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MATTEO WINKLER (*)

«Left in a limbo». Non esiste formula più appropriata per sin- tetizzare la sentenza del 21 luglio 2015 (disponibile in italiano sul sito Articolo29.it), resa all’unanimità dalla IV Sezione della Corte europea dei diritti umani nel procedimento Oliari e altri c.

Italia (ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11). «I ricorrenti», recita in-

fatti l’opinione concorrente riallacciandosi a quella dei colleghi (§ 4), «sono stati abbandonati in un limbo, in uno stato di incer- tezza giuridica relativamente al riconoscimento legale della loro unione, di cui sarebbero titolari in virtù della Costituzione italia- na». Il casus belli è costituito dall’assenza di una disciplina giu- ridica che assicuri riconoscimento e protezione alle relazioni sta- bili di convivenza tra persone dello stesso sesso. Si tratta di una ferita dei diritti individuali che dura da ormai da troppo tempo e che fa del nostro Paese l’unica democrazia occidentale non solo a non aver ancora tradotto in norme giuridiche le evidenti esi- genze di vita quotidiana delle coppie same-sex, ma a non essere neppure stata in grado, almeno finora, di affrontare seriamente il problema, sul piano parlamentare, al pari di altri Stati.

1. La geografia parla chiaro. Sul tema delle coppie di persone dello stesso sesso, «the picture of Europe’s map is becoming less

diverse than a few years ago» (Waaldijk, “Great diversity and some equality: non-marital legal family formats for same-sex

couples in Europe”, in GenIUS, n. 2/2014, p. 42 ss., p. 43). Ciò che colpisce, in particolare, è l’acquisita dominanza dei due mo- delli del matrimonio e delle «unioni civili» di stampo germanico.

Infatti, dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, la cui to- talità ha firmato e ratificato la Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (CEDU), undici consentono alle coppie gay e lesbiche di con- trarre matrimonio (Belgio, Danimarca, Francia, Islanda, Lus- semburgo, Olanda, Norvegia, Regno Unito, Spagna, Portogallo e Svezia, cui vanno però aggiunti la Slovenia e la Finlandia, ove apposite leggi entreranno in vigore in futuro) e diciotto discipli- nano tali unioni con una forma di registered partnership o «unione civile» equivalente o parzialmente simile al matrimonio (Andorra, Austria, Belgio, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Liechtenstein, Lussem- burgo, Malta, Olanda, Slovenia, Spagna, Svizzera e Regno Uni- to).

Lo stesso Consiglio d’Europa ha fatto della lotta alle discri- minazioni per orientamento sessuale e del riconoscimento delle nuove realtà familiari uno dei suoi cavalli di battaglia sin dal lon- tano 1981 (v. le risoluzioni elencate in Oliari, §§ 56-60).

In questo puzzle europeo che ha ormai assunto i colori dell’arcobaleno, insomma, il tassello italiano risulta ancora man- cante. Svariate sono le ragioni di questo «eccezionalismo» tutto nostrano: l’assoluta incompetenza di buona parte della classe po- litica, anzitutto; ma anche la tendenza di quest’ultima a subap- paltare temi così delicati come i «diritti civili» alla sfera della morale, allo scopo di sottrarli deliberatamente al gioco democra- tico (cfr. Winkler, Strazio, Il nostro viaggio. Odissea nei diritti

LGBTI in Italia, Mimesis, Milano-Udine, 2015, p. 17 ss.; per

un’interessante comparazione con la Spagna v. Mosca- ti, Pasolini’s Italian Premonitions: Same-Sex Unions and the

Law in Comparative Perspective, Wildy, Simmons & Hill Pub.,

London, 2014, pp. 152-157); infine, la congenita pigrizia del le- gislatore, che seleziona a priori le materie di cui discutere in ba- se alle esigenze delle «larghe intese», lasciando le altre a morire tra i faldoni dei lavori parlamentari. Di particolare rilievo, poi, pare essere la profonda crisi di rappresentatività che attraversa il nostro Paese, la cui conseguenza più vistosa è la totale assenza di comunicazione tra governanti e governati, tra mondo della poli- tica e società civile.

l’impianto della sentenza in epigrafe. Con una vigorosa stoccata al nostro Parlamento, la Corte ricorda che negli ultimi cinque anni una serie di pronunce della Corte costituzionale (sent. 11.6.2014, n. 170 e soprattutto 15.4.2010, n. 138) e della Corte Suprema di Cassazione (9.2.2015, n. 2400 e 15.3.2012, n. 4184) hanno inchiodato il legislatore alle sue responsabilità, ricono- scendo espressamente la dignità costituzionale delle unioni omo- sessuali quali «formazioni sociali» ai sensi dell’art. 2 della Costi- tuzione e demandando al Parlamento l’approntamento di una so- lida disciplina in materia. Questi reiterati richiami, cui la Corte europea si riferisce attraverso un interessante dialogo verticale tra corti (sul quale v. Gallo, Winkler, “The Construction of Sa-

me-Sex Families in Western Europe through Legislative and Ju- dicial Dialogues: The Role of National Legislatures and Supra- national Courts”, in Transnational Judicial Dialogue: Concept, Method, Extent, Effects (a cura di Kjos e Müller), in via di pub-

blicazione per Cambridge Univ. Press, Cambridge, 2015) sono tuttavia caduti nel vuoto. Anzi, sono stati oggetto di un vero e proprio boicottaggio parlamentare fatto di continui tentativi, al- cuni dei quali neppure troppo malcelati, di «accelerare per in- sabbiare» (Winkler, Strazio, Op. cit., p. 23).

Dal canto loro, preoccupate di non invadere la sovranità del Parlamento, ma comunque orientate ad assicurare qualche effetto alla riconosciuta necessità di una tutela costituzionale, anche le corti di merito si sono dimostrate decisamente aperte rispetto alle richieste delle coppie dello stesso sesso, arrivando ad ordinare la trascrizione di un matrimonio same-sex contratto a New York (Trib. Grosseto 3.4.2014 e 25.3.2015, entrambe tuttavia annulla- te in appello), a garantire il risarcimento da perdita del partner dello stesso sesso (tra gli altri, App. Milano, 20.11.2012) e a riconoscere, infine, il diritto di soggiorno allo straniero coniugato con un cittadino italiano dello stesso sesso (Trib. Verona, 5.12.2014; Trib. Pescara, 15.1.2013; Trib. Reggio Emilia, 9/13.2.2012).

La forza dirompente delle sentenze della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, inoltre, si mostra con piena evidenza nel campo dell’omogenitorialità, imponendo ai tribunali italiani la protezione dei minori concepiti e nati nel contesto di coppie di persone dello stesso sesso (cfr. Trib. min. Roma, 30.7.2014 e App. Torino, 29.10.2014, su cui v. di Napoli, La Corte d’appello

di Torino di fronte alla fecondazione assistita eterologa all’estero, in GenIUS, n. 1/2015, p. 258 ss.).

3. Tra le motivazioni di tutte queste pronunce dominano i principi evidenziati ripetutamente dalla Corte di Strasburgo, la quale ha costruito nel corso degli anni un vero e proprio statuto generale delle unioni omosessuali, utilizzando le norme della CEDU attivate dai vari ricorrenti nei relativi procedimenti, vale a dire l’articolo 8 sul «diritto al rispetto della vita privata e familia- re», l’articolo 14 sul divieto di discriminazione e l’articolo 12 sul diritto al matrimonio.

In virtù di tali norme e dei precedenti che le hanno applicate, è possibile affermare che le persone omosessuali godono del di- ritto fondamentale di stabilire relazioni con persone dello stesso

sesso ( Dudgeon c. Regno Unito; v. Waaldjik, “The Right to Re-

late: A Lecture on the Importance of ‘Orientation’ in Compara- tive Sexual Orientation Law”, in 24 Duke J. Comp. & Int’l L.,

2013, p. 161 ss., pubblicato in italiano in GenIUS, n. 1/2015, p. 134 ss.), di non essere discriminati in virtù del loro orientamento

sessuale (in particolare in tema di affidamento di minori dopo la

separazione: Salgueiro da Silva Mouta c. Portogallo; di adozio- ne: E.B. c. Francia; di successione nel contratto di locazione dell’abitazione comune: Karner c. Austria e Kozak c. Polonia; di stepparent adoption: X and Others c. Austria), di vedere le proprie relazioni di convivenza stabile trattate come famiglie al

pari delle coppie di conviventi di sesso diverso (Schalk e Kopf c. Austria, spec. § 94) e di vedersi estendere gli istituti protettivi della convivenza eventualmente già previsti per le coppie etero- sessuali (Vallianatos c. Grecia).

Questi precedenti, tuttavia, hanno sciolto solo in parte il no- do del diritto al matrimonio, oggetto del citato caso Schalk. Da una parte, anche in conseguenza del carattere sensibile del tema rispetto ad alcuni Stati firmatari (penso a Russia e Turchia), la Corte ha sottoposto il diritto al matrimonio previsto dall’articolo 12 a una totale discrezionalità dei legislatori nazionali. Dall’altra, però, si è riservata di occuparsi in futuro, lasciandoli per il momento irrisolti, dei casi di totale assenza di regolamen- tazione (v. Schalk, cit., § 103).

Oliari rappresenta proprio uno di questi casi, ed è giunto il

momento di esaminarlo in dettaglio.

4. In via preliminare, il governo italiano aveva contestato sia la qualifica di vittime dei ricorrenti, affermando che esse non avessero sofferto alcun danno concreto, sia l’avvenuto esauri- mento dei ricorsi interni da parte dei ricorrenti stessi, avendo questi ultimi deciso di rivolgersi a Strasburgo subito dopo la sen-

tenza della Corte costituzionale (n. 138/2010 cit.) senza passare per la Cassazione. «Se i ricorrenti avessero portato le loro do- glianze dinanzi ai giudici nazionali» — aveva affermato il go- verno — «ne avrebbero almeno ottenuto un riconoscimento giu- ridico delle loro unioni» (Oliari, cit., § 74).

La Corte rigetta entrambe le eccezioni. Per essere «effetti- vo», osserva la Corte, «un rimedio deve essere in grado di porre rimedio diretto alla situazione contestata, e deve offrire una pro- spettiva ragionevole di successo» (§ 77). Nel caso di specie, «esisteva una giurisprudenza consolidata delle più alte corti na- zionali che indicava che le doglianze [dei ricorrenti, consistenti nella richiesta di contrarre matrimonio,] non avrebbero avuto al- cuna possibilità di successo» (§ 81). Inoltre, la Corte rimprovera al governo italiano di aver omesso di fornire in giudizio anche un solo esempio del «riconoscimento giuridico» che, a suo dire, le corti interne avrebbero dovuto effettuare, mentre non si com- prende come detto riconoscimento «avrebbe potuto produrre qualunque effetto sulla situazione pratica dei ricorrenti» (§ 82).

La Corte nota, infine, che la sofferenza delle coppie gay e le- sbiche italiane, prive di riconoscimento e protezione giuridica, corrisponde a una «continuing situation», ossia a una violazione permanente rispetto alla quale i sei mesi di decadenza richiesti per il deposito del ricorso (a mente dell’art. 35 § 1 CEDU) non decorrono se non dall’interruzione della violazione stessa. Di qui, il rigetto della relativa eccezione di decadenza sollevata dal governo italiano.

5. Anche nel merito le eccezioni avanzate dal governo vengono tutte rigettate.

A tal riguardo, esso aveva anzitutto fatto valere il margine di

apprezzamento di cui godono gli Stati firmatari in una materia

tanto delicata «da impattare la sensibilità degli individui e la loro identità culturale», occorrendo necessariamente attendere del tempo «per raggiungere una maturazione graduale di un senso comune della comunità nazionale sul riconoscimento di questa nuova forma di famiglia» (§ 123). Il governo aveva inoltre reci- samente negato che l’assenza di disciplina fosse finalizzata «a proteggere la famiglia tradizionale o la morale della società, co- me affermato dai ricorrenti», negando altresì alla radice l’esistenza di una discriminazione e affermando che le coppie gay e lesbiche italiane sono già riconosciute e protette, potendo regolare la propria unione vuoi attraverso i c.d. «registri delle unioni civili» a livello comunale, vuoi mediante i «contratti di

convivenza».

La Corte rifiuta in toto queste conclusioni.

Anzitutto, i dati statistici forniti dall’ISTAT e prodotti dall’interveniente Associazione Radicale Certi Diritti illustrano chiaramente che la società italiana è molto distante dalle convin- zioni del governo e della classe politica. Non solo la discrimina- zione esiste ed è reale (ad es., 40% dei gay intervistati del Centro Italia dichiara di averla subita), ma la società è pronta a superarla (il 66% sottoscrive che «è possibile amare una persona di sesso opposto o dello stesso sesso, ciò che importa è l’amore») (§ 144).

In secondo luogo, né i registri comunali né i contratti di con- vivenza sono in grado di sostituire il necessario «quadro giuridi- co specifico» imposto dall’obbligo dell’Italia di rispettare la vita privata e familiare delle coppie omosessuali. I registri comunali, infatti, «esistono solo nel 2% dei comuni» (155 su 8.000, per es- sere precisi), sono «meramente simbolici[,] non conferiscono ai ricorrenti alcuno stato civile ufficiale […] e sono persino privi di valore probatorio» (§ 168). Quanto agli accordi di convivenza, essi «omettono di assicurare alcuni bisogni di base che risultano fondamentali nella regolamentazione di una relazione di coppia stabile e responsabile» e, soprattutto, «sono aperti a tutte le con- vivenze, a prescindere dal fatto che si tratti di una coppia in una relazione stabile e responsabile» (§ 169).

Secondo la Corte, il margine di apprezzamento può essere fatto valere dallo Stato solo in presenza di un corretto bilancia-

mento tra gli interessi dei ricorrenti e quelli della società nel suo complesso (§ 160). Introdurre una legislazione ad hoc sulle

unioni omosessuali «non comporterebbe alcun onere specifico per lo Stato italiano[, mentre] realizzerebbe un bisogno sociale importante», fornendo a dette unioni «[il] senso di legittimazio- ne» che meritano (§§ 173-174). Tuttavia, questo bilanciamento nel caso italiano non è possibile, perché «il legislatore non sem- bra aver attribuito particolare importanza alle indicazioni prove- nienti dalla comunità nazionale, incluse la popolazione italiana generale e le più alte autorità giudiziarie d’Italia» (§ 179).

Ciò che la Corte non riesce a digerire è il fatto che il nostro Parlamento abbia ripetutamente ignorato i continui richiami della giurisprudenza. Se «ignorare una sentenza finale ed esecutiva […] non può spiegarsi in termini di interesse pubblico o di inte- ressi della comunità nel suo complesso», ciò d’altro canto «mina alla radice la credibilità e l’autorità del potere giudiziario, met-

tendone a rischio l’effettività, tutti fattori di grande importanza dal punto di vista dei principi fondamentali che sono alla base della Convenzione» (§ 184). Infine, conduce alla condanna «l’assenza di un interesse prevalente della comunità, avanzato dal governo italiano, rispetto al quale bilanciare i fondamentali interessi dei ricorrenti» (§ 185).

L’Italia dovrà dunque «implementare misure generali o indi- viduali appropriate» ai sensi dell’articolo 46 della CEDU «allo scopo di assicurare il diritto dei ricorrenti e delle altre persone nella medesima posizione al rispetto della loro vita privata e fa- miliare» (§ 200), senza specificare in alcun modo il grado di ri- conoscimento — matrimonio ovvero unione civile.

6. Alla luce del panorama variegato che caratterizza il conti- nente europeo sul tema delle unioni di persone dello stesso sesso, la Corte si sforza di «agganciare» il caso alla realtà italiana, onde assicurare la massima credibilità alla propria decisione.

Esiste dunque un obbligo positivo, discendente dall’articolo 8 della CEDU, di introdurre una disciplina generale di tali unio- ni, rispetto al quale gli Stati godono nondimeno di un ampio margine di apprezzamento dipendente dal grado di consenso eu- ropeo esistente in un dato momento storico. Il margine di ap- prezzamento e la conseguente libertà dello Stato di non legifera- re del tutto sul tema sono però destinati a restringersi, fino a scomparire del tutto, in presenza di due elementi aggiuntivi ai quali la Corte assegna un’importanza decisiva per l’esito della causa: (1) il grado di accettazione espresso dalla società nazio- nale, illustrato anche attraverso indagini statistiche ufficiali, ri- spetto alla realtà delle famiglie incentrate su coppie di persone dello stesso sesso; e (2) i richiami inascoltati della giurispruden-

za interna, purché ripetuti e provenienti dal coro delle corti supe-

riori.

Si tratta di «una combinazione di ragioni non necessariamen- te reperibili in tutti gli Stati contraenti», osserva giustamente l’opinione separata citata all’inizio, la quale aggiunge, peraltro, che lo Stato ha «un obbligo complessivo di affidamento e buona fede […] nei confronti dei propri cittadini», obbligo che il legi- slatore italiano ha palesemente violato.

Tutte queste considerazioni sembrano mettere al riparo la sentenza da un eventuale ricorso alla Grande Camera che, pro- prio per la solidità della motivazione, il fermo ancoraggio dei giudici alla realtà italiana e, non da ultimo, l’unanimità del giu- dizio, risulterebbe estremamente rischioso, soprattutto sul piano

dell’opinione pubblica interna. Ad uscirne del tutto screditati sa- rebbero infatti il Parlamento e il governo italiani. Ad ogni buon conto, lo svelamento della paradossale posizione del governo ita- liano, richiamato così da una Corte sovranazionale a rispettare la sua stessa Costituzione nazionale, appare sicuramente il punto più interessante della sentenza Oliari, un punto che pesa come un macigno sul nostro Paese ben più della stessa condanna per violazione della Convenzione.

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