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Alessandro Pandolfi: un ricordo 1 Toni Negr

Ci conoscemmo a Parigi quando molti compagni erano in esilio dopo la repres- sione alla fine degli anni ‘70. Alessandro era arrivato un decennio dopo per fare il suo dottorato. Andava su e giù da Milano. Lavorò bene, come suo solito, sul mercantilismo e l’accumulazione primitiva, che era la sua tesi, sulla razionalità del comando sovrano e sulla violenza originaria dell’essor capitalista. A Parigi collaborò con gli esiliati, nei seminari dove si sviluppava la teoria dell’operaismo, nella rivista «Futur Anterieur» e nel suo fratellino «Futuro Anteriore». Nel frattempo ebbe la possibilità di curare la traduzione italiana di Dits et écrits di Foucault, che condusse a termine negli anni ’90. Fu dentro al meglio che in quegli anni di resistenza si visse a Parigi, fra il ricordo di Althusser e le lezioni di Deleuze ma soprattutto nella scoperta di Foucault, «auctor» della soggettivazione rivoluzionaria. Fu grande amico di Jean-Marie Vincent, un altro compagno che ci lasciò troppo in fretta. Gli esiliati lo ebbero come un fratello più gio- vane, e lui ebbe fra i suoi giovani allievi quelli che ricominciarono a lottare. Alessandro fu infatti uomo di una generazione di mezzo, fra i militanti del lungo ‘68 italiano e quelli dell’«alter-globalizzazione», fra i comunisti del ‘77 e gli zapatisti del 2001. Una generazione che portò interi, nel cervello e nel corpo, la nostalgia dei ‘70 e il senso di quella sconfitta – che elaborò tuttavia fino a preparare la generazione a venire.

Quella assenza dall’esperienza alta del movimento rivoluzionario restava in Ales- sandro come un sentimento di incompiutezza e di solitudine. E i giovani allievi non riuscivano, nel loro darsi da fare fra la Pantera e lo zapatismo, a concedergli il riposo di un gioioso desiderio realizzato. Alessandro fu tra i più sensibili della sua genera- zione e nel suo prendere coscienza della distanza, in quel suo sfiorare un sogno di rivolta, non perse mai la forza di ricominciare. Perché senza di lui, senza i molti della sua generazione che, come lui, resistettero alle lusinghe dei demoni neoliberali già

scatenati, alle indecenze della «Milano da bere» ed alla corruzione della socialdemo- crazia, non vi sarebbe stata ripresa del movimento comunista.

Insegnò ad Urbino per un lungo periodo e donò al pubblico filosofico un’opera esemplare: Nel pensiero politico moderno. Unì qui il lavoro suo e quello di alcuni amici nel tratteggiare lo sviluppo della riflessione politica moderna da Machiavelli alla Rivoluzione francese. I suoi articoli in questa raccolta vanno letti e dovranno sem- pre esser ripresi per la definizione del politico nella modernità. Eppure, neanche la- vorando collettivamente e mettendo in atto in quest’opera, con gran destrezza, l’inse- gnamento metodico foucaultiano – «abbiamo perciò cercato di mettere in evidenza il sistematico coinvolgimento del pensiero politico nell’oggetto che descrive e che pro- blematizza. I pensatori politici pensano la storia e la politica nella misura in cui sono soggetti della storia e della politica che descrivono. E tuttavia, nel vivo della polemica teorica e della partecipazione alla lotta politica, i grandi pensatori politici pensano sempre epocalmente, da un lato registrando al più alto livello diagnostico le grandi discontinuità della storia, dall’altro proiettandosi al di là delle determinazioni entro le quali è radicata la loro speculazione e suscitando cosi l’inesauribilità delle domande che ad essi vengono poste in ogni tempo e spazio»2 – neppure allora veniva meno, anzi

si ritrovava moltiplicata in funzione critica, la sua solitudine. Sulla scorta di un’intui- zione di Althusser, la categoria interpretativa della solitudine, da intendersi fuori da qualsiasi accezione esistenzialistica o psicologica, permette di sottrarre lo statuto del pensiero politico agli schemi riduzionistici e ad una inesistente autonomia dello spi- rito.

Nell’ultimo ventennio ebbi occasione di incontrare spesso Alessandro, perché tra- dusse la trilogia Impero con grande eleganza. Lascio da parte gli affettuosi accordi e le più frequenti critiche che portava a quei lavori. Quello che mi colpì invece fu il fatto che, mentre la grande crisi si aggravava, Alessandro conquistava una sicurezza di giu- dizio ed un realismo nell’agire che non gli avevo nel passato riconosciuto. Nel suo animo, quella distanza e quella solitudine che, dinnanzi alle lotte raccontate, aveva

sofferto, ora si trasformava in partecipazione e generosità nell’aprirsi alle sofferenze ed alle lotte del nuovo proletariato. Migranti e precari, lavoratori metropolitani stretti nelle maglie dello sfruttamento, erano diventati il soggetto del suo lavoro, del suo in- tervento, del suo «fare politico». Cosi veniva fuori, nella maturità, quell’orgogliosa forma di vita che la generazione gli aveva negato, che lo studio gli aveva permesso di costruire e che ora poteva compiutamente praticare.

Che un uomo, un uomo che era stato un ragazzo solitario, poi un grande studioso, infine un operatore generoso ed inflessibile di solidarietà se ne sia andato, ancor gio- vane, è cosa terribile. Nulla ci consola ma sappiamo che nella sua vicenda, in quell’aver attraversato la crisi di una generazione ed averla riscattata, ci sta una scintilla di eter- nità.

Il contributo e l'impatto di Alessandro Pandolfi sul Naga di Milano.