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1. Alessandro ha gettato uno sguardo laterale sulle dinamiche della modernità, quasi defilandosi dal compito di affrontarle direttamente o meglio del mettersi in vista in tale esercizio. La riscrittura, più che semplice fedele traduzione, della trilogia Im- pero-Moltitudine-Comune è un esempio spettacolare di servizio interpretativo in ter- mini di understatement, così come la redazione, non solo delle singole voci, ma del piano di lavoro del manuale. Ordine e mutazione imposta, già nel titolo, il filo della ricerca: l’approccio analitico e problematico, per quanto gravoso per studenti e do- centi nella beata epoca del 3+2, è essenziale per cogliere «le alternative e le linee di frattura» del pensiero politico moderno nella misura in cui riflette e permea le prati- che della modernità stessa, cioè la centralità, da Machiavelli al post-operaismo, del problema della mutazione e della rivoluzione. Come si può dominare la mutazione, come rendere produttiva la sua intrinseca imprevedibile aleatorietà, come ammortiz- zarne le oscillazioni con la legge, come garantire, inoltre, con la forza della legge e del popolo, che i rapporti di potere non si chiudano nella perdita della libertà, nell'inta- samento di quel vuoto che è il luogo del futuro.

La scelta espositiva, però, non cade su eventi e nuclei problematici novecenteschi, ma sui grandi momenti di preparazione: Machiavelli, intende, la Controriforma che scopre il concetto di “popolazione” e definisce “popolo” la sua parte refrattaria ai di- spositivi di controllo pastorale e disciplinare, le rivoluzioni americana e francese, Kant e Hegel attraverso la rivisitazione di Marx nel capitolo di A. Negri. Con un pedale di fondo assolutamente originale, di vera “provincializzazione dell’Europa”, cioè la costi- tuzione e messa a verifica delle categorie occidentali di filosofia della storia sul fondo della storia coloniale e dell’emancipazione degli schiavi. Certo, nel Settecento i topoi

della terra nullius e del buon selvaggio ereditano e piegano in senso appropriativo l’ingenuo entusiasmo degli esploratori rinascimentali per la condizione edenica del

Nuovo Mondo, generando sia il confronto con la barbarie dei civilizzatori sia la legit- timazione del colonialismo e alla fine la concreta polemica sull’abolizione della schia- vitù, certo lo stesso Hegel, almeno nella brillante interpretazione di Buck Morss, ha in mente Haiti nella metafora dello schiavo e del padrone, ma è la prima volta che in un manuale di dottrine politiche Toussaint Louverture e Dessalines entrano come “personaggi concettuali” a pari titolo di Cesare Borgia o Robespierre. Non è strano per chi ha dedicato tanta parte del suo lavoro a curare e tradurre l’Histoiredes deux Indes

dell’abate Raynal. Operazione che segna sicuramente la cerniera fra i vari filoni di interesse e ricerca di Pandolfi: la filosofia politica classica, lo studio del colonialismo, la passione per Foucault, del cui arsenale di metodi e categorie euristiche verifica l’ef- ficacia su Raynal: genealogia, popolazione, governamentalità, biopolitica.

Prendendo gentilmente in esergo due citazioni che avevo fatto in un mio libro da S. King, Cuori in Atlantide, e di Th. Pynchon, Vineland, Alessandro aveva accettato di contribuire a Le passioni della crisi1, con un testo sulla Paranoia, che si serviva del

metodo genealogico foucaultiano come chiave per decifrare e contestare la lettura paranoica di alcuni eventi esemplari della modernità: il nesso fra schiavitù e discri- minazione razziale, la psichiatrizzazione dell’infanzia nel XIX secolo, la «soluzione finale» programmata nella conferenza di Wannsee, 1942, e culmina nell’ambivalente e bilaterale paura della moltitudine che attraversa il ’68 come “complotto”. Pandolfi cerca di slegare la loro genesi da qualsiasi lettura antropomorfizzante che li spiega in termini di intenzionalità, in qualche modo condivisa tra vittime e persecutori. Un ap- proccio non paranoico a questi temi è il posto centrale di quell’aleatorietà così centrale nella corrente sotterranea che va da Lucrezio a Marx e Althusser, passando per Spi- noza e Machiavelli.

Cominciando dalla fine, ne deriva una critica molto attuale della duplice paranoia dei “carnefici” e delle “vittime”, del “complotto” e del “vittimismo” reattivo – doppio movimento sullo sfondo di una storia immaginaria perché immaginata come prede-

terminata dalla convergenza organizzata di volontà intenzionale dei “cattivi” e “de- stino” ineluttabile per i buoni. Con il risvolto, già perfettamente individuato da Nie- tzsche, di una volontà di vendetta variamente indirizzabile (l’aldilà ma anche una terza vittima, come è avvenuto per gli scampati all’Olocausto e su scala rancorosa mi- nore, da altri settori “vittimizzati”) e soprattutto della nascita di una casta di preti (imam, rabbini, ecc.) consolatori delle vittime, professionisti delle foibe, dell’Holodo- mor, delle stragi, delle radici, dell’antimafia, del politicamente corretto, dell’acco- glienza…

In generale occorre ricondurre tali fenomeni a una contraddizione tipica della vio- lenza sovrana, che terrorizza la moltitudine e ne è terrorizzata: in epoca post-sovrana la paranoia

si dispiega con il controllo elettronico e genetico delle azioni, delle percezioni e della comu- nicazione, controllo interfacciato dalla violenza terroristica che si muove negli stessi ele- menti. La propaganda che nutre la paranoia di fronte al terrorismo globale, ai flussi migra- tori, alle crisi economiche o ad altre minacce radicali vuole l’uniformità delle reazioni dei singoli, automatizza le rappresentazioni e i giudizi, produce linguaggi preformati che ridu- cono il reale a una parola d’ordine a difesa di immaginarie prerogative identitarie, di pre- sunte peculiarità territoriali, di grandi, piccoli e sordidi interessi. Spinoza, ci dice Balibar, è l’anti-Orwell.

Un secondo spunto viene invece a Pandolfi dalla lunga frequentazione con Michel Foucault ed è il preciso risvolto della paranoia persecutoria dal lato dei segmenti mol- titudinari perseguitati: “la genealogia della vittima designata”. Infatti il corrispettivo della banalizzazione delle relazioni come piani ideologicamente fondati è l’essenzia- lizzazione di vittime designate a priori e gettate nell’incommensurabilità dell’evento, secondo l’archetipo assai rischioso del popolo eletto/perseguitato. Rischioso per gli interessati e per gli altri destinati a prenderne il posto. Foucault (Le gouvernement de soi et des autres) e Pandolfi mettono invece in evidenza l’accidentalità del processo e il margine molto stretto che separa le alternative che sono state scartate dagli obbiet- tivi che sono stati perseguiti dopo una serie di prove, fallimenti e spostamenti. «In tal senso» – spiega Pandolfi alla voce “Paranoia” di Passioni della crisi – «si può com- prendere come e perché la schiavitù può perdurare, oltre la modernità, nei rapporti

di produzione capitalistici contemporanei e nelle forme di subordinazione che si eser- citano su gruppi e singolarità eterogenei e variabili dal punto di vista della composi- zione sociale ed etnico-linguistica […] ricostruire il modo in cui, a partire dalla medi- calizzazione della sessualità infantile, la psichiatria è giunta a inglobare tutti gli aspetti della vita umana», infine l’aleatorietà della selezione delle vittime – ciò che apre un campo di riflessione sulla loro stessa essenzializzazione identitaria e agenti- vità politica, aprendo quella tematica che porta Judith Butler a distinguere fra vulne- rabilità e vittimarietà e induce i contemporanei movimenti delle donne e dei migranti a rifiutare un pregiudiziale vittimismo ponendo piuttosto l’accento su nuovi gradi di libertà di movimento e di comportamento. Sottraendoci produttivamente alla spirale paranoica del complotto che è il lato più sgradevole della complessa ondata populista oggi dilagante e vincente.

2. Torniamo indietro all’accumulazione originaria. Qui lo schema anti-paranoico funziona nell’individuare il carattere del tutto nuovo della “schiavitù” cinque-sette- centesca rispetto al modello antico e medievale, è invece (seguendo Yann Moulier Boutang) «una domanda effettiva di forza lavoro in senso prettamente economico ad aver dato luogo alla tratta” e all’uso massiccio della forza lavoro dei neri deportati dall’Africa per rimediare alla crisi che rischiava di compromettere gli investimenti dei governi, dei finanziatori europei e dei proprietari locali nello sfruttamento indiscri- minato delle risorse naturali e della forza lavoro indigena s in Centro e Sud America. La repressione delle rotture contrattuali dei servi a contratto bianchi portò all’au- mento e all’inasprimento delle condizioni di lavoro dei neri, come parte di di un com- plesso di misure per imbrigliare la mobilità della forza lavoro. La schiavitù è lo sbocco di un processo endogeno al comando sul lavoro vincolato che asserviva primaria- mente i bianchi, di cui ha gradualmente annullato ogni scadenza e vanificato ogni possibile incentivo compreso l’affrancamento. Siano dunque nell’ambito di scelte per- fettamente compatibili con l’estrazione del plusvalore da parte del capitale e la schia- vitù verrà meno, nella forma giuridica standard, soltanto quando diverranno insoste-

nibili i costi di transazione necessari al mantenimento dell’ordine coloniale destabi- lizzato dalle fughe e dalle ribellioni degli schiavi di ogni tipologia. Naturalmente pas- sando attraverso rivolte e guerre. Tuttavia il modello schiavile costituì lo stampo con cui furono modellate sia molte forme di lavoro libero di fabbrica sia le tipologie del lavoro subordinato non libero. Non meraviglia pertanto che esse si mantengano a lato (peonaggio) o risorgano con la recente migrazione planetaria o perfino nel mercato neoliberale degli imprenditori di se stessi e del “lavoro gratuito”. L’accidentalità dei processi storici sta insieme al permanere dalla “linea del colore” e al suo ruolo para- digmatico anche laddove sussistono condizioni diverse di popolazione. L’importante è che ci sia una “linea” più che il “colore”.

3. Il capitolo sulla medicalizzazione della famiglia e delle condotte di vita, a partire dalla gestione del bambino e dello sviluppo “normato”, è uno dei più affascinanti e profondamente sentiti anche sul piano biografico, mostrando l’intersezione fra ipo- condria e “protezione scientifica della società e della specie”. in questo caso non ci sono vittime designate, bensì singolarità attraverso le quali transitano delle relazioni di potere che dopo essere state sperimentate sulle loro menti e sui loro corpi si appli- cheranno altrove per produrre altri profitti: dalle procedure di esclusione dei folli alla definizione e consolidamento delle forme di potere che ne risultano, con conseguente utilità economica. Il salto di qualità che si compie con il neoliberalismo è la mitizza- zione valoriale della prestazione, il passaggio dai corpi docili di una società discipli- nare ai corpi adattabili e autopoietici di una società del controllo, della sfera biopoli- tica ed estetizzata della coppia rischio-flessibilità o dell’enfasi nefasta sulla creatività. La figura della vittima sembra scomparire nel mondo delle best practices (cfr. la let- tura critica di Foucault in Wendy Brown): in realtà viene interiorizzata nell’ipocon- dria dell’insufficienza prestazionale, l’ombra che accompagna il faro luminoso dell’au- toimprenditorialità.

I tre meccanismi aleatori ci fanno toccare con mano come i risultati non siano un “destino” bensì qualcosa di reversibile – questa è la lezione politica che Alessandro ci ha lasciato in una versione minimalista quanto stringente e purtroppo precocemente