Homelessness: origini e antropologia
1.3 La transizione e l'Europa (1990-2007)
Con la morte di Ceauşescu e la fine del regime totalitario di stampo comunista, la salita al potere degli schieramenti politici fino ad allora schiacciati dal gioco censorio del partito socialista lasciava presagire un taglio netto col passato recente e un miglioramento della politica del paese. Al contrario però di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Germania dell'est, la Romania post-regime non si lanciò subito in un percorso politico nuovo, a cui preferì invece una condotta governativa moderatamente liberista.
Nell'inedito sistema multipartitico degli anni '90 fu la figura di Ion Iliescu a prevalere. Più volte presidente della Repubblica, leader del Fronte di Salvezza Nazionale che salì al potere dopo la caduta del dittatore, e iniziatore della democratizzazione del paese, Iliescu era l'esponente di punta perfetto per una transizione moderata. Il leader non era infatti un homo novus della politica nazionale, né un accanito avversario del regime precedente ma, come ci si potrebbe aspettare, un'appartenente di lunga data del partito dei lavoratori guidato dal vecchio dittatore. Sebbene fosse stato progressivamente allontanato dai vertici del partito durante gli anni del regime, Iliescu era ugualmente seguace di quella stessa ideologia che si trovava alla base delle azioni politiche di Ceauşescu, responsabili principali della difficile situazione del paese. Ciononostante, grazie al suo carisma e alle sue grandi doti di oratore, Iliescu “managed to
dominate Romanian political life from the very beginning, presenting himself as both partecipant and referee” (Popa C. in Pop I.A., Bolovan I. 2006, p.681). Riunì attorno a lui tutti
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I primi governi Iliescu-Roman non furono pertanto degli esecutivi nuovi e decisi a chiudere una pagina di storia una volta per tutte, ma una moderata forza mediatrice tra un passato mai troppo contestato e un futuro a tinte socialiste dai contorni anacronistici. Questi governi, racchiusi con qualche alternanza negli anni 1992-2004, furono esponenti di una democrazia sui generis, dove un'obsoleta nomenklatura, spesso mascherando i suoi vecchi ideali sotto una patina di europeismo, limitando gli investimenti esteri nell'economia nazionale, inaugurando una serie di politiche improvvisate e di breve periodo e perseverando in un cocciuto accentramento di ricchezze utile a mantenere in vita un sistema clientelare, “created a favorable context for the
destruction of the national wealth and the propagation of corruption” (Popa C. in Pop I.A.,
Bolovan I. 2006, p. 682). Eppure, a queste azioni conservative si affiancarono ugualmente alcune virate europeiste, non tanto figlie di volontà governative nazionali quanto di pressioni esterne oramai impossibili da ignorare.
Dalla caduta del regime la Romania, perduto l'appoggio del blocco sovietico e reduce da un isolazionismo reiterato e nefasto, si trovava infatti in una situazione in cui il progressivo avvicinarsi agli organi economici e politici europei rappresentava l'unica soluzione alle difficoltà di un paese in piena crisi economica e di identità. Tale avvicinamento avvenne però quanto più lentamente possibile. Solo nel 1993 iniziarono i primi e inevitabili accordi con gli organi politici europei, orientati a preparare il campo alle riforme strutturali utili alla Romania per fare prima ingresso nel mercato dell'Unione e poi nell'Unione Europea stessa. A tal fine dovette migliorare il proprio sistema giuridico e gli interventi volti a proteggere i diritti umani, inaugurando così un periodo di avvicinamento agli standard delle democrazie più occidentali. Si trovò inoltre costretta a riallacciare i rapporti con le nazioni dell'est Europa appena liberatesi dal giogo dell'URSS (Ungheria su tutte), cosa che produsse più di qualche attrito internazionale. Esito di un percorso che la vedeva oramai troppo coinvolta per fare anche solo un passo indietro, nel 1995 la Romania fece ufficialmente richiesta per fare ingresso nell'UE.
Ma se sul fronte delle politiche internazionali il paese sembrava ben avviato a risolvere il suo atavico isolazionismo, internamente gli anni '90 videro un susseguirsi di governi di così breve termine da impedire la creazione e il mantenimento di una linea politica coerente, lasciando così campo aperto ad un immobilismo utile solo ai più attendisti. La Romania degli anni '90 continuava infatti a crescere poco. L'assenza di investimenti esteri dovuta alla corruzione e ai costi elevati della burocrazia, il testardo investire su un'obsoleta industria pubblica, la corsa al liberarsi dei pesanti apparati statali ricorrendo ad una scriteriata privatizzazione e l'onnipresente
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problema del clientelismo trattenevano il paese verso il basso. Agli inizi del XXI secolo, la Romania si trovava pertanto in una situazione ancora molto complicata dal punto di vista economico, e la salita vertiginosa nei sondaggi dell'estrema destra guidata da Tudor, figlia dello scontento nazionale, costrinse i vertici del paese ad accelerare il processo di assimilazione dei precetti economici e politici occidentali. Una serie di politiche economiche varate col benestare dell'UE, unite all'ascesa nello scacchiere politico nazionale di Traian Bâsescu (esponente di lunga data della frangia più democratica della sinistra e presidente della Repubblica dal 2004 al 2014), permisero così alla Romania di concludere il processo di ammodernamento iniziato nei primi anni '90, sancito dall'ingresso nella NATO prima (2004) e nell'Unione Europea poi (2007).
A rappresentare la fine del complicato periodo post-comunista fu inoltre la definitiva denuncia dell'antidemocratico regime di Ceauşescu, fino ad allora al centro di una “istitutionalized
forgetfullness” (Tismaneanu V. 2008, p.171) da parte dei governi precedenti. Nel dicembre del
2006, attraverso le parole dello stesso Bâsescu (vedi Tismaneanu V. 2008, pp. 174-175), la Romania annunciava al mondo di riconoscere e condannare le azioni e le politiche di un totalitarismo tanto violento quanto opprimente, promettendosi di lottare contro i possibili segnali di un suo ritorno e di accettarlo in quanto fase storica di un paese che, per la prima volta in un decennio, si mostrava finalmente pronto a costruire un futuro basato su una sana coscienza nazionale.
Come mostrano gli avvenimenti politici della transizione, i veri protagonisti del processo di omologazione della Romania alle dinamiche di mercato unificato e di democratizzazione sono state, senza ombra di dubbio, proprio le potenze industriali europee. L'adozione di uno stile di vita occidentale e l'assunzione del modello capitalista ha però generato un’ondata di povertà inedita, esacerbata a sua volta dalle difficili condizioni in cui riversava la Romania post- dittatura. La corsa alla liberalizzazione e alla privatizzazione ha dato infatti vita ad un incremento della disuguaglianza e delle pratiche di esclusione, aprendo così le porte del paese ad un nuovo fenomeno marginale; quello dei senzatetto. Indipendentemente dalle volontà dell'UE e dei loro piani, la transizione in Romania ha lasciato dietro di sé una serie di sconfitti e di vincitori, i secondi meno numerosi dei primi, i quali compartecipano a tracciare i contorni di un paese tuttora fortemente lacerato dalle differenze sociali.
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