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Alcuni pensieri su “Charlie Hebdo”, la libertà d’espressione e

le leggi liberticide

LUCA PASQUET (*)

Come cambia il vento. Qualche mese fa, paesi come il Regno Unito e l’Italia discutevano se criminalizzare l’istigazione all’omofobia e alla transfobia. Oggi, dopo l’attentato al settima- nale umoristico Charlie Hebdo, la parola d’ordine, nei media e nel discorso politico, sembra essere: la libertà d’espressione è as- soluta; bisogna tollerare di tutto nel nome della democrazia e della libertà. Infine, pochi giorni dopo il bagno collettivo di reto- rica sulla libertà d’espressione, il discusso comico francese Dieudonné è stato arrestato per aver postato su twitter la frase: “je suis Charlie Coulibaly”. Se è innegabile che nessuna espres- sione d’opinione, in nessuna forma, può giustificare un plurimo omicidio (ma non dovrebbe giustificarlo neanche il crimine più efferato) è al tempo stesso legittimo porsi alcune domande sui limiti della libertà d’espressione, anche con riguardo alla forma della caricatura umoristica: questa libertà è davvero assoluta, è bene che lo sia, e, infine, l’applicazione degli eventuali limiti è selettiva o uguale per tutti? I due livelli (la condanna di un omi- cidio arbitrario e i limiti della libertà d’espressione) sono distinti, e confonderli non aiuta a comprendere.

In primo luogo bisogna sfatare un mito, rinforzato dalla reto- rica post-attentato degli ultimi giorni: la parola, e persino l’immagine in forma di caricatura, non sono sempre innocenti ed innocue. La comunicazione può umiliare ed uccidere. Un giuri-

( * ) Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra.

sta e sociologo dello spessore di Gunther Teubner ci ricorda che, per quanto il diritto possa solo attribuire ad una “persona” l’attentato al corpo e alla mente di un individuo, ciò che davvero tortura, umilia ed offende l’essere umano è l’anonymous ma-

trix della comunicazione. Afferma Teubner: “communication

becomes autonomous from people, creating its own world of meaning separate from the individual mind. This communication can be used by people productively for their survival, but it can also (…) turn against them and threaten their integrity, or even terminate their existence. Extreme examples are: killing through a chain of command, sweatshops as a consequence of anony- mous market forces, martyrs as a result of religious communica- tion, political or military torture as destruction of identity” (G. Teubner, “The Anonymous Matrix: Human Rights Violations by ‘Private’ Transnational Actors”, Modern Law Review, 2006, p. 335).

La comunicazione crea la realtà in cui viviamo. Per parafra- sare Niklas Luhmann il ruolo della società, ridotta a comunica- zione, è di attribuire un senso al mondo. Sono gli slogan, le idee, le convinzioni che circolano nella nostra società a fare di un omosessuale un lussurioso ammalato, di una donna una creatura debole e stupida, di una persona di colore un selvaggio ed uno schiavo, di un ebreo un venale senza cuore, di un musulmano un terrorista. Inoltre la comunicazione verbale o scritta dà spesso vi- ta ad altre forme di comunicazione, aventi una ricaduta fisica di- retta sull’essere umano. Il fatto di presentare l’elettroshock o la lobotomia come cure mediche ha portato milioni di esseri umani ed essere torturati. Il fatto di considerare l’omosessualità un cri- mine ha portato ad imprigionare o castrare chimicamente degli esseri umani.

Presentando il suo libro Les âmes blessées, nel corso di una trasmissione televisiva francese, il neuropsichiatra Cyrulnik ha commentato gli attentati di Parigi sottolineando come ogni ti- po di integrismo, dal nazismo all’islamismo radicale, si diffonda grazie alla comunicazione di slogan semplici che il ricevente ri- pete meccanicamente, illudendosi di aver compreso un concetto, in uno splendido esempio di “pensiero pigro”. Si tratta di un meccanismo che conosciamo bene nell’era della politica populi- sta: gli immigrati portano malattie, i gay contagiano i giovani, e gli zingari rubano. E, a meno che non vengano istituzionalizzati dei meccanismi sociali capaci di limitare questa diffusione, gli slogan continueranno ad essere riprodotti, perché non costano né

denaro né sforzo intellettuale, e permettono di conquistare con- senso e potere.

Ora, seguendo un approccio luhmanniano per cui ogni inte- razione sociale può essere collocata in un processo comunicati- vo, autori come Verschraegen e Teubner configurano i diritti umani come uno dei possibili meccanismi sociali volti a limitare le esternalità negative della comunicazione. Essi funzionano co- me filtri, e rendono possibile una “contro-comunicazione” espressa in termini di divieto giuridico. Non tutto può essere tra- smesso: la tortura, la discriminazione, la presunzione di colpevo- lezza e altri tipi di comunicazione vanno bloccati e sanzionati.

Un paradosso su cui ragionare è che la libertà d’espressione dell’individuo è essa stessa un filtro diretto a bloccare le comu- nicazioni aventi come scopo la censura. L’idea è che il potere politico non può privare un individuo della possibilità di comu- nicare. Il problema posto dagli avvenimenti di questi giorni è quindi se ed in quale misura si possa limitare la comunicazione nociva trasmessa in virtù della libertà d’espressione (che è un di- vieto di censurare).

In molti casi, la risposta è stata formulata in termini di crimi- nalizzazione di alcune condotte, dall’hate speech, all’istigazione all’odio razziale, o fondato sull’orientamento di genere, o sulla preferenza sessuale, o sulla religione, fino al crimine di negazio- nismo (si veda a tal riguardo il dibattito ospitato dal SIDIBlog sul tema). Tali limiti alla libertà d’espressione sono giustificati in base all’argomento, esposto in precedenza, per cui anche la co- municazione verbale, scritta, o per immagini, può essere violenta e portare a ferire, uccidere, umiliare.

Tale approccio sembra in linea di massima aver superato con successo il vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo. Cer- to, la libertà d’espressione implica il diritto di esprimere opinioni che turbano una parte della popolazione (Handyside c. Regno Unito, par. 49), ma non può arrivare fino a giustificare la diffu- sione del razzismo o dell’odio per una certa categoria d’individui (Soulas et al. c. Francia, par. 42; Jersild c. Danimarca, par. 30). Una maggiore tolleranza sembra valere nei confronti di chi in- tenda informare o sollevare un dibattito su una questione di pub- blica rilevanza: in tal caso, l’uso di una forma provocatoria sem- bra essere accettabile (Prager e Obershlick c. Austria, par. 38; Brunet-Lecomte e Lyon Mag’ c. Francia, par. 41). Qualora l’intenzione sia invece prevalentemente quella di rappresentare una categoria d’individui in modo chiaramente offensivo, la li-

bertà d’espressione incontra un limite (si veda a contra-

rio Jersild, cit., par. 36).

È quindi legittimo sanzionare un «comportamento (…) intol- lerabile che costituisca una negazione dei principi fondamentali della democrazia pluralista», afferma la Corte nel caso di un arti- colo che afferma la necessità di una guerra di riconquista etnica in Europa (Soulas, cit., paragrafi 42-44). Al contempo, una cari- catura può portare a condanna del suo autore quando «eccede ciò che è tollerabile in un dibattito politico» (Lindon et. al. c. Fran- cia, par. 57), per esempio perché “giudica positivamente la vio- lenza perpetrata su migliaia di vittime e un attentato alla loro di- gnità” (Leroy c. Francia, par. 43). Quanto al negazionismo, la Corte ritiene che la libertà d’espressione non possa essere invo- cata per negare l’esistenza della Shoah. Tale condotta è infatti analizzata come un abuso di diritto, exart. 17 CEDU (Garaudy c. Francia ).

Tutto bene in teoria, ma in pratica i problemi sono moltepli- ci, soprattutto per quanto attiene alla satira. Una cosa è infatti un commento in cui un’opinione viene sviluppata per una o più pa- gine, con argomenti ed espressioni valutabili da parte del giudi- ce. Ma vogliamo davvero una società in cui il potere legislativo (a monte) e quello giudiziario (a valle) determinino che cos’è sa- tira e cosa non lo è, su cosa si può scherzare e su cosa no, su co- sa si può provocare e su cosa no, sulla base di un disegno, una battuta, o un tweet? E poi, non c’è il rischio di tacciare ogni opi- nione non politicamente corretta come “razzista”, “terrorista”, “antisemita”? In fondo, in una società plurale, esistono diverse sensibilità e quindi svariate possibilità di offendere qualcuno. Anzi, in molti casi, ciò che non offende il gruppo x, offenderà il gruppo y. La problematica è vastissima e non posso addentrar- mici, ma sicuramente può apparire ragionevole il punto di vista di chi, nel dubbio, preferisce un eccesso di libertà ad un eccesso di censura.

In fondo, i limiti istituzionalizzati cui accenna Teubner non devono essere necessariamente giuridici. Un onesto dibattito cul- turale può essere un antidoto ancora migliore di una sanzione penale, perché obbliga l’autore di un articolo, un libro o un dise- gno a prendere in considerazione le critiche e le sensibilità altrui, e a difendere le proprie posizioni. Dove i limiti non sono imposti dalla legge, essi possono essere fissati da una regola sociale, la cui violazione sarebbe sanzionata dallo sdegno generalizzato (come suggerisce David Brooks sul New York Times). Persino

nel caso del negazionismo, il dibattito delle idee sembra un ri- medio ragionevole. In fondo la Shoah va presa seriamente per- ché è uno degli avvenimenti più documentati della storia umana, e non perché una legge la dichiara innegabile. Trasformarla in dogma di Stato vorrebbe dire sminuirla ed alimentare le tesi complottistiche. Quanto ai negazionisti, meglio sbugiardarli in pubblico, evidenziando la povertà delle loro tesi, che farne dei martiri della libertà d’espressione (si veda a tal riguardo la posi- zione espressa da Gabriele Della Morte su questo blog).

Certo, in questo caso, il problema è la capacità di condurre un dibattito culturale alto, serio, non viziato da interessi politici o economici di varia natura, nonché l’esistenza di una popolazione educata al rispetto delle sensibilità minoritarie, all’idea di una re- sponsabilità civica anche nell’assenza di regole giuridiche, e ca- pace di indignarsi se un altro è umiliato. Si può quindi seriamen- te dubitare della maturità della società italiana in questo senso, soprattutto dopo aver letto i commenti faziosi, per non dire irre- sponsabili, di certi “opinionisti” sui drammi di Parigi.

A questo punto, devo ammettere di non avere una ricetta. En- trambi i modelli (vale a dire, la criminalizzazione di certe con- dotte da un lato ed il dibattito aperto dall’altro) appaiono difen- dibili e supportati da argomenti convincenti. Va poi riconosciuto che in nessuna democrazia liberale la libertà d’espressione è as- soluta ed illimitata. Viviamo in una società in cui esistono diver- si ibridi, miscele più o meno libertarie dei due modelli.

È tuttavia importante che, qualsiasi compromesso si trovi tra le due esigenze, gli stessi limiti, e le stesse libertà tutelino ognu- no allo stesso modo. L’impressione è infatti che spesso i tabù di una cultura, una tradizione, una società, vengano trasformati in limiti impliciti alla libertà d’espressione, viziando il giudizio di cosa è considerato accettabile e cosa inaccettabile. Ciò è partico- larmente grave in una “società democratica” che, come spesso sottolineato dagli organi di Strasburgo, si vuole “plurale”. Se le sensibilità sono molteplici, non è pensabile difendere soltanto quella maggioritaria e prevalente. In queste ore, molti, in Francia e altrove, si chiedono per esempio se antisemitismo e islamofo- bia abbiano lo stesso peso quando operano da limiti alla libertà d’espressione.

In un articolo del 13 gennaio, l’autore israeliano Shlomo Sand scrive per esempio che, mentre l’immagine di Maometto con una bomba sul turbante (facilmente interpretabile come “islam = terrorismo”) viene innalzata a simbolo della democrazia

e della libertà d’espressione, nessuno, «né il giornale danese, né Charlie si sarebbe permesso di pubblicare una caricatura raffigu- rante il profeta Mosè, con una kippah e delle frange rituali, rap- presentato come un usuraio dall’aria furbastra, all’angolo di una strada». L’impressione è rafforzata da un articolo comparso su Le Monde nel 2010 (in queste ore riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica francese), in cui si ricorda la condanna di Charlie Hebdo per il licenziamento illegittimo del disegnatore Siné, colpevole di aver ironizzato sulla conversione di Jean Sar- kozy all’ebraismo.

Dal punto di vista europeo, una particolare sensibilità verso i problemi legati all’antisemitismo è comprensibile su un piano storico e culturale. L’ebreo ha infatti rappresentato per secoli il “diverso” all’interno della società cristiana. La discriminazione antiebraica ha segnato la cultura europea nel modo più ignomi- nioso. Shakespeare rappresenta Shylock in termini altamente ca- ricaturali ed offensivi, e Lutero non ha parole gentili per l’ebreo falso e menzognero (si ne veda Degli ebrei e le loro menzogne ). Per non parlare dell’orrore di ghetti sovraffollati, della secolare inferiorità giuridica in termini di diritti civili e politici, dell’affaire Dreyfus, e dell’incommensurabile dramma della Shoah. Senza dubbio, uno degli aspetti più vergognosi della sto- ria europea: come guardarsi allo specchio e vedere il lato oscuro della propria cultura.

Come scrive Shlomo Sand, è quindi giusto che la società eu- ropea rifiuti, sia attraverso l’autolimitazione culturale responsa- bile, sia attraverso il divieto giuridico, la rappresentazione offen- siva della religione ebraica. Quello che lui ed altri si chiedono è perché gli stessi limiti e la stessa attenzione non valgano per i di- scorsi chiaramente discriminatori rivolti ad altre minoranze reli- giose. Negli ultimi giorni, molti quotidiani ed esponenti politici europei (anche italiani) hanno gareggiato nel diffondere l’idea che equiparare l’Islam al terrorismo e all’assassinio, e descriver- lo come l’espressione di una “civiltà inferiore”, fosse segno di libertà, civiltà e coraggio civico, contro uno «stupido buoni- smo», scrivono alcuni.

Mentre costoro pontificavano, in Francia, nelle ore immedia- tamente successive all’attentato a Charlie Hebdo, qualcuno ap- piccava il fuoco a due moschee e un chiosco-kebab. Seguendo il processo descritto da Teubner e Cyrulnik, gli slogan prendevano vita, bruciando, umiliando e ferendo. Non si può pensare che, in una “società democratica”, a fronte di tali avvenimenti, regni la

più totale assenza di responsabilità, tanto a livello culturale, quanto politico e giuridico. In un sistema giuridico che ha scelto il modello della criminalizzazione, il reato di istigazione all’odio razziale e religioso deve valere anche quando l’offesa è diretta verso l’Islam, anche e soprattutto a fronte di una potente e diffu- sa retorica anti-islamica. E se si preferisce il modello dell’autolimitazione responsabile, un giornale che (legittima- mente) non vuole ironizzare sulla conversione di qualcuno all’ebraismo dovrebbe capire che far passare tutti gli islamici per potenziali terroristi è altrettanto grave. Del resto, ricorda la Corte di Strasburgo, in caso di «tensione e di conflitto» bisogna evitare che i media diventino «un supporto alla diffusione di discorsi d’odio» (Sürek e Özdemir c. Turchia, par. 63).

È appena il caso di ricordare l’importanza della presunzione di innocenza, che è un diritto fondamentale. Certo, nel meccani- smo di personalizzazione tipica del fenomeno giuridico, tale di- ritto è tradizionalmente interpretato come ingerenza di un organo dello Stato (anche del governo, secondo la giurisprudenza di Strasburgo) nei diritti di uno o più individui determinati. Se però osserviamo il problema dalla prospettiva teubneriana per cui l’offesa può derivare da una “comunicazione” indistinta, per col- pire vaste categorie d’individui, si può almeno dubitare della compatibilità con la “società democratica” di un dibattito pubbli- co in cui ogni musulmano è presentato come un potenziale cri- minale in ragione della sua fede, in una macabra riedizione di tristi principi lombrosiani sepolti da tempo (è Ostellino, sulle co- lonne del Corriere della Sera, a evocare l’immagine di «lombro- siani criminali»).

Inoltre, il senso profondo della libertà d’espressione risiede nella tutela del debole che critica il potere. Tale visione è sup- portata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Stoll c. Svizzera, par. 110; Lingens c. Austria, par. 42). La libertà d’espressione deve essere rispettata a maggior ra- gione quando l’opinione comunicata riguarda un uomo politico (Ibid.) o un personaggio pubblico come il proprietario di una grande impresa (Verlagsgruppe News GmbH c. Austria (No. 2), par. 36). Inoltre, la Corte evidenzia come sia fondamentale che in una società democratica tale libertà possa essere esercitata nei confronti del governo (Castells c. Spagna, par, 46; Sürek e Özdemir, cit. par. 60).

Per questo, se la stessa libertà è invocata dal giornalista in- fluente o dal personaggio politico per mettere alla gogna una mi-

noranza religiosa, o, in generale, la categoria degli immigrati (cioè degli ultimi arrivati, dei più deboli), non solo tale compor- tamento non ha nulla di civico, ma bisogna allarmarsi, essere so- spettosi. Nella maggior parte dei casi, si tratta infatti di una mera scusa per aggirare i limiti imposti dalla legge e le regole sociali della convivenza civile. Riempirsi la bocca di libertà politica per diffondere una visione razzista e discriminatoria del “prossimo” (per usare una terminologia biblica probabilmente ignorata da chi sventola la cristianità come bandiera identitaria) significa abusare di un diritto.

Allo stesso modo, bisogna sospettare di quei governi che, approfittando dell’onda emotiva prodotta dagli attentati, cercano di far passare riforme che riducono la libertà dell’individuo ed aumentano l’invasività dello Stato (seguendo un modo di proce- dere molto simile a quello descritto da Naomi Klein nel li- bro Shock Doctrine). In queste ore si parla per esempio di so- spensione o modifica del trattato di Schengen, di vietare l’uso di applicazioni per smartphone come la celebre WhatsApp (perché non permette ai servizi di sicurezza di leggere i messaggi privati dei cittadini), e del potere delle autorità di polizia postale di censurare un sito internet senza dover chiedere l’autorizzazione del giudice. Inoltre, se fino a ieri si invocava con fierezza il baluardo del diritto all’oblio nei confronti di Goo- gle, anni di tensioni tra UE e USA in merito alla comunicazione di dati sensibili riguardanti i passeggeri di voli aerei sembrano essere scomparsi nel nulla.

Che tutto ciò sia oggi giustificato in nome della tutela della libertà individuale e dei diritti umani deve far riflettere. In gioco c’è infatti la tutela di quella sfera privata dell’individuo che do- vrebbe distinguere una democrazia dai regimi che democratici non sono. Sono i regimi liberticidi quelli in cui ogni aspetto della vita di un individuo ha rilevanza pubblica: in un regime totalita- rio, tutto è politica; in una teocrazia, tutto è religione. In una de- mocrazia, invece, non siamo tenuti a diventare completamente trasparenti di fronte alla società e all’autorità pubblica. Non è un caso che l’idea di autonomia dell’individuo sottenda larga parte del sistema europeo di protezione dei diritti umani, e forse anche l’idea stessa di diritti fondamentali. Tali diritti hanno infatti lo scopo di permettere all’individuo sia di partecipare liberamente alla vita sociale, sia di isolarsi da essa quando lo ritenga oppor- tuno (il diritto alla vita personale presuppone per esempio il di- ritto di stringere dei rapporti, ma anche il diritto alla privacy).

Eppure, oggi, nel nome della lotta al terrorismo, qualcuno vorrebbe fare di noi delle case di vetro che rimandano come un’eco gli slogan razzisti della maggioranza, spacciati per una coraggiosa manifestazione di libertà d’espressione. Riflettiamo- ci.

L’attivazione della clausola UE di