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Almeno 2 per tutte le tipologie di società.

Per le società appartenenti all’indice FTSE-Mib, per le quali

è previsto che almeno un terzo dei consiglieri

sia indipendente

Dualistico Almeno 1 se CDG>4;

Monistico Almeno 1/3 dei

consiglieri.

Soglie richieste di AI nelle società quotate secondo la fonte primaria (T.U.F.) e secondaria (Codice di Autodisciplina).

Qualunque sia la nozione applicabile al singolo caso di specie, la valutazione viene effettuata dal Consiglio di Amministrazione della società – sia che si tratti di applicare la disciplina prevista dalla legge e dunque di vagliare l’insussistenza di determinati legami di tipo parentale o rapporti di lavoro o di consulenza; sia che si tratti di valutare se un determinato rapporto di natura patrimoniale comprometta l’autonomia di giudizio, vagliando dunque nel merito la portata di un simile

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legame ai fini della sussistenza del requisito di indipendenza ed applicando maggiore discrezionalità nel giudizio. La valutazione della sussistenza del requisito di indipendenza viene effettuata sulla base di informazioni rese, per lo più, dallo stesso interessato. Tale meccanismo ha suscitato qualche perplessità in dottrina (e come vedremo nei prossimi capitoli anche al di fuori del nostro paese), perché si è definito il sistema come autoreferenziale (Dinicolantonio, 2011). In conclusione su questo punto: per quanto sia innegabile la difficoltà di ricostruire una definizione standard di indipendenza, è altrettanto innegabile come l’assenza di una nozione univoca impedisca e renda inutile lo sforzo di ricostruzione in chiave sistematica della figura dell’Amministratore Indipendente, della sua funzione, dei compiti che gli vengono demandati, nonché del regime di responsabilità. Stando al panorama normativo visto fin qui, dunque, l’interprete dovrà cercare volta per volta la nozione di indipendenza applicabile al caso di specie a seconda del tipo di sistema di amministrazione adottato dalla società e a seconda dell’adozione, o meno, del Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana. La scelta del legislatore italiano è stata quella di mantenere diverse nozioni di indipendenza all’interno del sistema. Il problema non risiede tanto nella pluralità di nozioni di indipendenza per cui l’interprete ne prenderà atto e andrà a cercare volta per volta, come detto poco sopra, le regole applicabili al singolo caso di specie – quanto nella coerenza sottesa a tale scelta. Esaminando le varie nozioni di indipendenza, infatti, non pare possibile affermare che la distinzione operata dal legislatore sia funzionale e connaturata alla natura dell’impresa, piuttosto che ai compiti affidati agli Amministratori Indipendenti nelle varie tipologie di società; la distinzione segue, prevalentemente, il sistema di governo societario adottato, ma non si preoccupa di differenziare i requisiti rispetto all’attività svolta e alla necessità di tutelare – proprio in funzione dell’attività svolta dall’impresa – determinati interessi pubblicistici (ad esempio le imprese che svolgono attività riservata). In conclusione su questo punto: non si comprende la ratio sottesa alla scelta del legislatore di mantenere diverse nozioni di indipendenza a seconda del sistema di governance adottato e, quanto alle società quotate, dell’applicazione o meno del Codice di Autodisciplina (Della Vedova, 2011).

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Le critiche mosse alla figura degli Amministratori Indipendenti. Non assimilabilità dell’esperienza italiana con quelle straniere.

La critica più diffusa è quella di aver importato nel sistema italiano una categoria di Amministratori che è nata e si è sviluppata in ordinamenti completamente diversi dal nostro, caratterizzati da una polverizzazione dell’azionariato che, allo stesso tempo, giustificava l’introduzione di tale figura di consigliere e ne individuava con esattezza il ruolo - ossia di controllore sull’operato del management, per evitare che questo si allontanasse dagli interessi degli azionisti attraverso atti gestori finalizzati alla massimizzazione del proprio profitto personale e non di quello sociale -, attribuendogli poteri assai penetranti, quale quello di c.d hiring and firing. Nel nostro ordinamento, per contro, i soci di controllo già monitorano a sufficienza l’operato del management, risultando piuttosto sforniti di tutela gli azionisti di minoranza rispetto alla tirannia del gruppo di controllo. Il che avrebbe dovuto portare, secondo vari studiosi, ad una diversa configurazione dell’istituto degli Amministratori Indipendenti. È innegabile che nel nostro ordinamento l’introduzione della figura dell’Amministratore Indipendente avrebbe dovuto essere accompagnata da adeguati correttivi rispetto al modello anglosassone; così come è innegabile che la nomina dell’Amministratore proveniente dalla maggioranza assembleare – e, dunque, dal socio di controllo che la governa, se non di diritto, quanto meno di fatto – mini la qualifica d’indipendenza e possa tradursi, nei fatti, in una sorta di sudditanza degli Amministratori Indipendenti nei confronti di quelli esecutivi, come sostenuto da alcuni autori.

In dottrina è stato attentamente osservato come la nomina assembleare sia, in verità, un passaggio formale, preceduto, nella realtà dei fatti, da contatti, da una sorta di negoziato parallelo alla mera accettazione della nomina da parte dell’Amministratore Indipendente. Tale accordo tra l’Amministratore designando e i soci che controllano la società può minare l’indipendenza sostanziale della persona; ma tale aspetto non sembra essere stato preso in considerazione dal legislatore. I problemi relativi alla nomina degli Amministratori Indipendenti non

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sono gli unici che, secondo la dottrina, anche straniera, affliggono questa tipologia di Amministratori. Alcuni autori hanno osservato come, nei sistemi caratterizzati per la presenza di società a proprietà concentrata, gli Amministratori Indipendenti non abbiano gli strumenti adeguati per operare efficacemente il controllo loro demandato; e come, inoltre, il ruolo degli stessi non sia compiutamente definito, specialmente per quanto riguarda la soluzione dei problemi legati alla tirannia della maggioranza rispetto ai soci di minoranza.

È stato osservato come nelle società caratterizzate dalla polverizzazione del capitale sociale il ruolo di controllo demandato agli Amministratori Indipendenti (che svolgono le funzioni del cd. monitoring Board) sia garantito dal potere di selezionare l’Amministratore delegato. In un simile contesto, gli Amministratori Indipendenti, agendo dall’interno del Consiglio di Amministrazione, evitano (o meglio, dovrebbero evitare) che il Consiglio di Amministrazione sia messo sotto scacco dai managers. Ciò significa che l’indipendenza del Consiglio di Amministrazione funge da sostituta della regolamentazione (da parte del legislatore, piuttosto che delle Autorità di Vigilanza) nella riduzione dei cosi di agenzia nel rapporto tra gli azionisti e i managers stessi, evitando così al legislatore di dover ingerire troppo negli affari sociali (GUTIERREZ, SAEZ; 2013).

Quanto appena osservato, però, non vale per le società a proprietà concentrata, perché i managers possono essere rimossi in qualsiasi momento proprio dal socio di maggioranza che li ha designati. Di conseguenza, gli Amministratori Indipendenti non devono – in questo tipo di società – monitorare l’operato dei managers, in quanto ciò è appannaggio degli azionisti che controllano la società, i quali non necessitano di un ulteriore controllore (l’Amministratore Indipendente, appunto). Essi dovrebbero, piuttosto, monitorare i conflitti di interesse in capo ai soci che controllano la società per prevenire il rischio di espropriazione ai danni della minoranza. Il problema di una simile ricostruzione della funzione degli indipendenti risiede nel fatto che essi sono visti, tradizionalmente, come coloro che sono deputati a proteggere gli azionisti dalla tirannia dei managers, non da quella degli altri azionisti. Da qui la conclusione in dottrina che nei sistemi continentali gli Amministratori Indipendenti siano utilizzati per gli scopi sbagliati

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e che i legislatori debbano anzitutto intervenire a livello normativo per definire chiaramente il ruolo di questi, attribuendo loro il compito di proteggere la minoranza e gli specifici poteri esercitabili nell’esercizio di tale funzione

(GUTIERREZ, SAEZ; 2013).

Concludendo possiamo affermare che le critiche mosse dalla dottrina straniera alla figura degli Amministratori Indipendenti sono in parte condivisibili e che non si possano assimilare le esperienze straniere a quella italiana. Affermare che gli Amministratori Indipendenti abbiano fallito nel ruolo di prevenzione degli abusi da parte del management e, quindi, non costituiscano quella best practice di Corporate Governance tanto sponsorizzata negli anni passati. Gli scandali finanziari hanno dimostrato l’inefficienza di un Consiglio di Amministrazione composto per la maggioranza da indipendenti perché questi non si sono accorti di quanto stava accadendo e non hanno sostituito il management prima che fosse troppo tardi. Questa conclusione, però, non può essere applicata all’esperienza italiana, perché nel nostro ordinamento gli Amministratori Indipendenti non sono titolari di alcun potere specifico, attribuito solo ad essi ed ulteriore rispetto ai poteri che competono a tutti gli Amministratori non esecutivi.

La netta differenza tra i poteri attribuiti agli Amministratori Indipendenti nei diversi sistemi giuridici impedisce di trarre le medesime conclusioni quanto alle inefficienze nella loro disciplina piuttosto che al fallimento del ruolo loro demandato. Non sarebbe corretto decretare il fallimento della figura dell’Amministratore Indipendente nel nostro sistema, perché non è mai stata messa alla prova concretamente la potenzialità dell’istituto. A mio avviso gli Amministratori Indipendenti non hanno fallito anche nel nostro sistema; ma ha fallito piuttosto, il legislatore, perché non ha colto che la carenza di una disciplina ad hoc – e l’impossibilità di ricostruire il ruolo di questa categoria di Amministratori mutuandolo dalle esperienze straniere nelle quali essa è nata e si è sviluppata - ha comportato la conseguenza che gli indipendenti non sono mai stati messi nella condizione di poter operare efficacemente per apportare un valore aggiunto all’interno dell’organo amministrativo.

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