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Homelessness: origini e antropologia

2.2 Homelessness e il concetto socio-antropologico di disastro

Il seguente paragrafo fa ampio utilizzo delle teorizzazioni che il prof. Ligi avanza nel suo

Antropologia dei disastri (2009).

Innanzitutto: “un disastro diventa un disastro solo quando vengono coinvolti uomini o ambienti creati dagli uomini. Una valanga in una valle disabitata o un terremoto in Artide sono eventi geofisici, non sono disastri“ (Western K.A. in Ligi G. 2009 p.3). All’approccio tecnocentrico di disastro, che vede l’esclusiva (per quanto utile) misurazione statistica e scientifica del danno prodotto e dell’entità dell’evento catastrofico, si accompagna il concetto di disastro socio- antropologico. Nel primo caso, ad un agente di impatto fisico (terremoto, inondazione, incendio…) seguono misurabili danni a cose e/o persone. I loro costi sono stimati in vite umane, in feriti, in denaro. Questo è l’approccio generalmente più utilizzato dai media e il più semplice da razionalizzare. In esso non ci sono colpevoli nè attribuzioni di colpa. Il disastro, alla luce di questo approccio, risulta la conseguenza di un avvenimento imprevedibile, sincronico, che colpisce un numero variabile di persone innocenti. Questo schema di pensiero, a cui Ligi attribuisce l’espressione di “paradigma dell’ineluttabilità“ (Ligi G. 2009, p.89), si è però “dimostrato paurosamente insufficiente per comprendere, prevedere ed evitare un disastro“ (Ligi G. 2009, p.12). In esso manca completamente l’analisi di tutte quelle variabili antropologiche e naturali che hanno permesso all’evento impattante di produrre i suoi esiti. Proprio per sanare questa mancanza, diverse scuole di pensiero nel corso del XX secolo si sono impegnate nella creazione di un sistema utile ad analizzare più accuratamente tutti gli stadi del fenomeno disastro, e a sviluppare un modello adatto ad individuarne le cause antropologiche prima che naturali. I frutti di queste ricerche hanno portato alla nascita dell’approccio socio- antropologico. Tra le numerose definizioni che si sono alternate negli anni, in quella che reputo più esaustiva Oliver-Smith sostiene:

“Un disastro è un processo/evento che interessa la combinazione di agenti potenzialmente distruttivi derivanti da un ambiente tecnico o naturale e una comunità umana che si trova in una condizione di vulnerabilità socialmente o tecnologicamente prodotta. Si manifesta in termini di percepita distruzione dei dispositivi che assicurano il normale ottemperamento dei bisogni individuali e sociali di una comunità, necessari per la sopravvivenza fisica, per l’ordine sociale e il mantenimento del sistema dei significati“ (Oliver Smith A. in Ligi G. 2009, p. 43)

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Alla luce di questa definizione, il disastro assume quindi la forma di un diacronico evento fisico che produce danni di natura sociale, ancor più che materiale. Per usare le parole di Ligi, disastro antropologico è “il tipo e il grado di disgregazione sociale che segue l’impatto di un agente distruttivo su una comunità umana“ ( Ligi G. 2009, p.16). Il disastro infatti non ha solo come esito dei danni materiali, i suoi effetti vivono all’interno delle persone stesse, sottoforma di ricordo e di trauma. Il limitare il fenomeno solo alla statistica non restituisce pertanto la vera entità dell’impatto.

Come però sottolinea Oliver Smith, questa disgregazione sociale è il risultato non solo della presenza di un agente distruttivo, ma pure di tutte quelle “vulnerabilità socialmente e tecnologicamente“ prodotte che mettono a repentaglio la sopravvivenza di un gruppo umano. Queste vulnerabilità sono composte da tutte quelle azioni eseguite dall’uomo che, una volta moltiplicate all’entità dell’agente distruttivo, restituiscono la vera magnitudine del disastro. Esempio di queste vulnerabilità sono le azioni che hanno portato alla rimozione delle mangrovie del sud est asiatico e alla costruzione di alberghi affollati sulle coste di zone ad alto rischio di

Tsunami. Queste azioni umane hanno creato i prerequisiti alla catastrofe del maremoto del

2004, dove morirono più di 200.000 persone. Altro esempio potrebbe essere il costruire case prive di garanzie antisismiche in un’area caratterizzata dalla presenza di frequenti terremoti o, per fare un esempio storico remoto, l’erigere intere città ai piedi di un vulcano attivo. Al momento dell’azione dell‘agente fisico (terremoto o eruzione) la presenza di vittime risulta così direttamente proporzionata alle vulnerabilità che quel gruppo di persone ha posto in essere nel tempo. Da questo punto di vista, l’agente fisico è solo la scintilla in un’ambiente chiuso e infiammabile; un evento dannoso solo perché il contesto lo rende tale. La presenza dell’umanità e le sue pratiche formano tale contesto.

Richiamo il concetto socio-antropologico di disastro proprio perché il modus operandi fin qui descritto, comprendente dello studio di un agente fisico impattante e delle vulnerabilità umanamente prodotte, risulta quasi perfettamente sovrapponibile al processo che porta all’origine dell’homelessness. Proprio come un disastro è figlio anche di vulnerabilità antecedenti l’evento impattate, “going from housed to homeless is rarely a sudden or

unexpected event” (Hill R.P., Stemey M. 1990, p.311). Anche il fenomeno homelessness è frutto

di vulnerabilità che si affastellano nel tempo ed è figlio di azioni che portano all’amplificazione delle conseguenze di un avvenimento destabilizzante.

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Sono perfettamente conscio dell‘ardito parallelo che sto facendo. Infatti, il disastro fin qui descritto non è in nessun modo assimilabile al trauma legato all’homelessness in quanto il primo è scatenato da un evento fisico, il secondo invece da uno sociale. Quello su cui voglio porre enfasi è invece, a livello di metafora generica, la similitudine che accomuna la metodologia di studio e la struttura antropologica di questi due fenomeni, comprendenti entrambi di vulnerabilità preesistenti, di un evento scatenante e della presenza di vittime umane. Il chiamare in causa il testo di Ligi e l’intera antropologia dei disastri serve quindi solo ed esclusivamente da linea guida per approcciare il ruolo del trauma e dei suoi esiti così come sono studiati dall’antropologia sociale. In questo modo faccio omaggio al mio percorso di studi e al docente che più di tutti lo ha ispirato. Se tale associazione di idee (che voglio sottolineare essere solo metodologica) può essere ora reputata come valida, non posso che rimarcare ancora una volta come queste due fenomeni risultino effettivamente comparabili.

Dove, infatti, il concetto di disastro antropologico pone come causa scatenante del danno e della sofferenza un agente fisico come uno tsunami, nel caso dell’homelessness di Bucarest tale ruolo è ricoperto dall’esplosione delle crisi finanziarie proprie della transizione, dal licenziamento a causa del fallimento dell’azienda per la quale si lavorava, dalla chiusura degli orfanotrofi, dal presentarsi di un vecchio proprietario che reclama l’abitazione, e dal rifiuto dei tutori di continuare il supporto economico. In breve, l’homelessness trova origine nell’esplosione di nefasti avvenimenti di natura prevalentemente sociale i quali, proprio come segnalibri, dividono i capitoli delle biografie di chi li subisce. A queste cause di forza maggiore vanno moltiplicate tutte quelle vulnerabilità autoindotte, esiti di azioni individuali, che finiscono col decidere il grado d‘impatto degli agenti elencati in precedenza. Di conseguenza, l’essere tossicodipendenti o alcolizzati, il compiere scelte di vita discutibili, lo scialacquare denaro, l’assenza di una specializzazione professionale, il ricoprire impieghi lavorativi facilmente rimpiazzabili o l’essere sprovvisti di paracaduti sociali quali una famiglia o degli amici, possono essere precondizioni che fanno pendere l’ago della bilancia del trauma da una parte o dall’altra; da una parte c‘è una vita lavorativa tradizionale, dall’altra la vita sulla strada. Proprio per questo motivo mi sento legittimato a parlare di due fenomeni estremamente simili (disastro socio- antropologico e homelessness), in quanto sono entrambi frutto di un avvenimento spesso imprevedibile e di azioni personali e/o collettive che producono vulnerabilità. Alla luce di queste similitudini risulta pertanto possibile elaborare la definizione di Oliver Smith per renderla più vicina al contesto Homelessness:

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“L’homelessness è un processo/evento che interessa la combinazione di agenti potenzialmente distruttivi derivanti da un ambiente tecnico o sociale e un individuo umano che si trova in una condizione di vulnerabilità socialmente, tecnologicamente o autonomamente prodotta. Si manifesta in termini di percepita distruzione dei dispositivi che assicurano il normale ottemperamento dei bisogni individuali e sociali all’interno di una comunità, necessari per la sopravvivenza fisica, per l’ordine sociale e il mantenimento del proprio sistema dei significati“.

Di fatto, quando il disastro (fisico) colpisce, i suoi danni non si limitano all’abbattimento di case, alla distruzione di oggetti e alla morte di persone, ma il suo agire rappresenta per i sopravvissuti l’origine di inquantificabili danni emotivi, sociali e culturali. Per il fenomeno

homelessness vale la stessa cosa. Così come un disastro naturale finisce col distruggere le

certezze individuali e collettive di una comunità, anche l’homelessness fa terra bruciata del conosciuto. Così come il disastro altera o distrugge interamente i microcosmi delle sue vittime, portando alla morte o all’alterazione di quell’Heimat domestica e dell’insieme di azioni e consuetudini sensoriali che compongono l’Habitus di una persona, anche l’homelessness produce un qualcosa di simile; le sue conseguenze si chiamano displacement e crisi della presenza. Come ad un disastro naturale seguono dei processi di blaming e razionalizzazione, il senzatetto è protagonista di processi di coping utili ad interiorizzare l’avvenimento e ad approcciare con fare risolutivo la precarietà che caratterizza il suo nuovo quotidiano. L’homelessness, con le dovute proporzioni, finisce quindi con l’assumere i caratteri di un disastro antropologico in miniatura. Infatti, se le vittime di disastro naturale possono quasi sempre dirsi una collettività, nel caso dell’homelesness la vittima è spesso una sola. Il carattere singolare di questo avvenimento è di gran lunga la dinamica più peculiare e al contempo più opprimente di questo fenomeno. La solitudine dell’uomo senza dimora apre così le porte ad una sofferenza intima e a dei processi di adattamento sui generis, sempre diversi eppure tutti influenzati dall’assenza di un microcosmo (Magris 1997) caro e incorporato, prontamente sostituito da un‘opprimente “landscape of despair” (Smith G., Nicolson P. 2011, p.32).