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2. Il caso delle politiche di Social Housing

2.1. Alla ricerca di una definizione di Social Housing

L’espressione social housing - che si traduce letteralmente come “abitare sociale” - è una locuzione tanto abusata quanto sfocata e tutt’oggi si trova al centro di un ampio dibattito. Secondo Minelli c’è chi fa coincidere la politica della casa con l’esigenza di soddisfare la domanda sociale di abitazioni, facilitando con vari strumenti l’accesso all’abitazione, in proprietà o in affitto, ai propri cittadini, nonché ai residenti che per lavoro si trovano nel paese. Altri, pur rifacendosi al problema, tendono a far coincidere tout court la politica pubblica per la casa con la sola social housing, ovvero quella destinata alle fasce deboli della popolazione. Altri ancora, attenti a dimensioni quali l’urgenza del problema casa e l’equità degli interventi pubblici, circoscrivono l’ambito alla capacità pubblica di far fronte a problemi sociali di povertà ed esclusione, di cui l’offerta di abitazioni è solo uno degli strumenti (sussidio al reddito, assistenza sociale e sanitaria, formazione scolastica e professionale, ecc.) prefigurati per intervenire a sostegno delle famiglie in modo integrato (Minelli, 2004).

Bronzini sostiene che la scelta del termine inglese non sia un caso e che essa stia a significare un tentativo di emulazione di modelli finanziari, gestionali e abitativi già sperimentati in altri contesti europei (Bronzini, 2014). L’aggettivo “sociale” avrebbe una doppia valenza: inclusività verso un target di soggetti sempre più ampio che esprime un disagio abitativo di un qualche tipo; e modalità diversa di abitare, maggiormente rispondente alle esigenze e alle aspettative di una società complessa e in continua trasformazione (Tosi, 1994a). Rispetto alla prima accezione, la caratterizzazione del sociale dell’housing si misura sulla base della capacità di contrastare l’esclusione abitativa e di rispondere alle difficoltà di quanti non riescono a trovare soluzioni congrue nel mercato, in modo coerente con i tipi di bisogni espressi. Nella seconda accezione, il carattere sociale rimanda alla necessità di innovazione rispetto ai modelli abitativi. Anche se la carenza quantitativa di alloggi è stata pressoché colmata in tutta Europa già a partire dagli anni ‘60-‘70, tuttavia i sistemi abitativi europei stanno mostrando forti segnali di squilibrio. Nel caso dell’Italia i dati del censimento 2011 dell’ISTAT riportano un rapporto tra numero complessivo di abitazioni e numero delle famiglie pari a 1,18. Nonostante tale dato, permangono situazioni di esclusione abitativa ed alloggi impropri: oltre 54000 tra baracche, roulotte e cantine abitate, numero più che raddoppiato rispetto alla rilevazione precedente. Inoltre, occorre segnalare che la disponibilità di un alloggio non equivale a una condizione di benessere abitativo. La FEANTSA (Federazione europea delle organizzazioni nazionali che lavorano con i senza dimora) ha elaborato una tipologia di esclusione e vulnerabilità abitativa (ETHOS), articolata in quattro categorie: senza tetto, senza casa, insecure housing, inadeguate housing (Edgar, Doherty, Meert, 2004).

Già Tosi aveva segnalato la persistenza di una condizione di disagio abitativo legato, sia a forme tradizionali - come l’assenza di servizi essenziali e il sovraffollamento per le fasce deboli della popolazione -, sia a nuove forme di emarginazione sociale ma anche ai mutamenti socio-demografici e delle strutture familiari (Tosi, 1994b).

Il disagio abitativo è legato a diverse dimensioni: fisica, legale, sociale, economica e territoriale (Edgar, Meert, 2005; Palvarini, 2006; Bronzini, 2014). La dimensione fisica fa riferimento alla sicurezza e al comfort dell’ambiente fisico dell’abitazione: riguarda lo stabile dove è situata, comprende la dotazione di servizi di base, di sufficienti spazi a

disposizione, la salubrità degli ambienti e assenza di gravi problematiche strutturali. La dimensione legale riguarda la stabilità abitativa in termini temporali dovuta, sia al titolo di godimento della proprietà, sia al grado di regolamentazione di mercato per ciò che concerne l’affitto. La dimensione sociale fa riferimento al sistema di relazioni e azioni che gravitano attorno all’abitare (Bronzini, 2014), e in che misura l’abitazione riesce a rispondere adeguatamente alle diverse necessità: identità, care, indipendenza, privacy, spazi per l’incontro. La dimensione economica riguarda l’accessibilità del mercato immobiliare e la sostenibilità delle spese abitative come rate del mutuo e canoni d’affitto o altre spese operative. La dimensione territoriale, infine, che è relativa all’ambiente circostante come il quartiere e il vicinato, tiene conto del livello di segregazione e di degrado, della presenza di servizi, di luoghi pubblici, di spazi verdi, della rete di trasporti. Rispetto alla dimensione fisica (Dati Eurostat 2012), in Italia l’8% della popolazione vive in condizioni di deprivazione abitativa, sale al 17% se consideriamo il primo quintile di reddito, mentre la media UE-15 è rispettivamente 3% e 7%. Il 26% in Italia contro il 10% UE-15 vive in condizioni di sovraffollamento (aspetto che influisce anche sulla dimensione sociale). Il 21% del campione dichiara di vivere in un appartamento che presenta danni strutturali (UE-15 15%) e per il 7% non è abbastanza luminoso. Rispetto alla dimensione territoriale, il 18% lamenta eccessivo rumore proveniente dalla strada o dai vicini, il 19% problemi di inquinamento, sporcizia e altri problemi ambientali, il 15% atti di vandalismo, crimini o violenze nella zona (in UE-15: 19,5%, 15% e 14%). Rispetto alla dimensione legale e del titolo di godimento dell’abitazione l’indagine ISTAT 2011 ha rilevato che il 72% delle famiglie vive in casa di proprietà, il 18% in affitto e il 10% con altro titolo di godimento. Circa un quarto delle famiglie in affitto vive in una casa di proprietà degli ex IACP o di altri enti locali.

Secondo Bronzini (2014) la definizione più istituzionalizzata di social housing è quella del CECODHAS: «l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari».

Tuttavia in Italia l’espressione social housing continua a essere usata per ricomprendere fenomeni molto diversi. E’ possibile identificare quattro definizioni principali:

• Una definizione più ampia che ricalca quella del CECODHAS;

• Una definizione che include solo gli interventi complementari a quelli dell’edilizia residenziale pubblica;

• Una definizione che include solo le forme partenariali pubblico-private per incrementare lo stock di abitazioni in affitto a canoni sostenibili, per cui si tende a farlo coincidere con l’edilizia residenziale sociale;

• Una definizione basata sui destinatari degli interventi e sulla natura specifica delle azioni volte sostenere la qualità dell’abitare (Bronzini, 2014).

Secondo il CECODHAS, in Italia la definizione di alloggio sociale è stata introdotta per la prima volta con il Decreto Legge del 22 aprile 2008, «Definizione di alloggio sociale ai fini dell'esenzione dall'obbligo di notifica degli aiuti di Stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea», Pubblicato sulla GU n. 24 del 24 giugno 2008. Art. 1 «... omissis... 2) è definito “alloggio sociale” l'unità immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente che svolge la funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati, che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato. L'alloggio sociale si configura come elemento essenziale del sistema di edilizia residenziale sociale costituito dall'insieme dei servizi abitativi finalizzati al soddisfacimento delle esigenze primarie. 3) Rientrano nella definizione di cui al comma 2 gli alloggi realizzati o recuperati da operatori pubblici e privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni pubbliche - quali esenzioni fiscali, assegnazione di aree od immobili, fondi di garanzia, agevolazioni di tipo urbanistico - destinati alla locazione temporanea per almeno otto anni ed anche alla proprietà. 4) Il servizio di edilizia residenziale sociale viene erogato da operatori pubblici e privati prioritariamente tramite l'offerta di alloggi in locazione alla quale va destinata la prevalenza delle risorse disponibili, nonché il sostegno all'accesso alla proprietà della casa, perseguendo l'integrazione di diverse fasce sociali e concorrendo al miglioramento delle condizioni di vita dei destinatari. 5) L'alloggio sociale, in quanto servizio di interesse economico generale, costituisce standard urbanistico aggiuntivo da assicurare mediante cessione gratuita di aree o di alloggi, sulla base e con le modalità stabilite dalle normative regionali» (CECODHAS, 2011).

Un punto di vista alternativo è presentato da Lungarella (2010), il quale sostiene che l’introduzione del termine social housing nel panorama delle politiche abitative sia in realtà uno “specchio per le allodole” e non corrisponda ad un’innovazione di contenuto di tali politiche. Al contrario, l’analisi della normativa evidenzia come nella sostanza edilizia residenziale sociale ed edilizia residenziale pubblica siano perfettamente sovrapponibili in termini di obiettivi, di contesto e di attori coinvolti. D’altronde, la stessa dinamica si era verificata nel passaggio dall’utilizzo dell’espressione “casa popolare” che è gradualmente scomparsa dal linguaggio istituzionale all’utilizzo dell’espressione edilizia residenziale pubblica. In quel caso la sostituzione terminologica era dovuta ad un’accezione dequalificante e politicamente scorretta dell’aggettivo popolare. L’autore sostiene che il passaggio da pubblico a sociale possa essere giustificato dalla volontà di allontanarsi dalla concezione dequalificante del binomio politica-pubblica accompagnata da una percezione di inservibilità degli interventi gestiti appunto dal settore pubblico: «ERS (ndr8) è una locuzione che sembra, allora, essere in grado di liberarsi del peccato originale dello statalismo e dell’inefficienza della burocrazia pubblica che, inevitabilmente, marchia l’espressione ERP (ndr9). Con il cambio di aggettivo, sociale

versus pubblico, è come se si sottoponessero ad un processo di catarsi le risorse pubbliche impiegate per favorire gli interventi, rendendole più nobili. Perché, se si vuole evitare qualcosa che sarebbe più che un malinteso, non si può ignorare che per realizzare l’edilizia residenziale che offre servizi abitativi alle classi meno abbienti, la si aggettivi come sociale o la si etichetti come pubblica, l’amministrazione pubblica non può evitare di mettere mano alla cassa.» (Lungarella, 2010, p. 277).

A conferma di tale ipotesi, è possibile rilevare che il sito istituzionale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti organizzi l’area dedicata alle politiche per la casa in tre categorie (Accesso all’abitazione, Edilizia residenziale pubblica e Housing sociale10) che

riportano gli stessi contenuti. Non solo, ma nello stesso documento finale del tavolo di concertazione generale sulle politiche abitative del 2007 è possibile leggere che «Nella

8 Edilizia Residenziale Sociale 9 Edilizia Residenziale Pubblica 10 http://www.mit.gov.it/temi/casa.

futura programmazione regionale va introdotto il nuovo concetto di “edilizia residenziale sociale” che include quello fino ad oggi utilizzato di edilizia residenziale pubblica»11.

In conclusione, le politiche di social housing o, per utilizzare l’espressione italiana, le politiche di edilizia residenziale sociale indicano e ricomprendono le politiche di edilizia residenziale pubblica anche nella loro accezione più classica che, a loro volta coincidono con la politica per la casa.