Homelessness: origini e antropologia
2.1 Alla scoperta dell'Homelessness
Nelle definizioni di Homeless, di senzatetto, di persoana adulta fără adăpost, di sans abri, di
obdachlosigkeit, le molteplici lingue europee fanno dell'aspazialità e della privazione gli
elementi delineanti della marginalità più estrema. Come si è avuto modo di vedere fino ad ora, l'Homelessness insorge quando il micromondo del privato e il macromondo del sociale si uniscono a formare una “conjuction of unfortunate circumstances” (O'Flaherty in Lee B.A., Tyler K.A., Wright J.D. 2010, p.510) che sta alla base delle ineguaglianze e degli atti emarginanti che colpiscono le fasce più vulnerabili della popolazione. La recisione dei legami sociali e la perdita dei possedimenti materiali sono le conseguenze principali che queste vittime soffrono e sono, come denuncia anche Bauman, uno “structural problem rooted in the larger
political economy” (Lee B.A., Tyler K.A., Wright J.D. 2010, p.514). Il marcato ruolo del
contesto consumista nell’insorgenza dell’homelessness non è però sufficiente ad impedire il manifestarsi delle attribuzioni di colpa. Considerando infatti che “in a democratic society with
equal opportunity for all, persons are responsible for their own socioeconomic fate“ (Lee B.A.,
Lewis D.W., Hinze Jones S. 1992, p.536), ecco che il problema strutturale in questione non risulta essere solamente una controindicazione propria della modernità liquida (Abrahamson P. 2004), ma esso è composto anche di quelle fatali mancanze individuali che permettono l’insorgenza delle indigenze. I “rifiuti umani“ finiscono così col soffrire delle forme di alienazione sociale e materiale prodotte dai processi di Blaming del resto della popolazione. In Romania, come conferma la statistica riportata nel paragrafo 3.7 del primo capitolo, i senzatetto sono reputati soggetti direttamente responsabili della loro condizione. Questo ragionamento sta alla base dell'indifferenza provata da molti attori sociali, consci che gli avanzi della società consumistica non sono utili a nulla se non a mettere in discussione le fondamenta culturali sulle quali poggiano le loro intere esistenze. Di conseguenza, pensare all’homelessness e alle sue caratteristiche significa aprire una finestra sull‘effettivo funzionamento delle regole sociali stesse, cosa che in pochi si sentono pronti a compiere. Qui trova origine la solitudine dell'uomo senza dimora; perdente per eccellenza, alieno di una comunità che inneggia all'individualismo ma che denigra il fallimento dell'individuo.
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“L.D. di quarantacinque anni, è un tipico barbone da missione. Per otto mesi non lo si è visto lavorare. Durante l'inverno è sempre in qualche missione. Una volta si fece condurre in prima fila e si inginocchiò in preghiera, ma in seguito fu scacciato da quella stessa missione perché aveva bevuto. Dice che da giovane era un pugile professionista. Ha viaggiato molto ma è sempre stato un ubriacone. Quando è sobrio diventa scontroso e taciturno. Appena il tepore primaverile gli ha consentito di dormire all'aperto ha smesso di fare visita alle missioni. Ha trascorso la maggior parte dell'estate sui moli lungo il fiume; lì dorme di notte e ogni tanto scarica frutta dai battelli che fanno la spola tra Chicago e il Michigan. Durante gli otto mesi nei quali è stato tenuto sotto osservazione non ha comprato abiti nuovi. Durante l'estate non ha mai lasciato la città, nella quale sta, almeno così lui dice, da tre anni. Il futuro sembra non avere significato per lui. Non si dà pensiero dell'inverno che sta per arrivare” (Anderson N. 1997, p.94)
Il testo dal quale è tratta questa citazione etnografica è il capostipite dell’analisi antropologica dell’uomo senza dimora, del bum e degli ubriaconi. Prima dei ruggenti anni ‘20 americani che hanno fatto da sfondo alla nascita della scuola sociologica di Chicago, il tema dei senzatetto infatti non era considerato un argomento di particolare interesse. Fino ad allora anche tra gli stessi accademici valevano le stesse considerazioni sociali e le stesse dinamiche di attribuzione di colpa che vigevano tra la maggioranza della popolazione. Fu Anderson a cambiare le cose. Eppure, ad un secolo di distanza, l’approccio dei suoi predecessori, ora chiaramente obsoleto, fa ancora da sfondo a molte delle interazioni sociali che vedono coinvolti i senza dimora. Proprio per questo motivo stringere dei legami emotivi e non pregiudiziali con gli homeless cronici è un avvenimento tanto raro quanto encomiabile. Lo è in antropologia come nella vita quotidiana. L’avvicinarsi accademicamente e umanamente a questa demografia non è solo prova di un sincero tentativo di comprensione, ma è attestazione di coraggio e costanza, perché è estremamente difficile e provante avvicinare qualcuno così lontano dalla società e abituato all'assenza di punti di riferimento. Ancor più raro risulta costruire un legame tanto profondo da permettere ai senzatetto di confidarsi umanamente. La rarità di questi avvenimenti li rende pertanto estremamente preziosi e memorabili.
Nel corso della mia esperienza di campo ho avuto modo di assistere solo ad un paio di queste confidenze, frutto del legame che i senzatetto in questione nutrivano con Samusocial. In entrambe ho preferito il silenzio e il rispettoso ascolto alla possibilità di porgere domande. Come i membri del gruppo hanno avuto modo di suggerirmi, l’assistere alla franca confessione di un marginale estremo è il frutto di anni di sforzi e di supporto materiale ed emotivo. È, di conseguenza, un legame troppo prezioso ed instabile per poterlo rischiare con delle domande poste da uno sconosciuto. La mia stessa presenza rischiava infatti di incrinare gli anni di
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supporto e di avvicinamento umano effettuato dal gruppo; proprio per questo motivo ho preferito l‘osservare all’interagire.
La prima confessione a cui ho avuto modo di assistere fu quella di Vasile. Da essa trassi le prime vere considerazioni sulla natura dell’homelessness. Il nostro incontro avvenne in una stanza spoglia del centro assistenziale cattolico di Aleea Porolissum. Io, Ioan ed Elena, accompagnati da un prete del centro, eravamo in attesa di Vasile, impegnato con le preghiere della sera. La stanza era a malapena illuminata da una fioca luce che entrava da una finestra posta alle mie spalle. Nella sua parte più buia si trovava un piccolo altare usato a mo‘ di asse da stiro, e sulle mura erano appese numerose iconografie religiose. Vasile entrò senza fare rumore, camminando con quella sua camminata strana, fatta di passettini misurati. Si sedette vicino all'uscio aperto, sotto un crocifisso di legno. Qui salutò Elena e Ioan con fare amichevole, e me con la timidezza propria degli insicuri. Iniziò a parlare delle medicine che doveva prendere per la vescica nello stesso modo in cui dei conoscenti si scambiano qualche parola superficiale sul clima e sullo stato di salute. A questi convenevoli seguirono dei consigli di Elena e Ioan su come continuare la cura, e a questi seguirono a loro volta informazioni sulla durata del trattamento e sulle modalità di acquisto dei medicinali. Vasile ascoltava annuendo di tanto in tanto, talvolta si lasciava andare a qualche breve considerazione senza mai interrompere i suoi tutori. Io, in piedi e in disparte, capivo ben poco di quel che si stava dicendo; deducevo il succo del discorso dal tono della voce, dalla gestualità utilizzata e dal poco vocabolario che conoscevo. Ma anche io, sebbene lontano dal padroneggiare la lingua e nuovo al contesto rumeno, capii immediatamente quando la chiacchierata si fece più seria. Col passare dei minuti Vasile si era fatto più espansivo, più espressivo. Quasi senza preavviso aveva sentito il bisogno di parlare e di sfogarsi, esternando così nei lunghi minuti seguenti i recessi più reconditi del suo pensare. Il discorso si era fatto tanto intimo da costringere il prete presente nella stanza a chiudere la porta vicina a Vasile. Chiusi ora in un luogo religioso, circondati com'eravamo da immagini sacre e odori di candele e varechina, fummo gli spettatori della confessione di un senzatetto di lunga data. Durante la successiva ora di colloquio Vasile ci disse di preferire la morte alla vita in rifugio e alla vita in strada, ci disse che odiava la borsa che si portava appresso, diventata ormai appendice del suo corpo come può esserlo un arto. Piangendo e singhiozzando cercava in Elena e Ioan parole di conforto che spesso arrivavano sotto forma di religiosi consigli e religiose rassicurazioni sui piani di Dio. Vasile alzava gli occhi per incontrare quelli di Elena per farsi convincere che la sua vita aveva ancora un senso, che per qualcuno lui era ancora
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importante. Durante questi momenti di pura e sincera vulnerabilità umana i miei occhi talvolta si incrociavano con i suoi; dove lui cercava supporto e assenza di giudizio, io cercavo il più possibile di trasmettergli un senso di rispetto. Mi scoprivo abbassare un po‘ il capo e guardarlo con rispettosa compassione. Seppi che il mio approccio funzionò quando, un mese dopo, mentre lo stavamo trasportando verso una clinica privata per fare delle analisi del sangue, lui mi avvicinò con fare amichevole e disse di ricordarsi di me. Nel giorno della sua intima confessione però Vasile cercava più di ogni altra cosa supporto e compassione. Le frasi di circostanza a tema religioso funzionavano. Lo vedevo farsi di tanto in tanto il segno della croce e annuire sempre più visibilmente ai discorsi moralistici di Elena e Ioan. Lo vedevo alzare sempre di più lo sguardo, prima tristemente rivolto a terra, e sorridere gentilemente ad Elena che si era inginocchiata vicino a lui. Dopo circa un'ora di scambio di punti di vista e confessioni lo lasciammo con i preti della struttura. Sorrideva di sollievo. “Mulţumesc mult“ ripeteva con un filo di voce e con sentimento.
Fu solo dopo averlo lasciato e dopo essere tornato nel furgone che aprii il mio diario di campo e annotai quello a cui ebbi modo di assistere. Fu solo in quell'incontro infatti che ebbi l'impressione di aver compreso cosa fosse quell'homelessness che fino ad allora mi era sempre sfuggita, e che pensavo essere la scelta ponderata di qualche peculiare marginale. Scrissi che l‘homelessness è il displacement che segue un evento disastroso. Ad esso non c'è soluzione; la perpetuità del suo carattere impedisce ai senzatetto di sentirsi appartenenti ancora a qualcosa o a qualcuno, vittime come sono di un quotidiano che minaccia di ucciderti ogni giorno. L'homelessness, scrissi, è precarietà estrema incorporata. Ed è proprio da qui che voglio partire, dal concetto di disastro antropologico, certo della similitudine che intercorre tra le vittime di disastri naturali, malanni fisici, morti di cari, di traumi e senzatetto. È nelle dinamiche di aggiustamento a questi avvenimenti laceranti che l’homelessness presenta le sue peculiarità. Solo approcciando in questo modo il fenomeno posso tentare di restituire le sensazioni che la vista e l'esperienza dell'homelessness altrui mi ha fornito.
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