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Il diritto alla casa in prospettiva internazionale ed europea

2. Il caso delle politiche di Social Housing

2.5. Il quadro normativo del Social Housing

2.5.1. Il diritto alla casa in prospettiva internazionale ed europea

Il primo testo in cui si trovano riferimenti legislativi in tema di abitazione è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nel 1948. Nell’articolo 25 si può leggere: «ognuno ha diritto ad un livello di vita sufficiente ad assicurare la sua salute, il suo benessere e quello della sua famiglia, specialmente riguardo all’alimentazione (…) alla casa, alle cure oltre che ai servizi sociali necessari». Anche se in seguito tale dichiarazione è stata contraddetta dai reali assetti dei rapporti socio-economici (Paciullo, 2008), l’Articolo 25 riconosce e sancisce il diritto a una casa come un diritto universale dell’uomo.

Nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel novembre 1950 e ratificata nel 1955 con legge 4 agosto 1955 n. 848, il diritto alla casa viene riconosciuto in quello che è considerato il sistema più avanzato di protezione dei diritti umani (Paciullo, 2008). L’art. 8 recita: «ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio». Tuttavia, tale diritto tutela solo l’abitazione già posseduta e non afferma un diritto soggettivo alla casa (Ibidem).

L’Art. 11 del Patto relativo ai diritti economici, sociali e culturali (New York, 16 dicembre 1966, entrata in vigore: 23 marzo 1976) incorpora il diritto alla casa nel diritto ad un livello di vita sufficiente: «Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la loro famiglia, che includa

un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita».

La Conferenza delle Nazioni Unite Habitat I è la prima conferenza di una serie che affrontano l’argomento del diritto alla casa. Habitat I si conclude con l’adozione della Dichiarazione di Vancouver sull’abitazione del 1976, primo testo internazionale che qualifica il diritto alla casa come diritto fondamentale dell’uomo, diritto di disporre di un’abitazione e di servizi sufficienti. I governi sono responsabili dell’effettivo esercizio di tale diritto, con l’attivazione di aiuti rivolti agli strati più bisognosi della popolazione e con l’istituzione di programmi per sostenere l’iniziativa individuale e collettiva. Anche la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 (in vigore dal 3 settembre 1981, ratificata dall’Italia il 10 giugno 1985; ordine d’esecuzione dato con legge 14 marzo 1985 n. 132; in vigore in Italia dal 10 luglio 1985) ribadisce l’importanza di godere di condizioni di vita adeguate in particolare nell’accesso ad un alloggio dignitoso, servizi igienici, fornitura d’acqua ed elettricità, trasporti e comunicazioni.

In effetti, è a partire dalla fine degli anni ‘80 che il diritto alla casa assume maggiore rilevanza e viene posto al centro del dibattito internazionale.

La Convenzione sui diritti dell’infanzia approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con legge del 27 maggio 1991, n. 176, depositata presso le Nazioni Unite il 5 settembre 1991 Articolo 27, riconosce e inserisce il diritto alla casa all’interno del più ampio diritto a un livello di vita sufficiente «…per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale».

Nel 1993 la Commissione sui diritti dell’uomo nomina un relatore speciale al fine di stilare un rapporto sul riconoscimento legale e la formulazione giuridica del diritto alla casa. Nella seconda conferenza Habitat II, svoltasi a Istanbul nel 1996, viene elaborato un piano d’azione mondiale sul diritto ad un alloggio decente, sul finanziamento dell’ambito immobiliare e sullo sviluppo sostenibile del settore dell’edilizia abitativa. Il risultato di questa conferenza è stato principalmente quello di emancipare il diritto alla casa dal diritto

ad un livello di vita sufficiente, nel quale era stato incardinato fino a quella data, rafforzandone l’affermazione in qualità di diritto autonomo e indipendente (Paciullo, 2008). Con la Carta sociale europea del 3 maggio 1996, ratificata in Italia con legge del 9 febbraio 1999, n. 30, la tutela del diritto alla casa diviene vincolante attraverso l’art. 31 che garantisce l’effettivo esercizio del diritto all’abitazione. Vengono quindi introdotti una serie di misure come sussidi, prestiti a tasso ridotto e canoni ridotti. L’art. 31 sancisce che, al fine di assicurare l’effettivo godimento del diritto alla casa, le parti s’impegnino a: favorire l’accesso a una abitazione decente; prevenire e ridurre lo status di senza tetto fino alla sua eliminazione; rendere accessibili i costi delle abitazioni a chi non dispone di risorse sufficienti. In tal modo il consiglio d’Europa si è dotato degli strumenti necessari a condannare gli stati membri che attuano politiche abitative discriminatorie, soprattutto quelle contro le minoranze etniche, come è avvenuto nei confronti di Grecia, Italia, Bulgaria e Ungheria che sono stati richiamati per la condotta nei confronti delle popolazioni Rom (Ibidem).

La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, adottata dalla Convenzione del 2 ottobre 2000 e proclamata durante il Consiglio Europeo di Nizza il 7 e il 9 settembre 2000, ha scatenato un’intensa controversia tra gli Stati membri e, in seguito, non è stata inserita nel trattato di Nizza. Tra i temi dibattuti vivacemente anche quello del riconoscimento del diritto alla casa che in definitiva ha trovato spazio nell’art. 34 paragrafo 3 dove si afferma che al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa, volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti. Tuttavia, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è stata dichiarata priva di efficacia giuridica dalla Corte costituzionale con sentenza n. 135/2002, non essendo inserita formalmente nei Trattati europei. In ogni caso, grazie alla Carta di Nizza è stato possibile superare la tradizionale distinzione tra diritti civili e politici e diritti economici e sociali e di sancire il principio di indivisibilità dei diritti (Paciullo, 2008; Ferranti, 2002). Il 29 ottobre 2004, a Roma, i capi di stato e di governo dei 25 paesi membri firmano un progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa e nella Parte II del progetto di Trattato viene inserita la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Paciullo, 2008).

È con il trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 e approvato dal Parlamento Europeo il 20 febbraio 2008, ratificato in Italia il 31 luglio 2008 (legge 130/2008), che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea assume lo stesso valore giuridico dei trattati: l’art 1 punto 8 riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Affinché entrasse in vigore è stata necessaria la ratifica dei 27 Stati membri secondo le proprie procedure costituzionali, poiché il trattato stesso prevedeva l’entrata in vigore il primo giorno del mese successivo all’avvenuto deposito dell’ultimo strumento di ratifica. Nonostante il termine previsto fosse il 1° gennaio 2009, il trattato è entrato in vigore il 1° dicembre 2009 in seguito al deposito dello strumento di ratifica del ventisettesimo paese, la Repubblica Ceca19.

La questione del diritto alla casa è ancora oggi al centro di un ampio dibattito e di iniziative che tentano di arginare il fenomeno del disagio abitativo: basti pensare all’Agenda europea 2030 per lo sviluppo sostenibile in cui il tema della casa viene ricompreso all’interno dell’Obiettivo 11 “Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”. Il punto 11.1 mira a garantire a tutti l'accesso a alloggi adeguati, sicuri e convenienti e servizi di base e riqualificare gli slum.

2.5.2. Il diritto alla casa in Italia

In Italia il diritto alla casa trova poco spazio nella normativa vigente: l’unico riferimento esplicito all’abitare contenuto nella Costituzione italiana è l’articolo 47 che recita: «la Repubblica favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione». Tuttavia, anche tale riferimento sembra occuparsi di un diritto sull’abitazione piuttosto che di un diritto all’abitazione (Paciullo, 2008) e risulta inadeguato, preso singolarmente, a definire una direttiva per la soddisfazione dell’esigenza abitativa (Breccia, 1980). In qualche modo l’articolo 14 della Costituzione sull’inviolabilità del domicilio gravita attorno la questione dell’alloggio, seppur in maniera indiretta.

Anche le norme che regolano la famiglia fanno riferimento all’abitazione come sede naturale della famiglia stessa, nella quale adempiere ai propri compiti individuali e collettivi

(Paciullo, 2008) come testimonia l’articolo 31. Il diritto all’abitazione può essere collegato anche all’articolo 32 che riguarda il diritto alla salute poiché ne costituisce una precondizione (Chiarella, 2010). Così come possiamo considerarla anche precondizione per la realizzazione e la tutela del diritto al lavoro, stabilito dall’articolo 36.

Infine, risulta rilevante anche il collegamento tra il diritto allo studio e il diritto alla casa che trova realizzazione con la legge n. 390 del dicembre 1991 (Paciullo, 2008) che riconosce esplicitamente il legame tra il diritto agli studi universitari con la realizzazione del diritto ad un alloggio.

In sostanza, il diritto all’alloggio si trova in una posizione centrale rispetto alla realizzazione di quei diritti fondamentali con cui entra in relazione poiché si pone come presupposto di un’esistenza dignitosa.

Paciullo afferma che «Resta comunque significativo che un diritto fondamentale come il diritto all’abitazione, a differenza di quanto avviene in altri stati membri dell’Unione europea (ad esempio, Germania, Belgio, Spagna, Portogallo), non trovi ingresso nella Costituzione, se non in un ambito specifico quale è quello dettato dall’art. 47 e, indirettamente, nelle norme sopra richiamate. (…) Pone una tutela del diritto alla casa limitatamente agli ambiti considerati (lavoro, famiglia, ecc.) senza fondare un diritto all’alloggio per tutti» (Ibidem, pp. 55-56).

Dopo un periodo di quiescenza, nel 2008 le politiche abitative subiscono una riorganizzazione con l’art. 11 della legge 6 agosto 2008 n. 133, il cosiddetto “Piano casa” (Chiarella, 2010), che, al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana, mira a incrementare l'offerta di abitazioni di edilizia residenziale con particolare riferimento ad alcune categorie della popolazione come nuclei familiari a basso reddito, anche monoparentali o monoreddito, giovani coppie a basso reddito, anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate, studenti fuori sede, soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio e immigrati regolari a basso reddito. Il Piano nazionale di edilizia abitativa, approvato con D.P.C.M. 16 luglio 2009, costituisce un insieme integrato di linee

di intervento che si rivolge all'intera platea dei soggetti cui è diretto l'intervento pubblico in materia di politiche abitative20.

In tale contesto risulta rilevante anche il Decreto Legge del 22 aprile 2008, “Definizione di alloggio sociale ai fini dell'esenzione dall'obbligo di notifica degli aiuti di Stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea”, pubblicato sulla GU n. 24 del 24 giugno 2008 che definisce l’alloggio sociale come «l'unità immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente che svolge la funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati, che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato. L'alloggio sociale si configura come elemento essenziale del sistema di edilizia residenziale sociale costituito dall'insieme dei servizi abitativi finalizzati al soddisfacimento delle esigenze primarie».

Nel 2014 viene emanata un’ulteriore legge di attuazione del Piano casa: il programma di recupero ex articolo 4 del Decreto Legge n. 47 del 2014 convertito nella Legge n. 80 del 2014 recante "Misure urgenti per l'emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015" che si concentra prevalentemente sul recupero e la razionalizzazione del patrimonio pubblico esistente.

20 http://www.mit.gov.it/documentazione/piano-nazionale-edilizia-abitativa-relazione-annuale-2015-sullo- stato-di-attuazione.

3. Una metodologia per la valutazione delle politiche di

Social Housing

Nei precedenti capitoli si sono delineati alcuni tratti caratteristici delle politiche di edilizia residenziale sociale che in un certo senso possono essere considerate l’oggetto secondario della presente ricerca. La questione principale, infatti, riguarda il come valutare tali politiche poiché, se da una parte possiamo considerarle rilevanti dal punto di vista degli effetti sociali – ci si domanda in che modo le politiche possano incidere sul problema del disagio abitativo nell’ambito del diritto alla casa, ma anche dal punto di vista delle dinamiche sociali che si possono innescare come si è visto con gli esempi francese e belga – dall’altra le politiche di social housing possono essere considerate come esempio efficace di quel tipo di politiche riconducibili alla categoria della complessità.

Ed è al fine di affrontare la complessità delle politiche abitative in un’ottica valutativa che la ricerca ha sviluppato una strategia in grado di cogliere, sia la complessità, che abbiamo definito come multisettorialità, sia, soprattutto, la differenza tra la valutazione di una politica e quella dei più circoscritti progetti o interventi.

Prendendo in prestito uno dei principi cardine della teoria della Gestalt, potremmo affermare che valutare una politica non è riducibile alla somma degli interventi, dei progetti e dei programmi che la compongono. In effetti, considerarla come una semplice somma degli elementi che la compongono non permetterebbe di osservare le interrelazioni che si stabiliscono tra ciascun elemento e tutti gli altri. Inoltre, si è detto che una politica è anche ciò che si decide di non fare e, in una tale ottica, non sarebbe possibile considerare anche questo tipo di azione (non fare). Non solo, i singoli progetti possono avere obiettivi specifici che non coincidono e a volte addirittura non sono compatibili con gli obiettivi generali della politica di cui fanno parte (come nell’esempio della scolarizzazione dei giovani rom). Allo stesso tempo, tuttavia, la valutazione di una politica non può prescindere dalla valutazione dei singoli interventi, progetti e programmi, poiché una valutazione avulsa da questi rischierebbe di non essere basata su evidenze empiriche in grado di connettere le azioni intraprese con i risultati raggiunti, i risultati attesi e quelli inattesi.

Politiche ed altri tipi di intervento più circoscritti, essendo oggetti di studio differenti, possono differenziarsi sul piano dell’esercizio di valutazione, sia per il tipo di domande valutative che possiamo formulare, sia per le tecniche di ricerca che è possibile utilizzare.