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Alloggio pubblico, dibattito sulla costituzionalità e sulle discriminazioni

Nel documento ALMA MATER STUDIORUM (pagine 74-79)

PARTE I – Inquadramento della questione

I.3 QUADRO NORMATIVO E POLITICHE ABITATIVE

I.3.5 Il contesto italiano

I.3.5.2 Alloggio pubblico, dibattito sulla costituzionalità e sulle discriminazioni

Per quanto riguarda gli alloggi pubblici, la possibilità degli stranieri ad accedervi è stata presto ridotta dagli interventi del legislatore, per cui l'accesso reale ha presentato fin da subito numeri molto contenuti. Il fatto che a partire dagli anni '90 non fosse stato incluso nei progetti di politiche a lungo termine un impegno concreto per quanto riguardava l'urbanistica e l'accesso alla casa, ha fatto sì che l'edilizia residenziale pubblica ne subisse le conseguenze. Da modello da seguirsi nella gestione della questione sulla casa, che in passato aveva riguardato e coinvolto larghe fasce della popolazione italiana, l'edilizia residenziale pubblica era stata allargata anche agli immigrati, attraverso la normativa nazionale. In concreto, a questo riconoscimento formale non ha mai fatto seguito un accesso concreto. Le difficoltà principali riscontrate dalla fascia di popolazione immigrata nell'accedere agli alloggi di Erp sono: scarsità dell'offerta (fattore che peraltro li pone in posizione abbastanza paritaria con i cittadini autoctoni); mancanza di requisiti necessari per inoltrare la domanda (carta e/o permesso di soggiorno, residenza nel comune che emette il bando – dove richiesto, da un certo periodo di tempo, contratto di lavoro – spesso mancante perché assunto “in nero”); mancanza di formazione sul territorio; scarso accesso all'informazione e difficoltà di rapporto con la burocrazia; difficoltà di dimostrare alcuni requisiti che attribuiscono punti in graduatoria (ad esempio: coabitazione, sovraffollamento, inabitabilità dell'alloggio, sfratto). Quale che sia la ragione, le domande degli immigrati ottengono in generale bassi punteggi nelle graduatorie di assegnazione. Con riferimento allo studio di Somma, gli alloggi Erp assegnati agli immigrati sono meno del 10%.

In relazione alla normativa che regola l'accesso agli alloggi di Erp, in particolare riguardo alle normative regionali e alle delibere locali successive all'approvazione della legge 189/02, è sorto un dibattito documentato da una scheda dell'Asgi sulla possibile natura discriminatoria di tali procedimenti. La questione su cui è stata posta attenzione è l'introduzione dei requisiti di anzianità di soggiorno sul territorio (stabilito dall'ente istituzionale) per l'accesso agli alloggi, considerati miranti a posporre nelle graduatorie le persone di nazionalità straniera, facendo appunto leva sul radicamento territoriale piuttosto che sul “semplice” possesso della cittadinanza. La critica mossa è che l'obiettivo sia quello di aggirare il principio di parità di trattamento

con i cittadini nazionali sancito dalle norme di diritto pattizio internazionale e dal diritto comunitario. Stando a quest'ultimo, il principio di parità di trattamento sanziona non solo le discriminazioni “dirette”, quando un individuo protetto dal diritto comunitario è trattato meno favorevolmente di un altro a causa della sua condizione di straniero, ma anche le discriminazioni “indirette”, quando cioè una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono invece mettere le persone straniere, protette dalle norme comunitarie, in una posizione di svantaggio rispetto ai cittadini autoctoni. Tale nozione di discriminazione indiretta, come affermato dagli autori del rapporto, è ricavabile da due direttive comunitarie anti-discriminazione (direttiva n. 2000/43/C.E. e direttiva n. 2000/78/C.E.) e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia. Nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea è affermato il principio secondo cui il criterio della residenza può fondare una discriminazione indiretta o dissimulata vietata dall'ordinamento europeo, composto da norme del Trattato Europeo, da direttive anti-discriminazione, dalla Convenzione europea sui diritti dell'uomo e libertà fondamentali.

Non è quindi apparsa remota la possibilità che alcune normative regionali vincolanti l'accesso agli alloggi di Erp ad un requisito di residenza, o svolgimento di attività lavorativa a livello locale per un periodo pluriennale, possano incorrere nella censura da parte della Corte di giustizia europea. Un esempio che può essere riportato è quello della legge regionale n.7 della Regione Lombardia, emanata l'8 febbraio 2005, la quale prevede che per la presentazione della domanda per l'assegnazione di alloggi di Erp «i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda». La Corte Costituzionale italiana è stata chiamata a pronunciarsi sui rilievi di incostituzionalità della legge regionale, accusata di violare l'art. 3, comma 2 della Costituzione italiana ,secondo cui «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La Corte si è però mostrata restia a cogliere i profili di discriminazione indiretta o dissimulata. Con l'ordinanza n. 32 del 21 febbraio 2008,

infatti, la Corte ha ritenuto manifestatamente infondata la lamentata violazione dell'art. 3 della Costituzione: «Il requisito di residenza continuativa di cinque anni nel territorio regionale, ai fini dell'assegnazione degli alloggi pubblici, non è apparso irragionevoli alla Corte, ponendosi a suo avviso in coerenza con le finalità che il legislatore intendeva perseguire, realizzando un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco». Per giustificare la decisione la Corte richiama la sua precedente giurisprudenza, secondo la quale il requisito della residenza continuativa nella tal situazione non risulta irragionevole (Corte Costituzionale, sentenza n. 432/2005), poiché si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire (Corte Costituzionale, sentenza n. 493/90), soprattutto se tali finalità realizzano un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (Corte Costituzionale, ordinanza n. 393/07).

La legge 431/98, all'articolo 9, istituisce il Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione, costituito allora presso il Ministero dei Lavori Pubblici (attualmente accorpato al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) e le cui disponibilità sono definite annualmente dalla legge finanziaria. La finalità del Fondo è di essere ripartito tra i comuni, con l'obbiettivo di permettere a quest'ultimi di emanare appositi bandi per la concessione di prestazioni sociali, a titolo di contributi integrativi, per il pagamento del canone di locazione da parte dei conduttori di alloggi. Per poter accedere a tali contributi, le condizioni da rispettare sono: la registrazione del contratto di locazione e il possesso di requisiti minimi di reddito annuo imponibile del nucleo familiare del richiedente. La graduatoria da parte dei comuni viene inoltre stilata sulla base della valutazione della situazione economica e patrimoniale del nucleo familiare attestata dalla certificazione della situazione economica equivalente (Isee), di cui al d. lgs. 31/3/1998 n. 109.

A tali prestazioni sociali per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione hanno avuto accesso anche i cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti, purché in possesso dei requisiti fissati dall'art. 40, comma 6 del Testo Unico delle leggi sull'immigrazione (inizialmente essere titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo; dopo la riforma prevista dalla legge 189/02 essere titolari di permesso di soggiorno di durata almeno biennale ed esercitare attività lavorativa).

Con il decreto legislativo 112/08, erano state successivamente introdotte delle misure economico-finanziare di stabilizzazione che andavano a regolare l'entità del Fondo; decreto che, però, è stato convertito, con modificazioni, dall'art. 11, comma 13 della legge 133/08, il quale prevede ora una vera e propria discriminazione diretta: dispone infatti che ai fini dell'accesso ai finanziamenti del Fondo venga previsto per i soli stranieri extracomunitari il requisito del possesso del certificato di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale, ovvero da almeno cinque nella medesima regione. Tale discriminazione, con l'introduzione di un requisito di anzianità di residenza che è richiesto ai soli cittadini extracomunitari, appare palesemente in contrasto con il principio di parità di trattamento in materia di accesso all'alloggio, di cui alle normative internazionali ed europee già richiamate; appare inoltre in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza richiamati anche dalla giurisprudenza costituzionale. «Trattandosi di una prestazione di natura sociale o assistenziale avente natura di diritto soggettivo, la sua erogazione non soggiacente ad una valutazione individualizzata e discrezionale da parte dei comuni, l'introduzione della residenza di lunga durata quale criterio difforme di trattamento valevole solo per i cittadini di paesi terzi non appartenenti all'Unione Europea, crea una palese violazione del principio di diritto comunitario di parità di trattamento in materia di prestazioni di assistenza sociale con riferimento a tutte quelle situazioni e categorie “protette” dal medesimo» (Citti e Bonetti, 2009:9).

La normativa sull'accesso degli immigrati extracomunitari al Fondo per il sostegno alle locazioni appare inoltre di dubbia legittimità costituzionale anche in relazione ai principi di uguaglianza e ragionevolezza. La Corte Costituzionale ha stabilito che un requisito di stabile residenza può essere richiesto anche ai cittadini stranieri per godere dei diritti sociali, ma solo con la finalità di dimostrare l'esistenza di un collegamento significativo con la comunità nazionale. Quindi, sulla base dell'orientamento della Corte, il requisito del legame stabile e significativo dello straniero con la comunità nazionale potrebbe già ritenersi soddisfatto dal possesso di uno dei permessi di soggiorno che ne assicurano il carattere di “multifunzionalità”, di cui all'art. 6, comma 5 del T.U. in materia di immigrazione, eventualmente associato ad un ragionevole periodo minimo di permanenza sul territorio. Tanto più, tale criterio non

era messo in discussione nel momento in cui il legislatore con l'art. 40, comma 6 del T.U. aveva inasprito i requisiti per l'accesso dello straniero alle misure volte a realizzare il diritto all'abitazione, con la previsione del possesso della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno C.E. per soggiornanti di lungo periodo) o del permesso di soggiorno di durata almeno biennale (collegato generalmente a rapporti di lavoro a tempo indeterminato) e il congiunto esercizio dell'attività lavorativa. Requisiti che già di per sé comprovano abbondantemente il legame stabile dello straniero con la comunità nazionale.

La richiesta agli immigrati stranieri dell'ulteriore requisito della residenza storica decennale sul territorio nazionale (quinquennale per quanto riguarda il territorio regionale) non è volta a evitare che tali prestazioni sociali siano assegnate a persone senza un sufficiente legame con il territorio, ma costituisce una misura palesemente discriminatoria che ignora la logica stessa dell'intervento assistenziale, quella cioè di agevolare l'integrazione sociale e l'accesso all'abitazione a condizioni inferiori a quelle di mercato alle categorie sociali meno abbienti e più bisognose.

L'art. 11 del d.lgs. 112/08, modificato dalla legge 133/08, prevede siano garantiti su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana. Con questa finalità, è approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri un Piano nazionale di edilizia abitativa, che promuova interventi in materia di «incremento del patrimonio di edilizia residenziale pubblica […], promozione finanziaria di interventi con la partecipazione di privati tramite lo strumento del project financing, agevolazioni in favore di cooperative edilizie costituite tra i soggetti destinatari degli interventi del Piano, promozione di programmi integrati di edilizia residenziale anche sociale» (www.legislazionetecnica.it). Nell'individuare le categorie che hanno diritto di fruire delle abitazioni in questione, la norma indica – accanto ai nuclei familiari a basso reddito, le giovani coppie a basso reddito, gli anziani in condizioni svantaggiate, gli studenti fuori sede e i soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio – anche gli immigrati regolari a basso reddito, residenti da almeno dieci anni nel territorio nazionale o da cinque in quello regionale.

anzianità di soggiorno come “azione positiva” per favorire l'integrazione sociale dei medesimi, consentendo comunque agli immigrati regolari di concorrere, a parità di condizioni coi cittadini italiani, anche ai benefici previsti per le altre categorie, la disposizione può essere considerata apprezzabile. Sarebbe invece un'interpretazione discriminatoria (perché violerebbe la parità di trattamento e di non discriminazione prevista dalle citate norme di diritto internazionale e comunitario, e i principi costituzionali circa il diritto all'abitazione ed il principio di ragionevolezza) quella che ritenga che l'indicazione da parte della norma legislativa delle varie categorie dei beneficiari si debba intendere come rivolte ai soli cittadini italiani: la disposizione verrebbe a stabilire direttamente una differenziazione nell'accesso a queste abitazioni nei confronti di chi non è in possesso della cittadinanza italiana.

Nel documento ALMA MATER STUDIORUM (pagine 74-79)