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1. La natura dei diritti

La comprensione dei diritti umani muta costantemente in corrispondenza delle costellazioni storiche che attraversano. La loro universalità rivela così il suo carattere storico, il loro soggetto viene ridefinito, mentre viene riconfigurato il quadro norma- tivo all’interno del quale essi necessariamente si inseriscono. All’origine, nel momento delle rivoluzioni atlantiche, essi appaiono come assicurazione della posizione dell’in- dividuo all’interno del processo di costituzione dello Stato nazionale. In particolare, in Francia la Déclaration è la formazione di compromesso tra due tendenze destinate a richiamarsi costantemente nel momento in cui la rivendicazione di diritti incontra e si scontra con l’assicurazione giuridica della continuità dell’ordine sociale. Nella Dé- claration del 1789, infatti, la critica illuminista incontra il «diritto naturale ispirato al neostoicismo»1 con la sua tensione ad accoppiare costantemente i diritti naturali ai

doveri dell’uomo2. Questa tensione interna al discorso dei diritti appare in tutta evi-

denza se si considerano le posizioni di Diderot e, almeno in parte, di Rousseau e quelle dei fisiocratici. Per i primi è evidente che «l’uomo non è libero». Cercano quindi di individuare le modalità in cui possano darsi un diritto e una volontà comuni per degli uomini che vivono un’«esistenza povera, controversa, inquieta», mossa da «passioni e necessità». Questi uomini dipendono dunque dalla volontà generale e a essi Diderot dice: «Avete il diritto naturale più sacro a tutto quanto non vi è contestato dalla intera specie. Essa vi illuminerà sulla natura dei vostri pensieri e desideri. Quanto concepi- rete, quanto mediterete sarà buono, grande, elevato sublime, se è nell’interesse gene- rale e comune»3. I fisiocratici, invece, riaffermando la dialettica tra diritti e doveri

1 V.FERRONE, Storia dei diritti dell’uomo, Roma-Bari, Laterza, 2019, p. 135.

2 G.OESTREICH, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Roma-Bari, Laterza, 2001. Sulla pe-

netrazione e la rilevanza del pensiero politico neostoico in Europa cfr. G.OESTREICH, Filosofia e costitu-

zione dello Stato moderno, a cura di P. Schiera, Napoli, Bibliopolis, 1989.

3 Si tratta della voce dell’Enciclopedia,Diritto naturale, in DIDEROT, Scritti politici, Milano, Mondadori,

dell’uomo, inaugurano una linea che passando per Mirabeau arriva fino gli idéologues

e a Sieyès. Essa presuppone l’esistenza di un ordine naturale e sociale dal quale le società non possono distaccarsi. Su di esso si basano «i diritti di ogni uomo, anteriori a ogni convenzione», ma essi sono precisamente determinati e sono «la libertà di provvedere alla propria sussistenza e al proprio benessere, la proprietà della propria persona e quella delle cose acquisite con il lavoro della propria persona»4. Il lavoro è

un dovere sociale e morale ed è quindi il correlato fondamentale della libertà e della proprietà, il presupposto stesso del loro godimento. «Così attaccare la proprietà è at- taccare la libertà; così alterare la libertà è alterare la proprietà; così PROPRIETÀ SI- CUREZZA LIBERTÀ sono ciò che noi cerchiamo e ciò che dobbiamo evidentemente trovare nelle leggi positive che ci proponiamo di istituire»5.

La dialettica tra diritti e obbligazione ritorna costantemente nel discorso dei di- ritti, nel momento in cui non solo le dichiarazioni che si susseguono a partire dal 1789, ma soprattutto il discorso politico incentrato su di esse sono organizzati intorno a due assi: quello della difesa delle prerogative inviolabili degli individui e quello che stabi- lisce il loro immediato e necessario inserimento all’interno dell’ordine della società e quindi dello Stato quale sua specifica forma di organizzazione politica. Questa ten- sione tra l’uomo e il cittadino è notoriamente la più evidente e la più problematica, sebbene non l’unica a caratterizzare la Déclaration del 1789. Quest’ultima, proprio per la sua forma dichiarativa, è anche l’espressione di una specifica capacità performativa del discorso politico, grazie alla quale non solo «l’uomo dichiara che cosa è diritto», ma afferma la sua titolarità di «un diritto alla dichiarazione». Quella che si presenta come una «prassi del dire al di là del diritto» traccia un confine tra ogni singolo indi- viduo e gli altri individui, come pure tra questi ultimi e lo Stato. Il fatto che i diritti sembrino stabilire la base per l’autoaffermazione di ogni singolo individuo, determina

à l’âge de l’Encyclopédie, Paris, Honoré Champion, 2016, pp. 475-478; J.PROUST,Diderot et l’Encyclopé-

die, Paris, Albin Michel, 1995, pp. 393-399.

4 P.S. DUPONT DE NEMOURS, De l’origine et des progrèsd’une science nouvelle (1768), Paris, Geuthner,

1910, p. 11. Sulla contrapposizione tra le due linee cfr. R. BACH,Les Physiocrates et la science politique de

leur temps, «Revue Française d'Histoire des Idées Politiques», 20/2, 2004, pp. 5-35.

5 LE MERCIER DE LA RIVIERE,L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques (1767), Paris, Geuthner,

la costituzione di un piano sul quale la loro proiezione orizzontale definisce lo spazio di azione individuale, che dovrebbe essere possibile affermare e difendere anche nei confronti degli altri individui. Proprio il problema della difesa di quello spazio, tutta- via, inaugura la proiezione verticale dei diritti che ne fa una componente della rego- lazione statale dei rapporti sociali. Quello che appare come il sintomo della diffidenza costitutiva della nascente società civile borghese nei confronti del sistema politico è allo stesso tempo una neutralizzazione del suo carattere potenzialmente polemico. Proprio per questo il dovere del neostoicismo politico può ripresentarsi come sotto- missione nei confronti dello Stato alla cui configurazione istituzionale gli individui pretendono però ora di poter prendere parte.

Ciò nonostante i diritti continuano a essere percepiti come il frutto dell’«espe- rienza di una ferita» che si presenta come «forma discorsiva della sofferenza». Il tito- lare di questa denuncia è l’uomo della dichiarazione, il quale però deve fare i conti con il diritto oggettivo che incorpora al suo interno i suoi stessi diritti producendo una «desoggettivazione e formalizzazione dell’umano (diritto)»6, risolvendo di conse-

guenza a favore del cittadino la tensione con l’uomo. A partire da queste considera- zioni è stato possibile sostenere che in realtà le dichiarazioni dei diritti sono il mo- mento di chiusura della domanda sull’essenza dell’uomo. «Che gli uomini, in quanto

sono uomini, abbiano un diritto di essere uomini diviene tema e oggetto di sanzioni giuridiche, disposizioni, direttive e decreti, oggetto di misure legislative, giurispru- denziali ed esecutive». Il tempo dei diritti dell’uomo non è tanto quello della possibi- lità di rivendicare qualcosa che spetta all’uomo in quanto uomo, esso piuttosto è piut- tosto il «tempo del tribunale»7. Questa «amputazione dell’uomo» è possibile perché,

di fronte ai conflitti che contrappongono quegli stessi uomini indicati come soggetti universali di diritto, risulta vieppiù insostenibile l’idea di una sola natura razionale presente in tutti. La costante decomposizione e ricomposizione del concetto di natura

6 C.VISMANN, Menschenrechte: Instanz des Sprechens – Instrument der Politik, in C. MENKE F.RAI-

MONDI (eds), Die Revolution der Menschenrechte. Grundlegende Texte zu einem neuen Begriff des Politi-

schen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2017, p. 165, 268 e 172.

7 W.HAMACHER,Vom Recht, Rechte nicht gebrauchen. Menschenrechte und Urteilsstruktur, in C.MENKE

umana serve da questo punto di vista a stabilire sì una base comune, ma allo stesso tempo a definire tutta una serie di gerarchie che comportano processi di differenzia- zione che stabiliscono soglie di inclusione e di esclusione8.

All’oscillazione che investe l’universalità della natura umana si accompagna il pro- blema della natura pregiuridica dei diritti che devono necessariamente trovare una veste positiva all’interno dell’ordinamento, pena il loro apparire letteralmente delle norme esterne e anteriori alla legge che possono in ogni momento metterne in discus- sione la legittimità. Sia che essi vengano ricondotti a un fondamento morale pregiu- ridico, sia se essi sono considerati la dichiarazione di un potere costituente, il pro- blema che si pone è quello di farne delle articolazioni del diritto statuito. Soprattutto in Germania, a ridosso della rivoluzione del 1848, questo sforzo di giuridificazione dei diritti dell’uomo porta a mutare la loro stessa denominazione che diviene quella di “diritti fondamentali”, in modo da chiarire che, essendo essi parte dell’ordinamento giuridico, non possono in nessun caso essere considerati in contrapposizione a esso9.

In realtà è in questa accezione che i diritti, divenuti così soggettivi non in contrappo- sizione ma come complemento del diritto oggettivo, entrano realmente a far parte della costituzione democratica dello Stato divenendo il correlato della sovranità po- polare. In questo senso per Jürgen Habermas il soggetto dei diritti coincide con il soggetto democratico in quanto soggetto autonomo della legislazione. Non esistendo un’origine differente tra l’autonomia privata e quella pubblica, la «sostanza dei diritti

8 Cfr. A.PANDOLFI,Natura umana, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 11 che giustamente scrive: «Nella Dichia-

razione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, la natività e il semplice fatto di essere in vita, procla- mati come punti di origine della nazione e della titolarità dei diritti fondamentali, vengono sottoposti a distinzioni inclusive e ad altrettante esclusioni nel momento in cui sono designati a generare la cittadinanza politica […] avremo così che non tutti gli esseri umani sono ugualmente liberi (non lo sono le donne e i minori; gli anormali e gli interdetti; i servi e gli stranieri) ma, soprattutto, che solo alcuni uomini divengono cittadini».

9 M.RICCIARDI,Lavoro, cittadinanza, costituzione. Dottrina della società e diritti fondamentali tra movi-

mento sociale e rivoluzione, in R.GHERARDI –G.GOZZI (eds), Saperi della borghesia e storia dei concetti fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 119-159. A proposito della costituzione di Weimar C. SCHMITT,Grundrechte und Grundpflichten (1932), in C.SCHMITT,Verfassungsrechtliche Aufsätze aus den

Jahren 1924-1954. Materialien zu einer Verfassungslehre, Berlin, Duncker & Humblot, 19852, pp. 181-231

ha rilevato che anche le «determinazioni dei diritti fondamentali sono diritto oggettivo» e che i «“diritti fondamentali” [Fundamentalrechte] per es. di una monarchia feudale o cetuale non solo dal punto di vista del contenuto, ma anche da quello della loro struttura logico-giuridica sono modulati diversamente dai diritti di libertà di uno Stato liberale di diritto» (pp. 189-190).

dell’uomo si concentra nelle condizioni formali necessarie a istituzionalizzare giuridi- camente quella modalità di formazione discorsiva dell’opinione e della volontà, nella quale la sovranità del popolo assume forma giuridica»10.

Il connubio indistinguibile di diritti fondamentali e umani mostra in ogni caso che questi ultimi sono «tutt’altro che “diritti umani eterni”, tanto che cercano di prevenire certe tendenze regressive [impedendo] che tutte le comunicazioni si orientino ai par- ticolari scopi della burocrazia statale». A essi non viene riconosciuto alcun nessun va- lore fondativo dello Stato democratico, ma sono invece considerati l’«istituzione fina- lizzata al mantenimento dell’ordine sociale differenziato»11. In questo modo viene di-

chiarata priva di fondamento la classica opposizione tra società e Stato e il problema non è tanto la salvaguardia dell’astratta libertà degli individui, quanto piuttosto il mantenimento e la progressione della differenziazione sociale. Se Habermas risolve il problema dei diritti all’interno dello Stato (nazionale) democratico, in Luhmann esso ha una dimensione compiutamente societaria. Proprio per questo esso si ripropone all’interno della società-mondo nella quale le differenze non sono superabili facendo semplicemente riferimento alla potenza sovrana del popolo.

Questa tensione è però già evidente sulla seconda costellazione storica in cui i di- ritti umani tornano potentemente alla ribalta dopo la Seconda guerra mondiale con il tentativo controverso di farne un argine contro il totalitarismo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 rivela il carattere eminentemente storico dell’universale. Se infatti in essa persistono alcuni degli elementi fondamentali della

Déclaration del 1789, vi compaiono anche alcuni diritti sociali che assurgono dunque al rango di diritti umani. Essa registra il cambio di scena avvenuto e la dialettica tra Stati che conduce alla sua redazione mostra che la dimensione necessariamente in- ternazionale si affianca a quella cosmopolitica. Scompare il riferimento alla natura umana, che riemerge significativamente solo quando si tratta di definire la famiglia «il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla

10 J. HABERMAS, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen

Rechtsstaats, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1994, p. 135.

società e dallo Stato» (art. 16). Trascurato almeno momentaneamente il loro fonda- mento naturale, i diritti divengono il presupposto della pace all’interno di un mondo che, per quanto nel preambolo sia presentato come «umana famiglia», è popolato da una pluralità di Stati in conflitto tra di loro. L’articolo 28 riassume anzi molto chiara- mente il doppio statuto sociale e internazionale della dichiarazione: «Ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati». Il carattere compiu- tamente internazionale dell’ordine politico pone però un problema che le classiche teorie dei diritti dell’uomo non avevano il bisogno di porre. Esse, infatti, affermavano una riserva morale dell’individuo che veniva fatta valere come momento costituzio- nale dello Stato stesso. Il problema che dal 1948 si pone è invece differente e riguarda la possibilità di farsi valere come uomini e donne nei confronti di uno Stato diverso da quello di cui si è già cittadini. Sotto la voce diritto d’asilo viene così definita la si- tuazione in cui lo Stato di origine, non rispettando i diritti del cittadino, riattiva la possibilità di far appello ai diritti umani. Allo stesso tempo, inoltre, l’art. 23 prevede che ogni «individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e sod- disfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione». Questa apparente riproposizione della rivendicazione che aveva attraversato il dibattito poli- tico-sociale in Francia nella prima metà dell’Ottocento12, non può essere letta solo

come esito della polemica ideologica tra socialismo e liberalismo che ha notoriamente accompagnato la redazione della Dichiarazione. Essa annuncia la nuova dimensione che i diritti si apprestano ad assumere nei decenni successivi. Non a caso Thomas Marshall, per spiegare la nuova generazione dei diritti che avrebbero dovuto aggiun- gersi a quelli civili e a quelli politici, può scrivere: «I diritti sociali nella loro forma moderna comportano una invasione del contratto da parte dello status, la subordina- zione del prezzo di mercato alla giustizia sociale, e la sostituzione della dichiarazione dei diritti alla libera contrattazione»13.

12 E.ANTONETTI,Il lavoro tra necessità e diritto. Il dibattito sociale nella Francia tra due rivoluzioni, Milano,

Franco Angeli, 2004.

2. La società dei diritti

L’introduzione dei diritti sociali pretende consapevolmente di aggiornare il mo- dello delle relazioni politiche e sociali, stabilendo che esse non possono più essere pensate su base meramente contrattuale. A essere dichiarate non sono più la libertà e l’uguaglianza sulle quali si deve fondare il diritto, ma il progetto di configurazione di una società che prevede la cittadinanza nazionale come forma di agire istituzionaliz- zato. Solo destituendo il contratto dalla sua collocazione di paradigma dell’agire so- ciale è possibile introdurre posizioni che non sono definite dalla relazione con gli altri individui, ma dall’appartenenza e dalla specifica posizione che si occupa nella società. La proiezione orizzontale, che rimaneva quasi secondaria nelle dichiarazioni settecen- tesche, assume così un’indiscutibile rilevanza. Viene anzi dichiarata la necessità di uno status in grado di incarnare l’universale in figure determinate e riconosciute, li- berandole dalla necessità di misurare materialmente la loro umanità solo dopo aver concluso con successo dei contratti. Il paradigma contrattuale, infatti, produce l’ef- fetto che l’universale sia sempre rappresentato a posteriori, ovvero dopo la conclu- sione dei contratti. La libertà e l’uguaglianza che esso presuppone si collocano in una fase di sospensione precontrattuale – durante la quale tutti (o, quasi tutti, a dire il vero) possono potenzialmente concludere contratti – e la fase in cui i contratti sono stati conclusi, durante la quale si vede chiaramente chi sono i buoni cittadini, ovvero chi è stato in grado di concludere i contratti più vantaggiosi per sé. Il presupposto del paradigma contrattuale è che il massimo vantaggio ottenuto per sé, è anche il mas- simo vantaggio universale. Dichiarare l’esistenza di diritti sociali14 impatta con forza

questa convinzione e produce una moltiplicazione potenzialmente infinita dei diritti che possono essere rivendicati a partire dall’uguaglianza prevista più dalla logica che dalla realtà della cittadinanza.

14 Non si può dimenticare quanto prevede l’art. 25 della Dichiarazione del 1948: «Ogni individuo ha diritto

ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con partico- lare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Questa connessione tra diritti umani e diritti sociali è un’aporia dei primi, perché pretende di «garantire ciò che non è possibile garantire politicamente o che almeno non era stato ancora garantito politicamente». Hannah Arendt, che è decisamente critica nei confronti di questa vera e propria esplosione delle rivendicazioni che pre- tendono il nome di diritti umani, sostiene che essi finiscono per essere «una sorta di diritto d’eccezione per gli oppressi», che mette in tensione non solo il concetto di di- ritti, ma la capacità stessa degli Stati di rispondere alle molteplici richieste che ven- gono loro rivolte. Si assiste così a un doppio movimento in forza del quale lo Stato sovrano viene confermato quale principale destinatario delle rivendicazioni degli op- pressi, mentre allo stesso tempo sovraccarica di aspettative quello stesso Stato spin- gendolo fino al punto in cui non può più rispondere. «Una legislazione sociale ordi- naria è una cosa bellissima; ma da ciò non consegue che il diritto alla pensione sia un inalienabile diritto umano». Arendt preferisce senza dubbio una versione dei diritti umani che non è semplicemente più ristretta rispetto a quella dichiarata negli Stati Uniti e in Francia. Non si tratta nemmeno di chiarire concettualmente la loro diffe- renza specifica rispetto ai diritti civili che possono o non possono essere garantiti dallo Stato. I diritti umani non possono garantire positivamente una possibilità di azione, ma solo registrare che esistono degli individui, come i rifugiati, che sono assoluta- mente privi di diritti, perché non c’è «alcuna legge che possa obbligare le nazioni a nutrirli». Essi sono dunque degli indicatori specifici che solo linguisticamente sono registrati nell’idioma del diritto, ma denotano in realtà non l’assenza di questa o quella possibilità di azione, ma l’impossibilità di parlare e agire pubblicamente all’interno della comunità. I diritti umani segnano dunque una perdita politica, che non può es- sere semplicemente risarcita, perché è di fatto una esclusione dall’umanità. «Questa nuova situazione, nella quale l’“umanità” ha fattualmente rilevato il ruolo che veniva in precedenza ascritto alla natura o alla storia, significherebbe in questo contesto che il diritto ai diritti o il diritto di ogni uomo di appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa»15.

15 H.ARENDT, Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, München – Zürich, Piper, 1986, pp. 453, 457 e

In questo modo viene indicata una soluzione del «problema del prima/dopo», cioè se il fondamento dei diritti umani si colloca in un ambito prestatale o se solo l’auto- rizzazione statale ne può consentire il rispetto, perché essi divengono una sorta di compito attuale dell’umanità nei confronti di se stessa. Viene però confermato il pa- radosso che la «validità della norma dipende dalla sua violazione»16, nel senso che

l’attivazione dei diritti finisce per dipendere dalla loro negazione. Nonostante Arendt non viene nemmeno risolto il paradosso dei diritti fondamentali sociali rivendicati a partire dai rapporti societari vigenti. Questa declinazione dei diritti pone decisamente il problema della loro definizione specifica e puntuale così come del loro inserimento all’interno dell’ordinamento giuridico17. Essi non registrano solamente il superamento