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Scrivere di Alessandro Pandolfi, per me, è scrivere soprattutto di un amico. Un amico trovato da adulto e dunque, di solito, con maggiore difficoltà, vincendo la dif- fidenza che aumenta con gli anni. Con Alessandro invece no; è stato facile, direi quasi naturale, se ciò volesse dire qualcosa. L’ho incontrato al Naga, in un momento in cui le idee e le voglie latitavano per tutti; l’ho sentito parlare in assemblea una volta, poi una seconda e mi sono detto, ci siamo detti, «ma questo chi è?». Sprizzava voglia, interesse, intelligenza e soprattutto restituiva l’idea che l’associazione, il Naga, fosse un luogo bello e determinante dove stare; un luogo da cui si scorgevano le contraddi- zioni della società e da dove innanzitutto si poteva cominciare a contrastarle, anzi da dove le si contrastava già da sempre.

Secondo Alessandro, il Naga si trovava nel mezzo di una trasformazione profonda e irreversibile che riguardava, simultaneamente, il mondo esterno e il proprio interno. Il Naga testimoniava la mutazione continua e senza soluzione di continuità dei feno- meni migratori. L’immigrazione come analizzatore, come potente fattore di proble- matizzazione di forme e confini: fisici, giuridici, economici, politici, etici, antropolo- gici, culturali. Pandolfi diceva che i movimenti migratori interpellano radicalmente l’idea di società che più o meno confusamente possediamo; mettono in questione la cittadinanza; sovvertono i criteri della nostra appartenenza a una comunità nazio- nale; destabilizzano le identità sociali, i ruoli e i rapporti di genere. E noi, i soci del Naga, all’incirca lo sapevamo quello che diceva Alessandro, ma forse non così chiara- mente, non in modo così teorico.

Era in grado di coniugare il suo sapere filosofico con le esigenze dell’attività asso- ciativa, la necessità di fare delle cose in concreto. Era entrato nel gruppo-carcere e ogni settimana andava a San Vittore, parlava con i detenuti stranieri, un po’ si depri- meva un po’ teorizzava: il carcere come discarica sociale. Una volta contribuiva a or- ganizzare un video, un’altra volta promuoveva un corso e, sempre, interagiva con i

“prigionieri”, ascoltava. Scriveva sulla «Nagazzetta», il mensile autoprodotto dell’as- sociazione; questo gli veniva facile, naturalmente; collaborando con gli altri pochi re- dattori, aveva sempre idee su chi intervistare, chi far scrivere, cosa chiedere, su cosa interrogarsi. Il suo arrivo ha di certo elevato il livello di approfondimento degli articoli e soprattutto ha contribuito a rafforzare l’idea che l’analisi del fenomeno migratorio non può essere fatta se non tenendola in costante collegamento con gli altri temi della contemporaneità (il discorso di genere, il lavoro, le sperequazioni sociali, il welfare…). È poi entrato nel consiglio direttivo dell’associazione, mantenendo la sua grande ca- pacità di coniugare l’analisi con la prassi e portando tanto lucido entusiasmo.

Credo che il Naga per Alessandro abbia rappresentato la riscoperta dell’attivismo politico e della possibilità di compiere micro-azioni quotidiane, utili per i migranti e nel contempo significative – quasi ex se – nelle dinamiche del conflitto sociale. Per lui l’immigrazione mette allo scoperto e determina enormi trasformazioni politiche a li- vello dell’esercizio della sovranità, delle pratiche e delle tecniche di governo, dei di- spositivi di controllo e di detenzione su qualsiasi scala. «Le migrazioni sono un feno- meno sociale totale», diceva citando Sayad. Un fenomeno che, per la vastità delle sue implicazioni, mina le divisioni tra un noi dotato di identità culturale, diritti, risorse, e loro, i bisognosi, i senza diritti, i senza risorse. Le distinzioni binarie, in tale situazione, vengono disattivate. Lo dimostra il fatto che tutto ciò che viene sperimentato dai (ma anche sui) migranti, in termini di condizioni di lavoro, di salute, di libertà di movi- mento, in termini di riconoscimento e disconoscimento di diritti, retroagisce su tutti, più o meno velocemente, con aggiustamenti e adattamenti più o meno rilevanti. Re- troagisce, con tempi non lineari, delineando un orizzonte comune del vivere, dello sfruttamento, del patire, delle relazioni e delle lotte. Ecco, le lotte, per Alessandro le lotte sono dovunque, sovvertono i ruoli e si impongono con la loro e per la loro con- cretezza. Al Naga ricordiamo ancora bene il grande significato che attribuiva alle lotte dei lavoratori sfruttati della logistica, di cui in grande misura sono stati protagonisti proprio i migranti. Noi quasi non ce n’eravamo accorti.

libertà e autonomia, producendo idee e proposte caratterizzate da un taglio pragma- tico e spesso radicale, negli anni in cui Alessandro è arrivato in associazione il quadro è completamente mutato: le contraddizioni connesse all’immigrazione si sono acuite, gli attori in campo sono cambiati, le iniziative efficaci sono rare, le pratiche sono fati- cose. Alessandro, insieme a qualche socio più attento, individuò le tre direttrici fon- damentali su cui provare a muoversi: fabbricare un’intelligenza della realtà sviluppata in comune; immaginare e organizzare delle pratiche e dei modi di stare nel mondo significativi ed efficaci; dar prova di capacità politica con cui rilanciare la presenza sul territorio evitando due pericoli “mortali”: il collateralismo e la pura testimonianza. Alessandro segnalava spesso che di fronte all’immigrazione sono deleteri posture e comportamenti moralistici e che altrettanto velleitario è pensare di cavarsela con un sano “realismo politico”. Gli uni sono il retroverso dell’altro. Entrambi presuppongono una distanza e delle distinzioni che stanno sfumando o che sono già scomparse. Più che un confronto, sempre a distanza, l’immigrazione ci attrae tutti in un vortice in cui ognuno diventa qualcosa di diverso da ciò che era. L’ “oggettività scientifica” con cui si rappresentano le cause dell’immigrazione è un modo per mistificare il fatto che il fenomeno migratorio è incarnato in forme di vita, azioni, strategie, stili, desideri e capacità di resistenza. Insomma il fenomeno non è altro che il multiverso mondo della soggettività. Pandolfi, quindi, naturalmente aborriva il termine “utenza” per indicare i migranti che ricorrono ai servizi del Naga e, quasi altrettanto ovviamente, mal sop- portava il concetto di “volontariato”.