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Seguendo l’itinerario della ricerca di Alessandro Pandolfi, è facile osservare come la transizione settecentesca abbia rappresentato per lui qualcosa di più di un semplice interesse storiografico. Nello studio e la traduzione dell’opera di Raynal e quella di Diderot1, così come nella precedente genealogia della ragione mercantilistica2,

emerge con evidenza la consapevolezza di trovarsi di fronte a un momento decisivo in cui la frammentazione costitutiva della modernità sfida con maggior vigore i tentativi di produzione di unità, siano essi quelli della ragione illuministica, delle avventure dello Stato, delle traiettorie della civilization e della costituzione della società capita- listica, dentro e fuori l’Europa.

In particolare il suo interesse nei confronti dei processi di costituzione, disintegra- zione e ridefinizione degli assetti imperiali, e delle scienze che ne hanno accompa- gnato e favorito il dominio, mi è parso segnato dalla ricostruzione di una storia che, mettendo in discussione il tradizionale spartito che prevede lo Stato quale unico soli- sta, si assumeva il rischio della cacofonia, procedendo senza strutture armoniche alla ricerca di frammenti di politicità legati ai contesti di dominio e resistenza che di volta in volta contribuiva a mettere in luce.

John Pocock, nei confronti della cui opera Pandolfi ha nel tempo nutrito un inte- resse crescente, ha mostrato come la vicenda della civilizzazione e della costruzione degli imperi sia un processo più complesso rispetto a una semplice dinamica di incor- porazione dentro un’unità sovrana. Esiste sottotraccia per tutto il Settecento – tanto tra i sostenitori del doux commerce, quanto tra i suoi critici – un discorso relativo al farsi degli imperi, che mostra l’importanza delle dinamiche affettive, sentimentali, simpatetiche, una dimensione che potremmo definire “di società” e che spesso costi- tuisce lo sfondo invisibile dei processi giuridici, istituzionali ed economici di State o

1 A.PANDOLFI, Prefazione, in G.-T.RAYNAL, Storia delle due Indie, a cura di A. Pandolfi, Milano, BUR,

2009, pp. 5-31; A.PANDOLFI, Tra due Imperi. L’Histoire des deux Indes e il colonialismo moderno, «Scienza&Politica», 24, 47/2012, pp. 181-197.

Empire building. Riportare alla luce questa dimensione significa contribuire a quella genealogia della modernità occidentale – tanto importante per Pandolfi – in grado di rendere visibile la dinamica di produzione di un ordine che, al di sotto del movimento lineare di espansione coloniale della sovranità, si rivela come un processo di radicale ri-articolazione, tanto logica quanto pratica, dei rapporti che si danno al suo interno. Ben prima di essere travolti dalle rivoluzioni di fine secolo, lo Stato e gli imperi sono già attraversati da una “rivoluzione interna” – delle loro strutture, apparati e modalità di regolazione – nel tentativo di far fronte alla forza dirompente prodotta dai movi- menti indisciplinati di quella società di cui dovrebbero assicurare l’ordine, in quanto ordine dello sfruttamento capitalistico. In queste pagine proverò a ricostruire un frammento di questa storia, a partire da alcune riflessioni di Hume sulla moneta.

Per comprendere come il tema della moneta si intersechi con quello della civiliza- tion, e, soprattutto, con quello relativo al processo di costruzione dell’impero britan- nico è importante ricostruire un minimo di contesto. Un contesto nel quale, sin dalle origini, quel margine, così importante per Pandolfi, occupa un ruolo centrale, per quanto si tratti di un margine “interno” allo stesso spazio imperiale britannico.

Siamo nel 1707, l’anno che consacra l’unione delle corone inglesi e scozzesi. Rispetto ai processi seicenteschi di costituzione della monarchia inglese, l’Atto di Unione tra regno di Scozia e regno di Inghilterra rappresenta un ulteriore momento di discontinuità: se dal punto di vista giuspubblicistico l’Unione anglo-scozzese del 1707 fu un’incorporazione di due regni i quali, cessando di esistere, dettero luogo al regno di Gran Bretagna, il risultato fu, dal punto di vista pratico, una confederazione3.

Sebbene il Parlamento fosse divenuto unico, permasero infatti due differenti organiz- zazioni ecclesiastiche e due differenti regimi giuridici. L’Unione realizzava cioè un

mélange “mostruoso” di incorporazione e confederazione che non riuscì, nonostante l’apparente unità “rappresentativa” sancita dall’unione dei Parlamenti, a formare un unico corpo politico, aprendo quelle crepe nel dispositivo di sovranità che si allarga- rono in modo definitivo sul finire del secolo.

3 Cfr. J.G.A.POCOCK, La ricostruzione di un impero. Sovranità britannica e federalismo americano, Man-

Non si tratta però di una mera ridefinizione del dominio britannico su scala spa- ziale. La modernità imperiale britannica, già dal principio, si mostra come attraver- sata da differenti regimi di storicità4, ossia di differenti modalità collettive di rappor-

tarsi col tempo, col passato, presente e futuro, da altri ritmi di organizzazione della società, la cui sincronizzazione appare immediatamente come una delle principali po- ste in gioco. Soffermarsi sulla presenza di queste pratiche di sincronizzazione, al di sotto della mera superficie costituzionale, ci aiuterà a comprendere come il regime di storicità della modernità – ossia quella particolare articolazione di passato, presente e futuro che assumerà le forme dell’ideologia del progresso – nel momento della sua emersione nel Settecento, sia stato sfidato da altre temporalità. O meglio, si sia deter- minato nello scontro e nel confronto con altre temporalità.

Permettere alla Scozia di conservare le proprie istituzioni giuridiche – uno dei con- testi principali di articolazione della temporalità di una società, in riferimento soprat- tutto alle sue “tradizioni” – fu una mossa che innanzitutto poteva avvantaggiarsi del supporto della borghesia delle Lowlands nell’eliminare il pericolo delle Highlands, la cui potenza militare continuò a spaventare l’Inghilterra a causa delle invasioni del 1715 e del 1745 e dei due tentativi falliti del 1708 e del 1719. Le Highlands, fino a metà del Settecento, rappresentarono una delle principali sfide per un impero che dal primo quarto di secolo controllava parti delle Americhe, dell’India e dell’Africa.

È importante anticipare come le Highlands e le Lowlands scozzesi rappresentas- sero due distinte culture, contraddistinte – almeno fino al tardo Seicento – da due lingue differenti oltre che da differenti modalità di organizzazione sociale. Se l’unione delle corone del 1603 produsse uno spostamento di potere dalle Highlands verso Lon- dra (a causa del trasferimento di James I e della sua corte nella capitale), ciò non si era accompagnato a un processo di assimilazione della cultura scozzese in quella in- glese. Se per alcuni versi questo aveva preso piede nelle Lowlands, nelle vicine Hi- ghlands, al contrario, il gaelico persistette fino al 1746, data in cui si verificò un evento

che sarà destinato tanto a restare nelle memorie scozzesi quanto a orientare il dibat- tito sullo stesso processo di integrazione.

Nel 1745 migliaia di highlanders scozzesi armati, intenti a rovesciare la corona in- glese e a mettere sul trono il Bonny Prince Charlie (nipote di Giacomo Edoardo Stuart), marciarono sulle Lowlands, occupando Edimburgo e tutte le maggiori città scozzesi. Successivamente, penetrarono in Inghilterra dove, tuttavia, l'invasione perse di slancio a Derby (a cento miglia da Londra), e gli highlanders si ritirarono in Scozia durante l'inverno. Questo esercito “irregolare” fu in grado di sconfiggere tutte le truppe regolari inviate contro di loro, finché fu affrontato e sconfitto definitivamente dall'esercito britannico a Culloden, in Scozia, nell'aprile 1746.

Il 1745 e le sue conseguenze rappresentarono chiaramente uno dei momenti più importanti della storia scozzese e incisero anche sugli sviluppi di quello straordinario laboratorio intellettuale, che oggi siamo abituati a denominare Illuminismo Scozzese. Se, infatti, la causa ufficiale e “politica” di questi eventi fu attribuita al giacobitismo, ossia a quel movimento politico che puntava a ripristinare la dinastia Stuart sul trono inglese, tuttavia, la preoccupazione principale era rappresentata dalla conservazione o dalla trasformazione di un modo di vivere, che Hume e gran parte degli intellettuali scozzesi del tempo definivano «barbaro» o «rude». Una rappresentazione del genere era abbastanza diffusa tra gli intellettuali delle Lowlands e durò per molti secoli. La ricerca storica contemporanea – in particolare quella che parte da una prospettiva gaelica – ha messo in discussione questo paradigma, soffermandosi in particolare nel rilevare che la cultura delle Highlands non fosse affatto più barbara di quella delle

Lowlands5. Tutto ciò porta a supporre come l’esclusività, con cui l’etichetta di barbaro

venne applicata alle sole popolazioni delle Highlands, fosse stata nei fatti “guada- gnata” dagli highlanders per via della loro resistenza e forza militare. L’occupazione di Edimburgo aveva infatti fatto sorgere una domanda sul fatto che 8 milioni di per- sone, in mancanza dell’intervento dell’esercito di sua Maestà, sarebbero state conqui-

5 J.L.CAMPBELL, Canna: The Story of a Hebridean Island, Oxford, Oxford University Press, 1984; A.I.MAC-

state da una popolazione di 5.000 abitanti, sicuramente più coraggiosi ma indubbia- mente meno “sviluppati”.

Al di là dell’evidente prospettiva “coloniale” che innerva gran parte dei resoconti dell’epoca, è importante registrare che la storia della civilization inizia con il problema di come rendere conto della compresenza, all’interno di una stessa società, di popola- zioni «rudi, selvagge e barbare» e di popolazioni civilizzate, e di come sincronizzare le prime su uno spartito temporale sempre più prossimo a quello della nascente società commerciale britannica. Fu questa sfida a innescare quel movimento intellettuale che presiede all’invenzione scozzese della teoria stadiale e della storia congetturale6. Civile

divenne in quegli anni la controparte retorica di rude e assunse il senso di civilizzato, in opposizione a selvaggio e barbaro. Superando lo schematismo logico del giusnatu- ralistico, il rapporto tra stato naturale e civile viene nei fatti temporalizzato, rendendo possibile così l’ingresso delle nazioni rudi nella storia, nella storia “moderna” del pro- gredire dell’organizzazione sociale dallo stadio selvaggio a quello civile. Il nodo poli- tico principale consisteva però nel comprendere come fosse possibile trasformare que- sti barbari in uomini civili, come rendere conto cioè del “salto” da uno stadio all’altro. La presenza di questi barbari interni rappresentava una contraddizione per gli intel- lettuali scozzesi, quasi tutti provenienti dalle “civili” Lowlands.

Il decisivo progetto politico-sociale che occupava le menti di Hume e degli altri scozzesi "illuminati" dei suoi tempi, e che rappresentò la fonte della preoccupazione politico-economica di Hume, aveva perciò un carattere bifronte: se da un lato, a lungo raggio, esso coincideva con l’individuazione dei dispositivi politici, giuridici ed econo- mici di produzione di un ordine del mercato mondiale a trazione britannica, dall’altro guardava a nord, alle Highlands all’invasione del 1745 e alle sue conseguenze. Questo insieme di problematiche, riassumibili nella domanda: come civilizzare le Highlands?

si sovrappone alla scrittura dei suoi Political Discourses del 1752.

I frammenti humiani, dai quali emergono i tratti dell’organizzazione sociale delle

6 Cfr. R.L.MEEK, Il cattivo selvaggio, Milano, il Saggiatore, 1981; D.FRANCESCONI, L’età della storia. Lin-

Highlands, mostrano come in ballo non ci fosse una semplice questione militare, fa- cilmente risolvibile con l’aiuto dell’esercito di sua maestà. Il problema principale era invece rappresentato, per lui, dal modo in cui si poteva realizzare un cambiamento della forma di vita degli highlanders, delle loro maniere e costumi, così da riuscire a produrre una vera e propria «trasmutazione»7 di queste popolazioni da barbari a ci-

vilizzati. Si trattava quindi di trasformare l’interrogativo «come sconfiggere gli hi- ghlanders» in «come mettere fine al loro modo di vita».

Scrive Hume nel 1747:

Quando gli uomini sono posti in una vita più civilizzata, e sono stati autorizzati a dedicarsi interamente alla coltivazione delle arti e dei manufatti, l'abitudine della loro mente, ancora più di quella del loro corpo, li rende presto inadatti all'uso di armi e dà una diversa direzione alla loro ambizione […]. Ma i barbari Highlander, vivendo principalmente di pastorizia, hanno tempo libero per coltivare le concezioni dell'onore militare. […] Tutto ciò nutre il loro spirito marziale, e li rende, sin dall’infanzia, soldati perfetti in tutto tranne nella cono- scenza della Disciplina8.

Come risulta evidente in questo passaggio, per Hume le Highlands mostravano come la questione dell’arretratezza economica e giuridica, della loro organizzazione clanica, fosse strettamente legata alla loro straordinaria capacità di organizzazione e di reclutamento militare e soprattutto all’imprevista resistenza da parte di una popo- lazione non colonizzata, di integrarsi nel processo di espansione delle relazioni capi- talistiche. La capacità militare delle popolazioni del nord costituiva infatti un pro- blema fortemente connesso alla loro “indolenza”, ossia alla loro refrattarietà alla di- sciplina “moderna” del lavoro salariato.

Nel suo viaggio nelle Highlands scozzesi, tra il 1724 e il 1726, Daniel Defoe aveva

7 Il termine «trasmutazione» è riferito all’opera di W.PETTY, Anatomia politica dell’Irlanda (1691). Hume

non impiega questo termine, ma la logica che promana dal suo discorso sulle Highlands e la loro civilizza- zione è potrebbe esser definita uno sviluppo ulteriore rispetto all’uso fattone da Petty, che era relativo a un processo di trasformazione “antropologica” di una popolazione – degli incivili irlandesi in quel caso – at- traverso la modificazione dei loro costumi e modi di riproduzione. Cfr. T.MCCORMICK, William Petty And the Ambitions of Political Arithmetic, Oxford, Oxford University Press, 2009.

8 D.HUME, A True Account of The Behaviour and Conduct of Archibald Stewart: Esq; Late Lord Provost

of Edinburgh. In A Letter to a Friend (1747), in M.A.BOX –D.HARVEY –M.SILVERTHORNE, A Diplomatic

Transcription of Hume’s “Volunteer Pamphlet” for Archibald Stewart: Political Whigs, Religious Whigs, and Jacobites, «Hume Studies», 29, 2/2003, p. 236 (traduzione mia); ora tradotto anche in italiano: D. HUME, L’insurrezione giacobita del 1745 e la difesa del prevosto di Edimburgo, in D.HUME, Scritti sulla

legato la straordinaria riluttanza dei suoi abitanti a impiegarsi in lavori salariati con l’estrema facilità con cui per loro era possibile procacciarsi ciò di cui necessitavano per la sussistenza, attraverso caccia e pastorizia9. Thomas Pennant, un botanico in-

glese che scrisse un resoconto di un suo viaggio in Scozia, annotava, ancora nel 1771, che «le maniere dei nativi dell'altopiano possono essere espresse con queste parole: indolenti in alto grado, a meno che non siano state scatenate dalla guerra»10. L'energia

che gli highlanders dedicavano alla caccia o alla guerra contrastava sfavorevolmente con la loro mancanza di entusiasmo per il lavoro salariato. D’altronde, comportamenti come questi erano anche incentivati dai bassissimi salari che vigevano in quel periodo in Scozia e in particolare nelle Highlands11.

Un problema come questo esiste anche per Hume. Per quanto meno interessato, rispetto ad altri suoi contemporanei scozzesi, alla descrizione dei meccanismi di ac- cumulazione originaria tramite recinzioni e migrazioni forzate, civilizzare le Hi- ghlands per lui significava riuscire a produrre quel cambiamento necessario affinché passioni e sentimenti fossero reindirizzati in modo tale da essere sincronizzati con le esigenze del capitale. Quanto afferma in un passo del saggio Sul commercio doveva essere reso universale: «Tutto nel mondo si acquista con il lavoro; e le nostre passioni sono la sola causa del lavoro»12.

Non si trattava tuttavia di far fronte a una differenza antropologica fondamen- tale13. L’unità del concetto di natura umana, al netto di alcuni passaggi relativi alle

popolazioni nere14, non permetteva di tracciare storie differenti per differenti popoli.

9 D.DEFOE, A Tour Through the Whole Island of Great Britain (1724–26), Baltimore, Md., Penguin, 1971,

pp. 664-667.

10 T.PENNANT, A Tour in Scotland, London, B. White, 1772, p. 176.

11 Come annota M. Perelman, secondo le stime di Adam Smith sui tassi salariali per il lavoro nei dintorni

di Edimburgo, dove i lavoratori erano senza dubbio pagati di più che in campagna, un cittadino di quella città avrebbe dovuto lavorare per tre giorni interi per guadagnare abbastanza per acquistare un paio di scarpe. In M.PERELMAN, The Invention of Capitalism. Classical Political Economy and the Secret History

of Primitive Accumulation, Duhram & London, Duke University Press, 2000, p. 41.

12 D.HUME, Sul commercio, in D.HUME, Opere, a cura di E. Lecaldano – E. Mistretta, Bari, Laterza, 1971,

vol. 2, p. 668.

13 La nostra interpretazione differisce su questo punto da quella di S.SEBASTIANI, I limiti del progresso.

Razza e genere nell’illuminismo scozzese, Bologna, Il Mulino, 2008.

Il soggetto della storia congetturale non era “questa” o “quella” società particolare, o la razza umana, ma un concetto di società che doveva essere in grado di integrare e sincronizzare “sistemicamente” differenti traiettorie e temporalità, andando progres- sivamente a coincidere con una forma di ordine profondamente nuova, perché se- gnata da un elemento precedentemente considerato come suo opposto, il movimento. Ma soprattutto, «società» diveniva lo spazio di produzione, e non di semplice appli- cazione, del potere. È la società che impone alla politica i propri tempi e una politica di riforma dei costumi non può prescindere dal riconoscere, nel tempo della società, una risorsa di potere di cui non può disporre in modo sovrano. Civilization è uno dei nomi di questo movimento di emersione della società quale matrice permanente del potere politico e quale spazio di riproduzione delle sue dinamiche immanenti, ma so- prattutto è un nome che inquadra il tema della produzione di un ordine temporale dei comportamenti sociali, in grado di ergersi a vero e proprio “regime”, ossia come modalità politica di regolazione dei ritmi e dei tempi di una società.

Come trasmutare quindi gli highlanders da barbari in scozzesi civilizzati? Per quanto nella sua critica al contratto originario Hume abbia affermato che all’origine di tutti i governi c’è conquista, usurpazione e forza, affidarsi agli effetti smussanti dell’abitudine (custom) alla sottomissione, per spiegare la tenuta dell’ob- bedienza politica, rischiava di risultare una pura illusione. Se un momento di accu- mulazione originaria dell’autorità politica risultava fondamentale, esso non poteva tuttavia spiegare il meccanismo di riproduzione di un determinato assetto di potere, se non attraverso la riproposizione costante, e costosa in termini di risorse sociali e politiche, di quella stessa violenza originaria.

Quella che si rendeva necessaria era una vera e propria mutazione antropologica che, tuttavia, nell’impostazione humiana risultava del tutto impossibile da effettuare sotto l’egida della spada e della legge. Un problema di questo tipo emerse, con parti- colare urgenza, qualche anno dopo la sconfitta militare del 1746. La prima risposta del governo alla rivolta del 1745 era stata repressiva, compresa l'approvazione nel 1746 del Disarming Act, che proibiva non solo il possesso di pistole e spade da parte di tutti gli abitanti delle Highlands, ma anche di pugnali e scudi. Un’altra legge dello stesso

anno, il Tenures Abolition Act, abolì l’ordinamento fondiario legato alle prestazioni militari, trasformando questi possedimenti in feudi ordinari, per i quali il detentore pagava un affitto nominale alla Corona. Sul medesimo schema, nel 1752, fu dibattuto e successivamente approvato dalla Camera dei Lords l’Annexed Forfeited Estates Act, una legge con la quale venivano nazionalizzati tredici possedimenti terrieri dei capi giacobiti delle Highlands, accusati di tradimento, e che assegnava a una commissione nominata dalla Corona di gestirli e utilizzarne i profitti per “civilizzare le Highlands”.

Il dibattito attorno a questa legge, nelle sue posizioni più rappresentative, pro e contra, mostrava come dietro alla necessità di «civilizzare i barbari» e di «migliorare [improve] le Highlands» continuasse a esserci l’obiettivo di «prevenire i disordini»15.

L’uso della forza, evidentemente, non si era dimostrato sufficiente a questo fine. Tut- tavia, anche l’instaurazione di un semplice regime di proprietà privata non avrebbe escluso la possibilità che quelle terre sarebbero tornate, in un momento successivo e in forza di vincoli “tradizionali”, nelle mani dei loro precedenti possessori. La legge doveva avere quindi un effetto più ampio, non poteva individuare i comportamenti dei capi clan quale unico oggetto da riformare, ma incidere sul sistema complessivo di regolazione dei rapporti sociali interni e degli scambi economici. Questo insieme di ragioni rendeva difficile raggiungere un simile risultato attraverso il puro comando.

Non abbiamo fonti per attestare quale fosse la posizione di Hume rispetto a questa