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Homelessness: origini e antropologia

1.2 Ceauşescu e il regime (1965-1989)

Nato in una famiglia modesta, figlio di un semi-proletariato che caratterizzava una buona fetta della demografia nazionale del primo dopoguerra, Ceauşescu assunse la guida del partito dei lavoratori dopo anni di gavetta e impegno politico. Scalò i ranghi dell'organizzazione nazionale grazie alla sua incrollabile fiducia e fedeltà al modello social-economico comunista per cui, durante il dominio conservatore filofascista degli anni trenta e quaranta, venne più volte condannato a interi anni di prigionia. La sua abnegazione alla causa lo portò sempre più vicino a Dej e ai vertici del partito. Negli anni di questa vertiginosa scalata Ceauşescu ricoprì il ruolo di ministro degli affari interni, di capo del Securitate (organo di sicurezza e spionaggio del paese), di ministro delle forze armate e della giustizia, e la sua giovane età (appena quarantasettenne al momento della nomina del 1965) non era vista affatto come una limitazione, ma come una nuova forza da canalizzare verso la riuscita dei piani di Dej e dell'affermazione di un paese finalmente in pieno controllo del suo destino.

Al momento del suo primo segretariato, Ceauşescu ereditò una Romania in crescita demografica ed economica, un partito saldo e benvoluto, e delle politiche così ben avviate che un leader assennato non avrebbe esitato a seguire. Ceauşescu non era però dello stesso avviso. “Having reached a landmark where he was supposed to choose between the continuation of the

reforms- which would have led to a decrease in the party's role- and the restoration of traditional communist practices, Ceauşescu chose the latter in order to maintain control, and hid it under the colors of the national flag” (Popa C. in Pop I.A., Bolovan I. 2006, p.652). Pur

di rimanere fedele a delle obsolete idee di comunismo di stampo stalinista che Dej e anche la stessa URSS si erano ben guardati dal seguire pedissequamente, il neo-leader scelse il potere e il controllo ad un processo oramai ben avviato di arricchimento nazionale che lo avrebbe altrimenti visto ai margini. Al fine di attuare il suo progetto politico, Ceauşescu iniziò una sistematica operazione di allontanamento delle più alte e ingombranti figure del partito, partendo da Drâghici, suo avversario principale e fedelissimo alla linea politica di Dej. Nello stesso anno della sua elezione a primo ministro (1967), il dittatore mosse i primi decisi passi verso l'instaurazione di un regime di stampo comunista, iniziando con il cambiare il nome del

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paese: la Romania passò così dall'essere considerata ufficialmente una Repubblica Popolare al definirsi una Repubblica Socialista. Modificò inoltre la costituzione, riportandola ad uno stato molto simile a quello del secondo dopoguerra (che ricalcava quella russa del 1936), che nel frattempo il governo Dej aveva in più occasioni rielaborato, e pose le basi ideologiche all'affermarsi di una “moralità socialista” che il governo doveva impegnarsi a mantenere. Si compì così il primo passo nel legittimare le future repressioni della libertà di parola e azione da parte delle agenzie governative (su tutte il sempre più potente Securitate).

Ceauşescu scelse anche di seguire una linea politica che fino ad allora Dej aveva trascurato; quella della diplomazia estera. Al contrario della Romania precedente, orientata inizialmente a tenere stretti legami solo ed esclusivamente con l'URSS, la Romania di Ceauşescu fin dal 1967 si rese protagonista di contatti diplomatici e accordi economico-politici non solo con altre nazioni socialiste, ma pure con le potenze capitaliste Europee, su tutte la Francia. Scopo del

leader era quello di creare un'immagine internazionale che restituisse l'idea di una Romania

riformista e progressista, premiando in questo modo un “image-building excercise” (Popa C. in Pop I.A., Bolovan I. 2006, p.658) con la stima degli occidentali. Questa linea di condotta è un

fil rouge che lega tutti gli anni della dominazione di un dittatore assetato di successo.

“His consuming thirst for power and his exaggerated self-importance made him look for

applause and homage in huge national halls and stadiums and seek fame in the international political arena. In 24 years of power, he received more foreign personalities and delegations than any other party or state leader in the world. Similarly, he paid more officials visits abroad than any other post-war head of state” (Bulei I. 1997, p.145).

Di fatto, la politica di Ceauşescu aveva due facce: da un lato si mostrava progressista agli occhi di un occidente che aveva piacere nel vedere un paese di stampo comunista così aperto al dialogo e alle iniziative internazionali, dall'altro perseguiva un'idea politica interna obsoleta, solo inizialmente permissiva, caratterizzata da una sempre più rigida centralizzazione del potere e da un sempre più rilevante peso dell'industria nell'economia del paese.

Questa politica diede i suoi frutti. Il professarsi neutrale rispetto alle volontà e alle insurrezioni interne all'URSS, che trova esempio perfetto nell'essersi mantenuto a debita distanza dalla repressione della rivolta cecoslovacca del 1968 (contrariamente all'operato di Dej nella repressione ungherese), lo rese un leader ben visto in occidente e al contempo lontano dalle mire sovietiche, permettendo così l'attuazione delle sue politiche nazionali senza alcun tipo di interferenza straniera. La crescita dell'industria (44% del PIL nel 1950, 55,7% del PIL nel 1981,

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Bulei I. 1997, p. 146) e la fertilità agricola del paese sono frutto di questo clima politico. Conseguenza di ciò fu un decennio (1965-1974) di relativo benessere e surplus economico. Il considerevole impegno posto nel finanziare l'industria portò infatti l'intero settore secondario a crescere come mai prima di allora. La produzione industriale, spinta soprattutto dai settori chimico e metallurgico, nel 1982 quantificava ricavi 34 volte superiori a quelli del 1950, esito di una crescita annua del 9,6%. Queste cifre erano perfettamente in linea con quanto lo stesso Ceauşescu si era prefissato nel 1971 (Ceausescu N. 1973, p. 29). Questa vertiginosa crescita permise la creazione di numerosissimi posti di lavoro e lo sviluppo demografico e infrastrutturale di Bucarest, la quale divenne faro della società rumena anche dal punto di vista produttivo, prosciugando demograficamente in questo modo sia i villaggi circostanti che il rilievo della produzione agricola nazionale.

Ma è proprio in queste scelte economiche, solo inizialmente felici, che si possono intravedere i futuri problemi della nazione. Come sagacemente sottolinea Bulei:

“Everything was done arbitrarily, without observing the criteria for economic efficiency. […]

in the seventies and eighties, when all European countries were more or less timidly promoting reforms meant to bring them nearer the mechanisms of market economy, Romania was launching itself, with all its energy, in the opposite direction, even towards a new Stalinism, which gradually blocked the country's economic and socio-political gearings and pushed society into a serious and all-embracing crisis” (Bulei I. 1997, p.148).

L'arbitrarietà che Bulei sottolinea stare alla base delle scelte economico-politiche della nazione e causa principale della profonda crisi futura, è anche figlia di un progressivo allontanamento dai vertici governativi e di partito di tutti i tecnocrati e gli uomini di conoscenza che potevano consigliare il meglio per il paese, sostituiti, se e quando ciò avveniva, con delle marionette mosse dal leader. Quest'ultimo, dopo le visite alle repubbliche staliniste cinesi e nordcoreana del 1970, convinto dalle statistiche e dall'assenza di voci contrastanti, accelerò ulteriormente l'attuazione della propria linea politica, iniziando così un irreversibile processo di accentramento del potere che portò alla definita nascita di un regime che emulava in tutto e per tutto la rigidità politica della Russia totalitarista.

Il 1974, anno della sua elezione a Presidente della Repubblica, segna il vero e proprio inizio del regno del terrore di Ceauşescu. Detentore ora di ogni potere immaginabile (Ceauşescu era al contempo Presidente della Repubblica, primo ministro e segretario generale dell'unico partito del paese), il dittatore di Scorniceşti, munito di ogni strumento utile alla repressione dei

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dissidenti, degli occasionali ribelli e saldamente in controllo della politica del paese, divenne a tutti gli effetti l'unico autore della storia della Romania fino alla sua morte. Immagine perfetta della sua sete di potere e della sua coscienza di dittatore, è rappresentata dalla foto ufficiale che lo ha consacrato in qualità di presidente della Romania dove, in posa, “as a king would do, he

was holding a “presidential” scepter” (Popa C. in Pop I.A., Bolovan I. 2006, p.662). Dal 1974

fino al giorno della sua caduta e morte, la usa posizione non venne mai messa in discussione; il partito e il paese erano nel pieno controllo della famiglia dittatoriale. Nicolae e la moglie Elena erano diventati consorti reali di una Repubblica socialista.

Con il raggiungimento del consenso interno venne anche meno il bisogno di approfondire i legami con le potenze straniere. Sebbene Ceauşescu proseguisse ancora con insistenza la politica di contatto con le forze internazionali, le motivazioni che lo spingevano si limitavano ad uno strato alquanto superficiale, preferendo agli accordi ponderati dei semplici scambi diplomatici di convenevoli, utili non solo a mantenere una certa reputazione internazionale, ma anche ad arricchire la propria abitazione di Primaverii di ninnoli e doni dei leader mondiali in visita. Internamente, Ceauşescu continuava imperterrito nella sua politica di repressione e terrore, sguinzagliando il Securitate contro i cittadini e avversari politici potenzialmente pericolosi, e finanziando la crescita del settore industriale.

Ceauşescu sognava però un'autarchia tutto fuorché realizzabile. Lui stesso, già nel 1977, si rese conto che il mondo stava proseguendo verso l'instaurazione di un mercato economico internazionale, nella quale corsa la Romania stava accumulando un presto insormontabile ritardo. Per questo motivo il dittatore tentò di riorientare l'economia nazionale verso la produzione di beni destinati all'esportazione, subitamente ignorando i bisogni dei rumeni. Il risultato fu un deficit di produzione industriale nel mercato interno e una svalutazione dei vecchi Lei. I prodotti rumeni destinati all'export, di quasi esclusiva origine industriale, erano infatti di qualità troppo bassa per poter competere con i più avanzati prodotti dell'occidente. E come insegnano le più elementari nozioni economiche, conseguenza di ciò fu l'esplosione del debito rumeno. Se nel 1977 questo ammontava a 3.7 miliardi di dollari, nel 1981, appena 4 anni dopo, lo stesso crebbe fino ai 10,2. Il terremoto del 1977 e le inondazioni del 1980 e 1981 non fecero altro che intaccare ancor più duramente le finanze del paese.

Neppure gli impietosi numeri di questa crisi economica impedirono però al dittatore di continuare la realizzazione dei suoi piani politici e architettonici. Il centro cittadino post-sisma divenne quindi scenografia perfetta per la realizzazione di un lunghissimo Boulevard e di una

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nuova, mastodontica sede politica. Più grandi degli Champs-Élysées e più imponenti delle piramidi di Giza, queste nuove monumentalità dovevano impressionare gli stranieri e consegnare alla storia delle vestigia memorabili, i lasciti del regno di un grande dominatore. Ceauşescu, proprio come avrebbe fatto un antico e dispotico imperatore, cercò di ottenere l'immortalità attraverso l'architettura e la pietra, trascurando in questo modo il vero ruolo di un sovrano illuminato: fare il bene della sua popolazione. Per mettere in prospettiva il condannante peso delle volontà del dittatore, il solo progetto di re-invenzione del centro cittadino costò all'intero paese circa 1,5 miliardi di dollari (O'Neill B. 2009, p.96), un'irragionevole enormità se posta in relazione al PIL di allora (17 miliardi nel 1989). Il progetto di ricostruzione del centro cittadino è al giorno d'oggi un'enorme ferita sanguinante, living reminder dell'inquantificabile distanza che spesso separa la mentalità dei dominatori da quella dei dominati. Ancor oggi ai mosaici dorati del bagno coniugale e al giardino d'inverno dell'abitazione del dittatore, si contrappongono alloggi sovraffollati e fatiscenti in gran parte della città. Ancor oggi ai lampadari da centinaia di tonnellate, alle tende dai fili d'oro e d'argento e ai tappeti cuciti in loco del palazzo del parlamento, fanno da contraltare i quartieri poveri di

Ferentari, dove i bambini crescono poco a causa della malnutrizione e dove l'unico lusso è

rappresentato dall'avere una televisione a colori. Se le distanze appaiono ancora così marcate nel 2018, all'apice dell'utopistico regime le cose non potevano che essere ben peggiori.

Conseguenze delle azioni di un leader auto-esclusosi dalla realtà furono gli inevitabili malcontenti che con sempre più audacia si presentarono lungo tutti gli anni '80. A questi Ceauşescu rispose con la sola moneta di cui disponeva: la repressione. La famiglia “reale”, esponente oramai di un “dynastic socialism” (Bulei I.1997, p.149) espulse così ogni dissidente accertato o anche solo sospettato, e piegò con la forza ogni manifestazione contraria alla sua volontà. Il Securitate incrementò i già invadenti controlli e tutte le figure di rilievo rimaste nel paese furono costrette ad abitare i nuovi monumenti socialisti eretti presso la nuova Casa del Popolo, in modo da essere meglio osservati dall'occhio vigile del “grande fratello” di regime. La ferrea volontà di Ceauşescu di ripagare in un decennio tutto il debito accumulato dal 1977, attuando in questo modo delle politiche volte al risparmio, fu però l'ultima azione politica priva di gravi ripercussioni. Le misere condizioni di vita della popolazione, costretta alla penuria di cibo, di prodotti, di servizi, di denaro e peggiorate al punto da rendere le infinite code per l'acquisto del pane un'occupazione tanto abituale da riempire la maggioranza delle ore extra lavorative, richiedevano una presa di posizione netta e inequivocabile da parte del governo. Ma

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al quattordicesimo congresso dell'unico partito del paese, dal quale i rumeni tutti si aspettavano l'inizio di riforme politiche ed economiche per fronteggiare la crescente miseria quotidiana, Ceauşescu “only repeated his old theses on the independence policy and on the need to continue

with industralization” (Popa C. in Pop I.A., Bolovan I. 2006, p.673), condannando di fatto una

nazione molto paziente al definitivo passo; quello dell’aperta ribellione. Il 21 dicembre 1989 a Timişoara scoppiarono i primi tafferugli tra ribelli e polizia. Pochi giorni dopo Bucarest venne invasa da una folla di rivoluzionari che costrinsero Ceauşescu prima alla repressione armata, poi alla fuga in elicottero. Atterrato a 150 km dalla capitale venne raggiunto dai ribelli, consegnato ai militari e, dopo un sommario processo, giustiziato sul posto. Il 25 dicembre 1989 finiva l'era di un dittatore e si apriva per la Romania un'altra pagina difficile: quella di una crisi economica forse mai superata.