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Ma se si esce dalla “culla” dei minorenni, le cose cambiano.

Eppure sempre di rieducazione dovrebbe trattarsi, perché, come ci dice l'art. 27 della Costituzione, questo dovrebbe essere lo scopo principe della pena. Ma non è sempre così, non è questa idea a permeare l'interezza del regime penale italiano.

Sulla base di un’interpretazione delle norme costituzionali nel loro complesso, oggi dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'affermare che per “rieducazione” debba intendersi più propriamente “risocializzazione”, ossia un percorso volto al recupero e al reinserimento del reo nella società;vale a dire, quindi, un cammino verso la (ri-)acquisizione dell'importanza del dovere di 81 Intervista al direttore del Dipartimento di giustizia minorile del 14

aprile 2014,dal sito:http://www.laricerca.loescher.it/istruzione/832-

rispettare quei valori e interessi superiori calpestati con la condotta penalmente perseguibile. Si tratta di valori e interessi necessariamente diffusi e condivisi dalla grande maggioranza della popolazione. Per colui che commette un reato le attività e procedure di applicazione di una sanzione penale prevedono l’adozione di particolari metodi e di un trattamento adeguato.

Le attività e procedure di applicazione di una sanzione penale nei confronti di una persona condannata comportano l’adozione di particolari metodi e di un trattamento adeguato, dunque il trattamento penitenziario costituisce quell’attività dello Stato rivolta ad attuare concretamente la sanzione penale irrogata dall’autorità giudiziaria nei confronti del condannato, allo scopo di rieducarlo e consentirgli la piena reintegrazione nella società. Come stabilito nella sentenza della Corte Costituzionale n.204/1974 la durata della pena deve essere commisurata all’effettiva rieducazione del reo, di conseguenza il trattamento penitenziario deve consentire al condannato il graduale riacquisto di consapevolezza, libertà e autonomia in rapportato ai risultati conseguiti nel percorso di risocializzazione. Infatti il reo dovrebbe essere ben disposto verso il percorso di ri-acquisizione dei valori violati se, e solo se, sentirà la pena come giusta per sé, in questo modo egli potrà disporsi favorevolmente verso questa prospettiva senza alcuna imposizione. Una pena giusta sarà per tanto quella eseguita, eseguita con modalità

non contrarie al senso di umanità e volta alla ri-acquisizione dei valori fondamentali violati dalla condotta del reo: questo chiede la nostra Costituzione, questo deve quindi verosimilmente intendersi per “rieducazione” - meglio, “risocializzazione”- del reo. Tuttavia, questi concetti si fanno più traballanti quando si parla di ergastolo82. Se per rieducazione s'intende acquisizione della capacità di vivere nell'ambiente sociale e non già pentimento interiore del colpevole, non si comprende come siffatto obiettivo possa essere conseguito attraverso una pena perpetua. L'ammissione degli ergastolani alla liberazione condizionale, avvenuta con l'entrata in vigore della l. 25 novembre 1962, n. 1634, ha notevolmente ridimensionato il contrasto tra il finalismo rieducativo e la pena perpetua, raccogliendo alcune istanze del dibattito penalistico che si era svolto fino a quel momento sulla tematica.

Inoltre, come già accennato, qualche anno dopo arriva la ribattuta della Corte Costituzionale del 1974 a sostenere appunto che sul terreno concreto dell’esecuzione penale, una serie di istituti83 82 Enciclopedia Treccani. Ergastolo: Pena detentiva consistente nella

privazione della libertà personale per tutta la durata della vita del reo. Fu introdotto per la prima volta nel codice penale del 1889 per

sanzionare i delitti più gravi puniti in precedenza con la pena di morte o con i lavori forzati. Oggi è previsto e disciplinato dall’art. 22 del codice penale del 1930. La pena è perpetua ed è scontata in uno degli

stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Il condannato all’e. può essere ammesso al lavoro all’aperto 83 M. CANEPA – S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè,

consentono la restituzione del condannato alla società libera, purché ne sia acclarata l’effettiva partecipazione all’opera di rieducazione. Ma anche questa interpretazione non ha convinto del tutto della possibile rieducazione insita nella pena detentiva, non solo, si potrebbe obiettare che la Corte avrebbe evitato di pronunciarsi, come sottolinea Pugiotto84 «sulla relativa disposizione, che parla, testualmente, di “pena perpetua” (art. 22 c.p.).

Così, invece di sindacare il testo legislativo impugnato, [la Corte costituzionale] ha finito per giudicare impropriamente della sua occasionale disapplicazione».

«Occasionale» proprio perché non è affatto detto che tutti gli ergastolani abbiano la concreta speranza – dopo un certo tempo e a certe condizioni – di poter recuperare la propria libertà85, il che

Milano, 2010, p. 398.: “In luogo dell’astratta perpetuità della pena dell’ergastolo, può avvenire, sul terreno dell’esecuzione, che il condannato sconti in concreto (nell’ipotesi di integrale concessione della riduzione di pena per liberazione anticipata, che si considera – anche per gli ergastolani – come pena espiata, ai sensi dell’art. 54, c. 4, ult. parte, l. 354/1975, come modificato dalla l. n. 663/1986) 16 anni di pena, prima di poter accedere al regime di semilibertà, e 21 anni di pena, prima di poter accedere alla liberazione condizionale. Tale schema, tuttavia, non tiene conto degli inasprimenti dei presupposti per la concessione dei citati benefici, introdotti dalla l. n. 203/1991 e dalla l. 251/2005”

84 A. PUGIOTTO, Una quaestio sulla pena dell’ergastolo, p. 4. 85 F. CORLEONE – A. PUGIOTTO, Quando il delitto è la pena, in F.

dimostra quanto sia ambiguo e ricco di incomprensioni il giudizio sulla legittimità costituzionale di questa una pena. Basti pensare, a tal proposito, ai c.d. «ergastoli ostativi».

3.3.1 Il problema dell'ergastolo ostativo.

Se la disciplina dell'ergastolo è già di per sé sufficientemente discussa e controversa, quando si tratta di ergastolo ostativo le divergenze si moltiplicano. Per alcuni delitti di particolare gravità, vale a dire di matrice mafiosa o terroristica (c.d. reati ostativi), si viene condannati alle condizioni stabilite dall’art. 4-bis ord. penit.,la fattispecie che la dottrina denomina ergastolo ostativo.

In questo caso l’ergastolano non può accedere ai benefici penitenziari salvo che collabori con la giustizia o che tale collaborazione sia impossibile o irrilevante. Come si può ben immaginare, tutto questo ha aperto un dibattito dottrinale poiché parte della dottrina86 si è

morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Ediesse, Roma,

2012, pag 206ss: “Secondo dati ufficiali del Dipartimento

dell’amministrazione penitenziaria, al 31 dicembre 2014 erano 1584 i detenuti in espiazione della pena dell’ergastolo; al 18 maggio 2012, su 1.538 condannati all’ergastolo, 220 avevano già effettivamente scontato una pena compresa tra i venti e i venticinque anni e per altri 143 la durata della reclusione era già oltre i venticinque anni. «Una

percentuale – rispettivamente – del 15% e del 10% che dimostra come l’ergastolo esista davvero, e non sia un mero spauracchio simbolico»

86 A. PUGIOTTO, Quando la clessidra è senza sabbia. Ovvero: perché

convinta che in fase esecutiva, questa tipologia di condanna per i reati ostativi finisca per trasformare l’ergastolo in una vera e propria pena perpetua senza possibilità di accedere ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale, ponendo quindi seri dubbi di legittimità costituzionale. Un disciplina così severa nasce dall'esigenza del legislatore di fronteggiare la criminalità di stampo mafioso nei primi anni novanta, in particolare il d.l. 152/1991 (convertito con la l. 203/1991) inasprì il circuito trattamentale di quei soggetti autori di gravi reati legati alla criminalità di stampo mafioso87.

Si interveniva, appunto, con l’esclusione o la limitazione all’accesso delle misure alternative e degli altri benefici penitenziari, introducendo d'altro canto rilevanti disposizioni a favore dei collaboratori di giustizia.

Il risultato finale è la configurazione del 4-bis ord. penit. con il d.l. 11/2009 (convertito con la l. 38/2009) e con la l. 172/2012.

La collaborazione prevista dall’art. 58-ter ord. penit. è una vera e propria “clausola di salvezza88” volta inizialmente ad esonerare i condannati collaboranti dall’applicazione delle disposizioni che inasprivano i termini per l’accesso ai benefici penitenziari.

cura di), Il delitto della pena, Roma, 2012, p. 126 ss.

87 Cfr. B. GUAZZALOCA – M. PAVARINI, L’esecuzione penitenziaria, in

F. BRICOLA – V. ZAGREBELSKY (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Torino, 1995, p. 303 ss.

Si può collaborare adoperandosi per evitare conseguenze ulteriori dell’attività delittuosa: condotta post-delictum dai contorni indefiniti, diversa dal recesso attivo (non richiede un comportamento diretto ad impedire l’evento del reato). Il punto è che si tratta di una condotta collaborativa che prescinde da qualsivoglia “intendimento o concretizzazione di aiuto alla giustizia89”.

Altrimenti si può collaborare in concreto dando aiuto all’autorità investigativa, tramite una condotta che abbia riscontri sotto il profilo delle conseguenze fattuali che debbono tradursi in un danno obiettivo all’organizzazione e cioè l’apporto che “non risulti oggettivamente irrilevante e che quindi abbia una reale efficacia90”.

Accedono infine a benefici anche coloro la cui collaborazione risulti irrilevante, vale a dire “concretamente inutile” ai fini delle indagini o dell’accertamento delle responsabilità di terzi, oppure impossibile quando si è di fronte l’impossibilità di prestare un’utile collaborazione per la limitata partecipazione al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna ovvero per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile.

Ricapitolando per i condannati all’ergastolo la permanenza in 89 G. DI GENNARO - R. BREDA – G. LA GRECA, Ordinamento

penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1991, p. 284.

carcere, decorso un certo periodo di tempo, può cessare grazie alla concessione dei benefici penitenziari ex legge “Gozzini”, mentre per gli ergastolani condannati per aver commesso delitti ritenuti di particolare allarme sociale, la concessione di tali benefici è diventata legislativamente subordinata alla collaborazione. Se non collaborano la pena è il carcere a vita. Come già affrontato, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 264/1974, ha dichiarato che l’ergastolo non contrasta con il principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena, sancito dall’art. 27, co. 3, Cost., in quanto,l’ergastolano può ottenere, dopo un determinato numero di anni, il beneficio della liberazione anticipata.

In breve, la Corte avrebbe affermato che l’ergastolo non è incostituzionale purché non sia ergastolo, ossia non sia pena irreversibilmente perpetua. Ma lo stesso non si può affermare nel caso del 4-bis: l’articolo in esame pone molte questioni problematiche. Anzitutto va ricordato che la collaborazione in questo ambito diventa una condicio sine qua non, un comportamento produttivo di vantaggi altrimenti non conseguibili91, trasformando l'esecuzione della pena in strumento di pressione diretto all’ottenimento della collaborazione. Ne consegue che una consistente parte della dottrina si oppone al premio per la 91 A. PRESUTTI, Alternative al carcere, regime delle preclusioni e

sistema della pena costituzionale in A. PRESUTTI (a cura di),

collaborazione: l'esecuzione rischia di non risultare più finalizzata alla risocializzazione. Ed è qui che entra in gioco la rieducazione e tutta la problematicità nel rinvenire un nesso tra questa e la collaborazione. I due concetti, infatti, non si implicano vicendevolmente: si può collaborare senza che ci sia stato un ravvedimento interiore. Naturalmente non è mancato un intervento della Corte con la sentenza n. 306/1993, pronunciandosi sull'incompatibilità tra l’art. 4-bis ord. penit. e il disposto dell’art. 27 co. 3 Cost. La decisione ribadisce la piena legittimità della scelta del legislatore “di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia”. La Corte tuttavia riconosce che la soluzione adottata, di inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena92”.

Un'altra parte della dottrina, al contrario, attribuisce alla collaborazione il significato di un forte gesto di rottura dei legami tra il condannato e la criminalità organizzata, esemplificativo di di una condotta inequivocabile da parte dello stesso verso la redenzione. Ma sembra che non si possa dare una visione così semplice e 92 La tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di

proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario.

sbrigativa della faccenda. Anche la Corte, pur pronunciandosi a sostegno della legittimità costituzionale del 4-bis., non rinuncia ad esprimere le proprie perplessità, affermando che “la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il sistema penitenziario”., prosegue mettendo in luce la “preoccupante tendenza alla configurazione normativa di tipi di autore, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita. Inoltre, non può non destare serie perplessità, pur in una strategia di incentivazione della collaborazione, la vanificazione dei programmi e percorsi rieducativi”.93

In conclusione la Corte, pur operando alcune modifiche sul testo dell’art. 4- bis ord. penit., ne ha riconosciuto la legittimità costituzionale, spiegando che la ratio della disciplina vede la collaborazione come unico modo per rompere il legame con l’associazione criminale e seguire un percorso rieducativo, conforme al dettato dell’art. 27 Cost., consono e coerente alla scelta di collaborare94.

Il fatto che la Corte abbia dato la sua versione, non è bastato a 93 Corte cost. 7 agosto 1993, n. 306;

94 A. DELLA BELLA, Il regime detentivo speciale del 41-bis,p. 130. “Un

ormai consolidato sapere, formatosi sulla base di un’esperienza giudiziaria secolare, ci dice che dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso si esce con la morte o con la collaborazione, altre vie d’uscita non ce ne sono.

placare il dibattito sull'argomento, che è proseguito tra opinioni favorevoli o contrarie. Chi non è d'accordo con la giurisprudenza italiana, infatti, si appella a pareri extra-nazionali come le fonti internazionali ed europee che vietano tortura e «pene o trattamenti inumani o degradanti», primo tra tutti l’art. 3 della CEDU.

C'è poi anche il richiamo alla recente pronuncia95 della Corte di Strasburgo, in cui si condanna quell'ergastolo che non ammetta alcuna possibilità di revisione, in quanto una persona condannata all’ergastolo senza alcuna prospettiva di un fine pena non è stimolata a riflettere sul proprio percorso rieducativo.

Infine, gli oppositori dell'ergastolo ostativo si appellano al contrasto col concetto di dignità96, la quale non deve essere suscettibile di riduzioni per effetto di bilanciamenti con altri principi.

Tutte queste obiezioni fanno presumere che la discussione sia presto pronta a riaprirsi, magari anche di fronte ai giudici costituzionali. E se, una parte della dottrina sta attendendo un nuovo confronto, dietro le sbarre c'è sicuramente chi spera che questo momento non tardi ad arrivare.

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