzazione e del coordinamento degli eventi. Le proposte che arrivavano, ad esempio, per un progetto o un’installazione, passavano obbligatoriamente attraverso il loro giudizio. Anche quando ad avere il contatto con l’ente o la persona che desiderava
33
usare lo spazio dell’edificio era qualcun altro del gruppo che li aiutava, erano comunque loro ad avere l’ultima parola al riguardo. Questa differenza tra le modalità di amministrazione è ovviamente dovuta alla diversa natura della presenza nei due immobili. Mentre l’Assemblea è orizzontale e la responsabilità è condivisa da tutti coloro che vi partecipano, Biennale Urbana era la beneficiaria della concessione, per cui la responsabilità era ufficialmente solo dei suoi soci. Chiunque volesse fare qualcosa doveva avere il loro consenso, e questo che creava una gerarchia, sebbene non rigida. In questo senso la gestione comunitaria dell’Asilo assomiglia di più a quella del Teatro Marinoni, che era affidata a un comitato, il Comitato Teatro Marinoni Bene Comune, il quale aveva una struttura orizzontale, per cui le decisioni venivano prese da tutti coloro che ne facevano parte, similmente a quanto avviene nelle assemblee dell’Asilo. Oltre a questo, anche la natura della presenza dei membri del Comitato è la stessa che caratterizzava, almeno inizialmente, quella dell’Assemblea, che prima del riconoscimento da parte del Comune di Napoli occupava lo spazio in maniera informale.
La differenza tra la modalità di gestione del Teatro e quella della ex caserma non è casuale, bensì frutto di una scelta fatta da Curtoni e Mazzorin, che dopo l’esperienza dell’informalità del Teatro, hanno voluto “sperimentare la continuità della pratica all’interno di un contenitore protetto” (Mazzorin 2018: 537). Descrivendo cosa volesse dire per lei avere una concessione d’uso che ufficializzava la sua presenza all’interno di uno spazio, l’architetto ha elencato la certezza di poter utilizzare lo spazio per un certo arco di tempo, la responsabilità nella gestione e l’autorevolezza nel poter prendere delle decisioni che riguardano le regole di comportamento all’interno dello spazio (537). Questi tre punti riassumono in maniera piuttosto chiara perché sia necessario un dialogo con le istituzioni per poter rendere uno spazio urbano sicuro, in modo tale che possa fungere da “spazio di vita” ed essere utile alla città. Una situazione informale come quella del Teatro Marinoni, o anche dell’ex Teatro di Anatomia, non permette di avere certezze sulla continuità di quello che si sta facendo nell’edificio, rendendo precari anche gli equilibri all’interno della comunità che vi si riunisce. Anche nelle testimonianze dei veneziani che ho sentito parlare delle proprie lotte era rintracciabile una certa stanchezza dovuta alla lunga durata delle loro azioni e dalla frustrazione legata all’indifferenza, se non aperta ostilità, da parte delle istituzioni. Questi sentimenti li abbiamo percepiti anche noi quando abbiamo dovuto svuotare la ex caserma e smontare le strutture che vi erano state costruite nel corso del tempo. Mentre all’inizio, subito dopo l’esito del bando, l’umore era alto
34
perché speravamo di avere ancora la possibilità di poter fare qualcosa per cambiare la situazione, a giugno era notevolmente più basso, perché ormai era chiaro che non ci restava altro da fare se non lasciare lo spazio alla nuova gestione.
La scelta di non continuare a lottare per poter rimanere in Pepe non è stata facile, tuttavia è stata in linea con la gestione del luogo che fino a quel momento gli architetti di Biennale Urbana avevano mantenuto: per loro la Pepe era un progetto culturale, non una lotta urbana. Non avevano iniziato a lavorare nello spazio attraverso un’occupazione, avevano cercato una legittimazione da parte dello Stato, la quale aveva permesso loro di sfruttare le possibilità che un edificio come la ex caserma poteva offrire, senza dover contemporaneamente occuparsi del conflitto con l’autorità. Come ha detto Giulia durante una conversazione con alcuni studenti dello IUAV venuti a visitare la ex caserma, quello che conta sono le “risorse umane”, più che lo spazio in sé, che per quanto importante, sia a livello artistico e storico, sia a livello affettivo, non poteva venire prima della comunità che si era formata nel corso del tempo dentro la Pepe. Ritornando a quanto ho detto nel corso di questo capitolo riguardo lo stare bene in città per poter raggiungere uno stato di benessere, è evidente che uno spazio non protetto e non sicuro non può essere in tal senso funzionale alla comunità fino in fondo. Questo è vero soprattutto se la comunità si è formata in un momento in cui, invece, la protezione c’era, e l’improvvisa mancanza di essa può provocare un cambiamento negli equilibri del gruppo (e come questo è poi effettivamente successo in Pepe). Una situazione di illegalità può tenere lontane persone che magari vorrebbero usufruire dello spazio, ma temono le ripercussioni che questa potrebbe avere, mentre la legalità dà la sicurezza a chi gestisce il luogo di avere il diritto di stare lì, e di poterlo quindi aprire a chiunque.
Nell’ultimo anno (da aprile 2018 a maggio 2019) nel quale Biennale Urbana ha lavorato nella ex caserma, quest’ultima è diventata uno spazio urbano in cui era possibile raggiungere quel benessere di cui ho già parlato. Lì si concretizzava, anche se in scala ridotta, il diritto di plasmare la città che Harvey fa coincidere con il diritto alla città, poiché chi entrava nell’ambiente della Pepe aveva la possibilità di trovare un proprio spazio in cui esprimersi, in cui stare bene, secondo le proprie inclinazioni personali. Nel corso della mia ricerca ho incontrato artisti, architetti, cuochi e studenti che, collaborando con Biennale Urbana, sono riusciti a far diventare la ex caserma “la Pepe”. L’edificio era un ambiente in cui chiunque entrasse e vi rimanesse sufficientemente a lungo poteva
35
trovare un modo di stare bene a Venezia, una città che, come abbiamo visto, offre sempre meno opportunità di questo tipo.
Per le modalità con cui è stato indetto e per i requisiti che bisognava soddisfare per potervi partecipare, il bando indetto dall’Agenzia del Demanio che a maggio ha decretato la fine della permanenza di Biennale Urbana nella ex caserma ha dimostrato che anche questa volta, come negli altri casi di cui ho parlato, la priorità è stata data al valore economico dell’immobile, più che a quello civico. Per vincere la gara e ottenere così la concessione, infatti, bastava offrire di pagare un canone mensile più alto rispetto agli altri partecipanti, e non era necessario presentare un progetto definito che illustrasse come si sarebbe impiegato lo spazio nel periodo di utilizzo fissato tra i sei e i dodici mesi. Nel momento in cui scrivo Fispmed non ha ancora chiarito quali siano i piani per la ex caserma, e non sono ancora iniziati i lavori di restauro che erano stati annunciati subito dopo l’esito del bando. La modalità di assegnazione scelta dal Demanio ha penalizzato Biennale Urbana, che ha possibilità economiche più limitate rispetto a Fispmed, la quale è stata in grado di offrire una cifra più alta e ottenere così la concessione di sei mesi. Questo ha posto fine ai progetti che stavamo portando avanti nella ex caserma, e ci ha costretti a cancellare qualsiasi traccia materiale della nostra presenza nell’edificio, anche se, come vedremo, questo non ha posto fine al lavoro di Biennale Urbana.
36