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Il ruolo degli Amministratori Indipendenti sulle performance aziendali. Aspetti teorici e rilevanze empiriche.

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Banca, Finanza

Aziendale e Mercati Finanziari

Il ruolo degli Amministratori Indipendenti sulle

performance aziendali.

Aspetti teorici e rilevanze empiriche

Candidato: Rodinò Giuseppe Relatore: Prof.ssa Giovanna Mariani

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Sommario

Il ruolo degli Amministratori Indipendenti sulle performance aziendali. Aspetti teorici e rilevanze empiriche.

Corporate Governance ... 1

L’origine della figura dell’Amministratore Indipendente e la sua evoluzione ... 6

Introduzione degli Amministratori Indipendenti in Europa ... 10

L’indipendenza nel Codice Civile e nel T.U.F. ... 15

La definizione di indipendenza contenuta nel Codice di Autodisciplina ... 18

La figura del Lead Independent Director ... 28

Osservazioni di chiusura sulle diverse nozioni di indipendenza presenti nel nostro ordinamento. ... 31

Le critiche mosse alla figura degli Amministratori Indipendenti. Non assimilabilità dell’esperienza italiana con quelle straniere. ... 36

Gli ID in Italia: i dati sulla situazione attuale ... 39

Dimensione Consiglio di Amministrazione ... 39

Composizione del CdA: la presenza degli ID ... 41

Remunerazione degli Amministratori Indipendenti ... 46

Adesione delle società quotate al Codice di Autodisciplina ... 52

Lead Independet Director ... 54

Risultati e considerazioni sulla figura dell’ID nel mondo attraverso l’analisi dei papers ... 61

L’analisi empirica in Italia: le possibili relazioni tra Amministratori Indipendenti e le Performance Aziendali ... 77

Rassegna della letteratura empirica in Italia ... 77

Un’analisi empirica: AI e Performance Aziendali ... 80

Risultati raggiunti dallo studio. ... 83

Conclusioni ... 89

BIBLIOGRAFIA ... 95

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Corporate Governance

Con il termine Corporate Governance (governo d’impresa) si fa riferimento all’insieme di norme, metodologie, modelli e sistemi di pianificazione, gestione e controllo necessari al funzionamento degli organi di una società; più precisamente si intende l’insieme dei rapporti tra i manager di una società, il suo Consiglio d’Amministrazione e i suoi azionisti. La Corporate Governance individua infatti il governo d’impresa quale attività di vertice sviluppata da specifici organi con funzioni in primo luogo amministrative e di controllo (Consiglio di Amministrazione, Consiglio di gestione, Amministratore unico, Collegio sindacale, Consiglio di sorveglianza, Comitato per il controllo).

I rapporti tra questi organi conducono alla definizione delle modalità e della struttura utilizzata per il conseguimento dell’attività d’impresa e quindi ai problemi derivanti dalla separazione della proprietà e del controllo con particolare riferimento alle relazioni che si stabiliscono fra azionisti e Amministratori

(Donegani, 2008).

Il tema della Corporate Governance, riveste nel contesto odierno un ruolo fondamentale in quanto rappresenta uno strumento per massimizzare l’efficienza della gestione aziendale e, più in generale, per ottimizzare la performance societaria; inoltre, il delicato tema del governo d’impresa è oggi al centro di un intenso dibattito che si protrae ormai da più di un decennio.

I meccanismi di amministrazione e controllo delle società quotate rivestono un ruolo fondamentale nello scenario economico mondiale. La globalizzazione della finanza e l’evoluzione degli strumenti e delle tecniche di finanziamento, impongono sostanziali requisiti di trasparenza per le imprese che intendono affacciarsi ai mercati regolamentati. Pertanto, l’esigenza di facilitare l’accesso ai capitali, attraverso il mercato finanziario, rende necessario garantire agli investitori modelli di tutela adeguati. Scandali finanziari come: Enron, WorldCom, Vivendi, hanno riacceso il dibattito sulla Corporate Governance e, in particolare, sul ruolo degli Amministratori non esecutivi nei Consigli di Amministrazione.

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Si avvia dunque un intenso dibattito e, il termine governance inizia a diffondersi sino a divenire, a partire dagli anni Novanta, sempre più ricorrente nel linguaggio aziendale. Ad amplificarne l’interesse contribuisce il processo di globalizzazione e di conseguente apertura del mercato dei capitali. Governi, investitori e imprese si trovano, infatti, a dover fare i conti con la governance. I governi, da un lato, sostengono l’adozione delle migliori pratiche di governance, poiché, esse favoriscono l’afflusso di capitali; gli investitori riconoscono, invece, nella Corporate Governance un nuovo strumento da utilizzare nelle loro valutazioni e decisioni sull’opportunità di fare o meno investimenti. Le imprese, infine, si rendono conto che la Corporate Governance è una ‘leva di valore’ da poter spendere sul mercato, poiché, gli investitori sono disposti a pagare un ‘premio’ per le azioni di imprese che hanno un sistema con pratiche di governo societario ben definite. Il sistema di governance aziendale, nel momento in cui si tratta di prendere decisioni d’investimento, viene paragonato ad un vero e proprio indicatore di performance e nel corso degli anni una buona governance è divenuta sinonimo di buona reputazione, svolgendo un ruolo chiave nel decretare il successo aziendale. È proprio partendo da queste considerazioni che numerosi studiosi si sono avvicinati a tale tematica con l’obiettivo di verificare, anche da un punto di vista empirico, l’effettiva importanza ricoperta dalla Corporate Governance nel decretare il successo aziendale, focalizzando l’attenzione in particolare sul ruolo, sulla composizione e sul funzionamento del Consiglio di Amministrazione

(Demartini, Graziani, Monni; 2016).

L’origine anglosassone del termine evidenzia come la Corporate Governance abbia trovato specifico approfondimento innanzi tutto con riguardo alle grandi imprese o comunque alle società quotate: il fabbisogno di regolamentazione e di verifica dei comportamenti risulta maggiore all’aumentare del numero e della dispersione degli interessi coinvolti e dei rischi; per contro, l’attività amministrativa e di controllo qualifica l’evoluzione di tutte le imprese. Il modello di governo di un’impresa configura la tipologia di gestione dell’impresa stessa: la governance di un’impresa determina, da un lato, l’attribuzione dei poteri decisionali nelle diverse circostanze e, dall’altro, i rapporti tra l’impresa e i soggetti

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ad essa legati da rapporti economici (creditori, debitori, azionisti, dipendenti)

(Donegani, 2008). Inoltre la responsabilità degli organi amministrativi è un punto centrale del dibattito sulla Corporate Governance soprattutto con riguardo alle società con azionariato diffuso, per le quali il controllo diretto dei soci di minoranza è minore. Infatti in tale situazione i soci, spesso disinteressati all’esercizio dei propri poteri di azionisti per l’esiguo peso che hanno sono indotti a esternare il proprio dissenso con l’alienazione delle proprie azioni, disinvestendo quindi dalla società. In tale contesto, la Corporate Governance tende a evolvere da una situazione di preminente attenzione per gli azionisti, a una opportuna valorizzazione di tutti gli Stakeholder e dell’insieme di responsabilità (amministrative, economiche e sociali d’impresa). Il soddisfacimento delle attese e in primo luogo degli interessi di coloro che conferiscono le risorse primarie (conferenti di capitale di rischio e prestatori di manodopera), rappresenta l’elemento promotore di tutta l’attività di impresa. A tale elemento si associa il mandato conferito agli organi di Corporate Governance (Donegani, 2008).

Essa è quindi un’attività diretta allo sviluppo di decisioni e azioni orientate alla soddisfazione degli interessi, spesso anche contrapposti, delle differenti categorie di Stakeholder. La relativa attuazione definisce le modalità di istituzione di durevoli relazioni positive tra i diversi portatori di interesse dell’impresa, le potenzialità di successo, di crescita e di affermazione nell’ambiente competitivo, la capacità di ottenimento di consenso e risorse. Gli Stakeholder si attendono dall’impresa un’efficace Amministrazione, opportunamente strutturata e costantemente monitorata, trasparente e in grado di trasferire tutte le informazioni necessarie per consentire l’espletamento dei necessari processi valutativi.

Di conseguenza, la Corporate Governance implica l’opportuna realizzazione di processi di:

-amministrazione, cioè di perfezionamento delle scelte e di definizione degli indirizzi di corretta attuazione della gestione;

-di controllo, ovvero di verifica della correttezza e dell’efficacia dei comportamenti amministrativi;

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-di comunicazione, cioè di trasferimento interno ed esterno di tutte le informazioni volte a garantire la trasparenza e il conveniente orientamento comportamentale (Donegani, 2008).

In ottica economico-aziendale, si connette all’assetto istituzionale dell’impresa e presidia la definizione degli indirizzi volti a determinare gli assetti strutturali (assetto organizzativo, tecnico e patrimoniale) e le dinamiche gestionali. Si tratta, ancora una volta, di un’attività di vertice, svolta da specifici organismi, su mandato della proprietà e nell’interesse dell’impresa. Le attese sono di carattere economico, ma anche di carattere sociale e possono trovare realizzazione durevole solo a fronte di comportamenti rispettosi della disciplina legale. Di conseguenza, la Corporate Governance, in quanto attività amministrativa, di controllo e di comunicazione, deve essere orientata al rispetto delle norme (responsabilità amministrativa), alla creazione di valore per garantire la realizzazione di processi di autofinanziamento e la soddisfacente remunerazione dei conferenti di capitale di rischio (responsabilità economica), la corretta soddisfazione dei bisogni della clientela per la formazione di valore aggiunto attraverso i cicli della gestione caratteristica aziendale, la soddisfazione del personale per una gestione improntata all’efficacia e all’efficienza e infine la conveniente remunerazione di tutti gli altri fattori acquisiti in modo da ottenere le migliori potenzialità di fornitura nel tempo (responsabilità sociale ed economica). Con riguardo dunque al ruolo della Corporate Governance per la realizzazione dei fini dell’impresa, le decisioni di governo devono essere animate dall’equo contemperamento delle responsabilità economiche (nei confronti della proprietà, dei prestatori di lavoro, ma anche di coloro che hanno concesso crediti di finanziamento, di regolamento o che intrattengono relazioni con implicazioni economiche di vario tipo), responsabilità amministrativa (riconducibile al rispetto delle norme civili e fiscali) e responsabilità sociale (nei confronti di tutti coloro con cui si intrattengono relazioni strumentali per lo sviluppo dell’attività) (Donegani, 2008). Si può comprendere come il tema della Corporate Governance per via degli innumerevoli aspetti che tocca all’interno di un’azienda, abbia un elevato grado di complessità, e come sia sempre in continua evoluzione. Essa abbraccia diversi ambiti, può

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infatti riferirsi tanto ad una serie di attività e regole atte a far seguire ad una azienda dei codici specifici, quanto ai processi attraverso cui le società sono dirette e controllate; tra le regole rientrano sia le leggi del paese in cui l’azienda si trova ad operare, sia proprio le regole societarie interne.

L’ambito di interesse di questo lavoro riguarda però un determinato aspetto della Corporate Governance, ossia la complessa questione degli Amministratori Indipendenti all’interno dei Consigli di Amministrazione delle società italiane quotate nei mercati regolamentati.

Gli Amministratori Indipendenti costituiscono una tra le più importanti innovazioni in tema di governo societario, un passo verso la trasparenza gestionale e verso l’allargamento del Consiglio di Amministrazione a soggetti che fino ad oggi non vi potevano avere accesso.

Nelle imprese italiane, caratterizzate da una elevata concentrazione della proprietà azionaria, l’introduzione di membri indipendenti all’interno del Consiglio di Amministrazione manifesta problematiche diverse da quelle presenti invece nel modello d’origine (anglosassone). Le differenze sono riassunte nella tabella seguente:

Fonte (Bonomo, 2015)

Il sistema con il quale le imprese sono dirette e controllate e la struttura proprietaria influenzano il valore delle azioni. Pertanto, la stretta relazione tra efficienza dell’impresa, tutela degli azionisti e interesse generale della collettività,

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ci conduce ad evidenziare che ciò che danneggia gli azionisti, pregiudica l’interesse generale. Per questi motivi, l’obiettivo del lavoro è stato quello di evidenziare la centralità del ruolo degli Amministratori Indipendenti, all’interno del più ampio quadro della Corporate Governance, quali garanti dell’interesse della collettività. Un altro problema impegnativo che si affronta in questo lavoro riguarda la valutazione della reale efficacia degli Amministratori Indipendenti ed il ruolo che i codici di autoregolamentazione, di iniziativa privata, possono ricoprire al fine di incrementare la fiducia che l’intero sistema economico può riporre negli stessi.

L’esigenza di trovare strutture proprietarie e di controllo adeguate a garantire un’efficiente allocazione delle risorse è alla base della ricerca di un sistema di governo societario che tiene conto dei diversi interessi di coloro i quali compongono la compagine azionaria. Dunque, il fine ultimo di ogni modello di governance deve essere quello di riuscire a trovare il giusto equilibrio di potere tra maggioranza e minoranza, nei casi di struttura proprietaria concentrata, e tra azionisti e management, nei casi di public company.

L’origine della figura dell’Amministratore Indipendente e la sua evoluzione

La figura degli Amministratori Indipendenti si è affermata su tutti i principali mercati finanziari come una figura chiave per garantire la buona governance dell’impresa.

Nasce negli anni settanta nel sistema anglosassone per rafforzare il Consiglio di Amministrazione a seguito degli scandali finanziari di quegli anni (Penn Central fra tutti).

Nell’impostazione tradizionale americana il Consiglio di Amministrazione aveva funzioni sostanzialmente “consultive”. I suoi membri erano scelti tra persone di fiducia dell’amministratore delegato al quale somministravano pareri sulle scelte strategiche e sulle principali scelte operative. Sebbene giuridicamente

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a capo dell’impresa, il consiglio non aveva una reale funzione direttiva. I poteri gestori erano concentrati nella persona dell’amministratore delegato, che ricopriva normalmente anche la carica di presidente. Gli scandali finanziari degli anni settanta (primo fra tutti quello di Penn Central, una Enron ante litteram) portarono ad un graduale rovesciamento di prospettiva. Al consiglio fu riconosciuto il compito di monitorare il comportamento dei managers: dal advisory board si passò al monitoring board. Tappe essenziali di questo processo furono l’istituzione del comitato di controllo (audit committee, incaricato di monitorare l’informazione finanziaria ed i controlli interni) e la nomina di Amministratori Indipendenti dal management. Il rapporto stesso tra amministratori insiders e indipendenti si rovesciò, passando da una proporzione di 80/20 negli anni cinquanta all’attuale di 15/85 (Gordon, 2005). Dunque, il monitoraggio del consiglio sugli esecutivi è stato rafforzato sia sul piano organizzativo (struttura per comitati) che selezionando amministratori capaci – per qualità professionali e autonomia – di imporre il proprio punto di vista ai managers. Naturalmente, questa trasformazione non è stata improvvisa, data la resistenza dei managers ad accettare il primato del consiglio nella conduzione della società. Da una fase in cui il controllo era focalizzato essenzialmente sugli aspetti contabili e gli indipendenti erano in minoranza si giunse, per tappe successive, al sistema attuale, che vede una maggioranza di Amministratori Indipendenti in consiglio ed il monitoraggio del consiglio esteso all’insieme dei controlli interni ed alla remunerazione degli esecutivi. La definitiva accettazione del monitoring board è il prezzo che gli esecutivi hanno dovuto pagare per evitare regolazioni più severe da parte del legislatore e delle autorità di controllo.

L’attivismo del consiglio si è esteso ad altre materie, nelle quali i compiti del consiglio non si riducono al monitoraggio. Anzitutto, il consiglio determina le strategie aziendali, sulla base delle proposte dei managers e con il contributo degli indipendenti. Questo contributo non dovrebbe essere soltanto formale: gli errori strategici possono essere causa di crisi aziendali difficilmente riparabili. L’approvazione dei piani industriali e finanziari da parte del consiglio serve anche a stabilire i parametri alla luce dei quali gli amministratori non esecutivi

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valuteranno la performance degli esecutivi. Il consiglio si riserva, inoltre, di approvare le operazioni rilevanti, che possono incidere in misura sostanziale sulla redditività aziendale o avere una valenza strategica. Ancora, al consiglio spetta di approvare le operazioni con parti correlate, che presentano un potenziale conflitto di interessi e per le quali la giurisprudenza americana (specialmente quella del Delaware) ha elaborato, nel corso degli anni, criteri di correttezza anche sul piano procedurale.

Proprio gli Amministratori Indipendenti si trovano al centro delle procedure rilevanti, in quanto normalmente estranei al conflitto di interesse che si tratta di prevenire. Quando si debba compiere un’operazione per la quale i managers siano in potenziale conflitto di interessi, il Consiglio di Amministrazione costituisce un comitato di indipendenti, incaricandolo di negoziare l’operazione in luogo degli esecutivi, anche avvalendosi di esperti indipendenti (banche d’affari, avvocati) all’uopo nominati dallo stesso comitato. L’uso di independent committees è, per la giurisprudenza, una delle tecniche fondamentali per assicurare la correttezza sostanziale di un’operazione con parti correlate, tanto da rovesciare l’onere probatorio dell’eventuale scorrettezza sugli investitori che agiscano in responsabilità contro il consiglio. In questi comitati, gli indipendenti non si limitano al monitoraggio dell’operazione, bensì la negoziano come se la stessa non fosse compiuta tra parti correlate. Il caso più significativo è forse quello del management buy-out, che vede i managers controparti della società, normalmente rappresentata da un comitato di indipendenti a sua volta assistito da banchieri ed avvocati.

In una ricostruzione effettuata (Gordon, 2005), gli Amministratori Indipendenti sono ritenuti uno dei capisaldi del nuovo diritto societario americano, che attribuisce al Consiglio di Amministrazione il fondamentale compito della massimizzazione del valore azionario. Tale compito è soddisfatto in un ambiente profondamente diverso da quello tradizionale, nel quale gli amministratori non esecutivi soffrivano di una forte asimmetria informativa nei confronti degli esecutivi. Oggi i primi possono fare affidamento, in misura superiore che in passato, sul prezzo delle azioni per misurare la performance dei managers. Tale

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prezzo si forma in mercati che sono sempre più informati sull’andamento della gestione sociale sia per le strategie di comunicazione delle società che per effetto della regolazione in materia. In breve, l’asimmetria informativa tra esecutivi e non-esecutivi si riduce, potendo questi ultimi confrontarsi con il giudizio del mercato quale appare dal prezzo delle azioni e dai rapporti degli analisti.

I due profili ora citati – massimizzazione del valore azionario ed efficienza dei mercati – guidano gli Amministratori Indipendenti (che generalmente occupano una larga maggioranza dei posti in consiglio) nella nomina e soprattutto nel licenziamento degli esecutivi. Quando il giudizio del mercato sulla gestione sociale è negativo ed i prezzi delle azioni scendono, i consigli sostituiscono gli amministratori delegati con l’obiettivo di massimizzare la ricchezza degli azionisti attraverso un riorientamento delle attività sociali. Il risultato è quello di un elevato turnover degli amministratori delegati, che – se si vuole – in parte compensa la circostanza che le OPA ostili siano quasi scomparse dalla scena americana soprattutto per effetto dell’adozione di misure difensive da parte delle società bersaglio. Secondo uno studio di Booze Allen, nel periodo 1995 – 2001 la durata media di carica dei CEO è scesa da 9,5 a 7,3 anni, mentre quella dei CEO licenziati dal consiglio è scesa da 7 a 4,6 anni.

Anche nella gestione delle misure difensive, del resto, i Consigli di Amministrazione hanno un ruolo importante, che è stato riconosciuto dalla giurisprudenza del Delaware proprio in considerazione del fatto che nei consigli siedono Amministratori Indipendenti capaci di risolvere il conflitto di interessi tra managers ed azionisti tipico delle OPA ostili. Il fatto che la maggioranza consiliare sia composta di indipendenti dovrebbe essere garanzia di un corretto esercizio di questa facoltà. Infatti, gli indipendenti sono meno attaccati alla carica di quanto non lo siano i managers, che dalla società ricevono retribuzioni ben maggiori di quelle degli amministratori non esecutivi.

Dopo gli scandali finanziari citati precedentemente, la riforma del Sarbanes-Oxley Act (SOX) ha cercato di restituire la fiducia nei mercati attraverso un ri-regolazione dell’informazione finanziaria, che fa perno sui controlli interni, sugli audit committees e sui revisori. In questo modo, i prezzi hanno potuto riacquistare

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la loro capacità informativa anche a beneficio degli Amministratori Indipendenti per i loro fini di monitoraggio sulle condotte manageriali.

Introduzione degli Amministratori Indipendenti in Europa

Gli Amministratori Indipendenti hanno fatto ingresso in Europa nel sistema finanziario più simile a quello americano, vale a dire nel Regno Unito, ed hanno ricevuto il loro riconoscimento ufficiale nel rapporto Cadbury del 1992.

Come negli USA, l’introduzione degli indipendenti è da connettere con una serie di scandali finanziari verificatisi però nel corso degli anni ottanta. Il rapporto Cadbury si è interessato soprattutto dei controlli di tipo finanziario, perché il problema era quello di restituire credibilità all’informativa finanziaria. I successivi rapporti britannici in tema di Corporate Governance hanno esteso, invece, l’attenzione anche a funzioni diverse del consiglio, relative alle strategie d’impresa, alla nomina di nuovi membri del consiglio ed alla remunerazione degli esecutivi.

Il percorso è simile a quello seguito negli USA per rafforzare i poteri del consiglio e, di riflesso, il ruolo degli Amministratori Indipendenti, che oggi, nella best practice del Regno Unito, coprono la metà dei posti consiliari. Va considerato, in proposito, che nel Regno Unito il numero di esecutivi in consiglio è normalmente maggiore che negli USA, mentre il presidente è - sempre secondo la migliore pratica - diverso dal CEO e, pur non essendo annoverato tra gli indipendenti, soddisfa criteri di indipendenza al momento della nomina. Un’altra differenza dagli USA è rappresentata dal ruolo degli investitori istituzionali, la proprietà azionaria dei quali è più concentrata nel Regno Unito, col risultato che l’influenza di tali investitori sul governo delle società quotate è notevole. Questo

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rende le comunicazioni informali tra investitori istituzionali e Consigli di Amministrazione più agevoli, stabilendo un miglior raccordo tra Amministratori Indipendenti e azionisti pur in assenza di meccanismi di voto di lista e simili.

Di conseguenza, mentre negli USA gli Amministratori Indipendenti fanno riferimento soprattutto al mercato azionario per valutare la performance dei managers, nel Regno Unito ai meccanismi di mercato si affiancano quelli di governance, che sono caratterizzati dalla relativa concentrazione azionaria nelle mani degli investitori istituzionali. Tuttavia, il turnover degli esecutivi è più elevato negli USA che nel Regno Unito1, ciò potrebbe segnalare una maggiore

viscosità dei meccanismi di governance utilizzati nel secondo paese a fronte di una underperformance degli esecutivi. In altri termini, mentre negli USA i consigli reagiscono rapidamente alla perdita di valore delle azioni causata da risultati deludenti, nel Regno Unito i tempi di reazione sono più lenti ed i casi di licenziamento degli esecutivi sono meno frequenti e spesso determinati dalle proteste degli investitori istituzionali (l’osservazione è di A. Borges, Presidente ECGI, al recente convegno di Londra del European Corporale Governance Forum).

L’evoluzione italiana è, in parte, diversa da quella sin qui descritta. Il Testo Unico della Finanza, nel riformare il sistema di governo societario del nostro paese, ha puntato sul collegio sindacale, anziché sul Consiglio di Amministrazione. Invece di accentuare la distinzione tra consiglieri esecutivi e non, attribuendo un ruolo di monitoraggio a questi ultimi, il legislatore ha insistito sul controllo da parte del collegio sindacale, che nel confronto con l’esperienza anglo americana, ha le caratteristiche di un audit committee ma è organo diverso da quello consiliare.

Il Codice di autodisciplina della borsa ha cercato, invece, di rivitalizzare il Consiglio di Amministrazione delle società quotate sulla falsariga delle migliori pratiche anglosassoni, introducendo l’organizzazione per comitati e la figura degli

1 L. Renneboog e G. Trojanowski, nel 2003, notarono che nel Regno Unito il licenziamento dei top executives generalmente reagisce ai dati contabili di periodo, più che alla discesa del prezzo delle azioni, e quindi interviene relativamente più tardi.

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indipendenti. Ne risulta un sistema più complesso di quello anglosassone, per la presenza di due istanze di controllo: una interna al consiglio, rappresentata dagli indipendenti; l’altra esterna, rappresentata dai sindaci. Tra le due istanze vi è parziale sovrapposizione, che tuttavia non esclude l’utilità degli indipendenti, i quali hanno, oltre a funzioni di monitoraggio, i compiti propri degli amministratori. Lo stesso legislatore della riforma societaria lo ha riconosciuto, sostanzialmente introducendo una distinzione tra amministrati esecutivi e non-esecutivi, ai quali spettano compiti di monitoraggio (anche se poi, il legislatore ha eliminato il riferimento alla responsabilità per omessa vigilanza; questa responsabilità, comunque, ad avviso di molti, resta ferma nel nostro sistema, proprio in considerazione del ruolo di sorveglianza che agli amministratori non esecutivi spetta su quelli esecutivi). Ai non esecutivi spettano, inoltre, nell’ambito del consiglio, i compiti gestionali che il Codice di autodisciplina precisa con riferimento all’approvazione delle strategie aziendali, delle operazioni rilevanti e di quelle con parti correlate.

L’indipendenza, da un punto di vista soggettivo, è da intendersi astrattamente come un atteggiamento individuale, che comporta un’autonomia di giudizio richiesta a tutti gli Amministratori, affinché ciascuno di essi valuti liberamente, nell’interesse delle società, le proposte consiliari, in modo che da tale processo scaturiscano decisioni collegiali ponderate, frutto del contributo dei singoli.

In concreto, però, nonostante siano considerati generalmente “indipendenti” soltanto quegli Amministratori che, al pari dei sindaci, non siano oggettivamente legati alla società e al gruppo a cui questa appartiene da rapporti di natura familiare, di lavoro (subordinato e non) o di natura professionale che ne possano compromettere la libertà di giudizio, nel nostro ordinamento non è rintracciabile una definizione tecnica univoca di indipendenza.

Ciò crea non poche difficoltà, laddove gli indipendenti costituiscono, in funzione delle proprie competenze e della propria terzietà, uno strumento di contro-bilanciamento in decisioni con potenziali profili di conflitto etero-consiliari tra majorities e minorities (es. operazioni con parti correlate o, in generale, in cui è opportuno temperare l’egemonia che il socio di comando può esercitare sul

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management), ma anche endo-consiliari, attraverso la partecipazione a specifici comitati ristretti, in cui vengono affrontati temi sensibili, quali il controllo interno e il sistema di gestione dei rischi, la retribuzione degli Amministratori, le nomine degli Amministratori (Di Battista, 2015).

L’adeguato svolgimento di queste delicate attribuzioni implica che gli indipendenti siano effettivamente tali. Il compito di accertare la sussistenza del requisito è rimessa al Consiglio di Amministrazione, che dovrebbe effettuare le proprie valutazioni con un approccio sostanzialistico e non formale.

Questa delicata operazione può però rivelarsi molto difficoltosa dal punto di vista pratico. Spesso nell’esame delle dichiarazioni rese dai candidati, che in assenza di una definizione unitaria di indipendenza, ne richiamano le variegate e sintetiche accezioni individuate dagli statuti o dai regolamenti consiliari, senza particolari personalizzazioni.

L’obiettiva frammentarietà del quadro di riferimento discende presumibilmente anche dall’assenza di una tradizione storica in Italia della figura degli indipendenti.

Il nostro, infatti, è un ordinamento “ispirato all’idea dell’affidamento della gestione sociale agli Amministratori nominati dalla maggioranza dei soci riuniti in assemblea, per la realizzazione dell’oggetto sociale” (M.L. Di Battista, 2015), in cui soltanto recentemente si è fatta strada “la consapevolezza […] che tra gli interessi della grande impresa ci deve essere anche quello di tutelare i risparmiatori, aspetto precedentemente ignorato dalle prime codificazioni. Non deve stupire quindi che la prima apparizione degli Amministratori Indipendenti nel panorama italiano sia avvenuta solo nel 1999 nel codice di autodisciplina delle società quotate, in una fonte, quindi, di soft law destinata alle società che fanno ricorso al mercato: il legislatore del TUF, seppur attento ai temi dei controlli, riformulando la disciplina delle società quotate aveva posto l’attenzione principalmente sul collegio sindacale e sulla società di revisione” (M.L. Di Battista, 2015).

Sicuramente dalla prima pubblicazione del Codice Preda il ruolo e la figura degli Amministratori Indipendenti si è evoluta sia nella prassi che nel diritto. Tuttavia, nel nostro ordinamento non abbiamo tuttora una definizione univoca di

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indipendenza. Per questo motivo troviamo varie fonti normative di riferimento: nel Codice Civile, nel d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. Testo Unico Finanziario, d’ora in avanti t.u.f.), nel d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (c.d. Testo Unico Bancario, d’ora in avanti t.u.b.), nel d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (c.d. Codice delle Assicurazioni private), nella disciplina regolamentare di Consob, nelle Istruzioni di Vigilanza di Banca d’Italia e nelle Nuove Disposizioni di Vigilanza prudenziale per le banche, nel Regolamento del Ministero dello Sviluppo Economico n. 220 dell’11 novembre 2011, ma anche – tra la soft law - nel Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana S.p.A. oltreché nella Raccomandazione della Commissione Europea 2005/162/CE che, pur non essendo vincolante, non di meno è stata recepita da Borsa Italiana (Della Vedova, 2014).

Prima del 2003, nel nostro ordinamento gli Amministratori Indipendenti erano previsti solamente nel Codice di Autodisciplina delle società quotate di Borsa Italiana S.p.A., che come precedentemente detto, ha raccomandato l’inserimento nell’organo amministrativo di tale figura già nel 1999, con il Codice Preda. Il successivo importante passo è stata la riforma del diritto societario che ha i) inserito nell’art. 2387 c.c. la previsione secondo cui lo statuto della società può richiedere per la carica di Amministratore particolari requisiti, tra cui quello di indipendenza e ii) reso obbligatoria la presenza di almeno un terzo di Amministratori Indipendenti nelle società che adottano il sistema di amministrazione c.d. monistico, ossia quel sistema di amministrazione in cui la funzione di controllo è esercitata da un comitato per il controllo della gestione costituito in seno al Consiglio di Amministrazione stesso (Della Vedova, 2014).

Altra relativa modifica importante che riguarda la legislazione speciale, la c.d. legge sulla tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, ha introdotto nel TUF attraverso gli articoli 147ter e 147quater, l’obbligo di nomina di almeno un Amministratore Indipendente nel Consiglio di Amministrazione di una società quotata che adotti il sistema di amministrazione tradizionale e di almeno due se il consiglio stesso è composto da più di sette membri; nonché, nel caso di società che adotti il sistema dualistico, la nomina di un consigliere di gestione indipendente, se il consiglio di gestione sia composto da più di quattro membri. Inoltre, è stata

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resa obbligatoria la presenza di Amministratori Indipendenti nel comitato per il controllo sulla gestione, per le società che adottano il sistema monistico, e nel consiglio di sorveglianza, per le società che adottano il sistema dualistico.

Premesso che le società per azioni possono optare per tre differenti regimi di governance: il sistema tradizionale, quello dualistico e quello monistico, le norme e gli obblighi di legge differiscono proprio rispetto alle suddette categorie.

L’indipendenza nel Codice Civile e nel T.U.F.

Andando più nello specifico, all’interno del Codice Civile gli articoli di riferimento che devono essere utilizzati per definire l’indipendenza nei tre regimi, sono vari e in alcuni casi è anche presente una certa discrezionalità interpretativa. Di seguito sono elencati i punti più importanti riguardo la disciplina:

- la legge generale impone la nomina degli Amministratori Indipendenti (almeno un terzo) per le società che adottano il sistema monistico, indipendentemente dal fatto che si tratti di società aperte o chiuse. Per conoscere i requisiti si rinvia a quanto stabilito dall’art. 2399 c.c. in materia di eleggibilità dei sindaci. Da evidenziare come non si trovi una determinata definizione di indipendenza, ma che essa sia possibile ricavarla solo in negativo, ovverosia è considerato indipendente chi non si trova in determinate situazioni elencare dalla norma di legge.

- quanto alle società che adottano il sistema dualistico, aperte o chiuse, non ci sono norme come quella appena vista per il sistema monistico che impongano la nomina di Amministratori Indipendenti ma, per via indiretta, a ciò si arriva ugualmente considerato che si rinvengono alcuni richiami con il comma 10

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dell’art. 2409-duodecies c.c. che introduce un requisito di indipendenza (che coincide in parte con uno dei requisiti previsti per i consiglieri del sistema monistico) per i consiglieri di sorveglianza, i quali non devono avere rapporti con la società che possano incidere sulla loro indipendenza. Tale requisito, però, andrà valutato caso per caso, dunque si dovrà accertare se l’esistenza di un determinato rapporto mini effettivamente l’indipendenza del soggetto.

- per le società che adottano il sistema tradizionale non vi è l’obbligo di nomina di Amministratori in possesso dei requisiti di indipendenza, ma è lasciato all’autonomia statutaria stabilire se i consiglieri debbano avere determinati requisiti, anche di indipendenza (Della Vedova, 2014).

È possibile, quindi, configurare due “sottocategorie” della categoria Amministratori Indipendenti (sempre in modo indifferente alla natura della società): gli Amministratori Indipendenti perché previsto per legge per le società che adottano il sistema monistico (e che adottano il sistema dualistico, pur non essendoci coincidenza nelle definizioni date dei requisiti di indipendenza) e gli Amministratori Indipendenti perché previsto dallo statuto della società.

Quanto ai primi, i requisiti di indipendenza derivano da quelli previsti per i sindaci, mentre per i secondi è impossibile tratteggiarne una “fisionomia”, potendo l’autonomia statutaria porre liberamente quale requisito di indipendenza la presenza – o l’assenza – di determinate situazioni (Della Vedova, 2014).

Altre norme le ritroviamo invece nel Testo Unico Finanziario (TUF). Ad esse sono assoggettate le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (la disciplina si applica solo alle società quotate e non a quelle emittenti titoli diffusi tra il pubblico), oltre che alle norme del Codice Civile, e alle norme di fonte regolamentare emanate dalla Consob.

Distinguendo anche in questo caso le società quotate a seconda del sistema di amministrazione adottato, si ricava che:

- le società che adottano il sistema tradizionale sono obbligate ad avere almeno uno - o almeno due, in caso di consiglio composto da più di sette membri - Amministratori Indipendenti, per tali intendendosi coloro che sono in possesso dei requisiti previsti per i sindaci delle società quotate all’art. 148, comma 3, t.u.f.,

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nonché “se lo statuto lo prevede, gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria”;

- le società che adottano il sistema monistico devono avere almeno un terzo dei consiglieri in possesso dei requisiti di indipendenza di cui all’art. 2399 c.c., in virtù del richiamo fatto a tale norma dall’art. 2409-septiesdecies c.c., applicabile anche alle società quotate in forza della previsione di cui all’art. 147-ter; inoltre, un Amministratore indicato dalla lista di minoranza deve essere in possesso dei requisiti di cui all’art. 148, commi 3 e 4 (che, come abbiamo visto, sono più stringenti rispetto a quelli codicistici; il che equivale a dire che il “test” di indipendenza cui è sottoposto l’Amministratore nominato dalla lista di minoranza è più rigoroso di quello cui sono sottoposti i consiglieri indicati dalla lista di maggioranza, per i quali sarà sufficiente il rispetto dei requisiti previsti dal codice civile). A ciò si aggiunge la previsione contenuta nell’art. 148, comma 4-ter, che rende applicabili ai componenti del comitato di controllo sulla gestione i requisiti di indipendenza di cui al comma 3 del medesimo articolo;

- le società che adottano il sistema dualistico devono avere almeno un consigliere di gestione in possesso dei requisiti di cui all’art. 148, comma 3, t.u.f., nonché “se lo statuto lo prevede, gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria”. Tuttavia, la società potrebbe non essere soggetta alla regola appena vista, perché l’art. 147-quater t.u.f. si applica solo se il consiglio di gestione è composto da più di quattro membri. Con il risultato che la legge non prevede alcun requisito di indipendenza per i consiglieri di gestione di una società quotata il cui consiglio di gestione sia composto da un numero di membri non superiore a quattro. Quanto ai consiglieri di sorveglianza, invece, questi devono essere in possesso dei requisiti di indipendenza di cui all’art. 148, comma 3, t.u.f., in forza del rinvio effettuato dal comma 4-bis della medesima norma (Della Vedova, 2014).

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La definizione di indipendenza contenuta nel Codice di Autodisciplina

Come detto in precedenza, la normativa che verte sugli Amministratori Indipendenti è molto vasta; fin qui è stata analizzata quella contenuta nel Codice Civile e nel T.U.F.; abbiamo però altre definizioni che meritano di essere citate ma che non verranno trattate nello specifico in questo contesto essendo norme che esulano dal lavoro prefissato.

Meritevole di approfondimento dopo la disamina delle norme di fonte primaria e regolamentare in materia di Amministratori Indipendenti, sono i principi dell’autoregolamentazione che, nel nostro sistema, sono dettati dal Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana S.p.A., esempio di soft law.

Acquisita la consapevolezza circa l’importanza di dotarsi di sistemi di Corporate Governance efficaci, e dinanzi alla crescente domanda di good governance da parte delle varie imprese, non solo l’Italia, ma la stragrande maggioranza dei paesi, hanno iniziato ad elaborare delle regole proprie, inerenti la composizione e il funzionamento dei vari organi sociali. Tali regole sono state inserite – a seconda dei diversi contesti – all’interno di norme di legge (le cosiddette hard laws) con l’intento di dettate un quadro di riferimento per le società, o costituite in principi di comportamento (le soft laws), ossia raccomandazioni non vincolanti, mediante le quali diffondere modelli di riferimento ottimali (Demartini, Graziani, Monni; 2016). Infatti, soffermando la nostra attenzione su quest’ultimo aspetto, ossia sulle soft laws, è possibile rilevare la presenza di diversi codici di condotta nazionali che riflettono le specificità di un dato paese, prevedendo raccomandazioni dettate sulla base del contesto storico, culturale, delle tradizioni finanziarie, del sistema legale, nonché della struttura proprietaria delle imprese in esso operanti, ed hanno pertanto, validità solo nel paese di riferimento. Ad esempio, in contesti caratterizzati da mercati altamente liquidi e da un’elevata separazione tra proprietà e controllo, i codici tenderanno ad incentrarsi, principalmente, su regole che possono incidere sulla struttura e sul

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funzionamento del Board, al fine di assicurare un controllo sull’operato dei manager. Laddove, al contrario, la proprietà risulta altamente concentrata, i codici incideranno, essenzialmente, su aspetti quali la tutela delle minoranze azionarie, la trasparenza informativa, l’indipendenza degli Amministratori.

I principi dell’autoregolamentazione nel nostro sistema, sono dettati dal Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana S.p.A..

Il Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana S.p.A. (noto anche come Codice Preda) era stato pubblicato per la prima volta nel 1999 dal Comitato per la Corporate Governance promosso da Borsa Italiana, poi rivisitato nel 2003, nel 2006, nel 2010 quanto alla remunerazione degli Amministratori e, da ultimo, nel dicembre 2011. Esso contiene raccomandazioni che costituiscono un modello di best practice per l’organizzazione e il funzionamento delle società quotate italiane. L’adesione al Codice è su base volontaria – come accade per i codes of conduct inglesi e, segnatamente, per il UK Corporate Governance Code -, ma la percentuale delle società che vi aderiscono è talmente elevata da poter concludere che i principi stabiliti nel Codice sono rispettati come se fossero obbligatori.

Lo stesso Codice prevede un dovere, in capo alle società che lo adottano, di dare un’informazione accurata circa le modalità attraverso le quali le raccomandazioni del Codice sono applicate nel caso concreto. Ai fini che ci occupano, il Codice di Autodisciplina riveste un’importanza rilevante, non solo perché l’introduzione della figura dell’Amministratore Indipendente è avvenuta per il tramite del Codice stesso - che raccomandava già nella prima versione del 1999 l’introduzione nel Consiglio di Amministrazione di Amministratori Indipendenti - ma anche perché la Consob caldeggia, di fatto, l’applicazione dei principi del Codice di Autodisciplina, quanto alla nozione di indipendenza (Della Vedova, 2014).

Il ruolo ricoperto dall’autodisciplina sull’assetto complessivo della regolamentazione delle società quotate italiane è stato più volte enfatizzato dalla Consob. In particolare, viene sottolineato come l’autodisciplina abbia “costituito un “laboratorio di sperimentazione” e di anticipazione di alcune soluzioni innovative che sono state successivamente recepite nella regolazione pubblica”,

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nonché “rappresentato un importante punto di riferimento per dare contenuto operativo e di dettaglio a norme del codice civile, soprattutto in materia di controlli interni e funzionamento dell’organo di amministrazione, facendo leva su best practices maturate in ambito internazionale (Gasparri, 2013). Infine, ma cosa non meno importante, l’autodisciplina ha rappresentato uno strumento per recepire in Italia principi e orientamenti contenuti in raccomandazioni della Commissione Europea” (Ciccaglioni, 2013).

Le modifiche introdotte nel Codice con la riforma del 2011 hanno dimostrato particolare attenzione per la componente indipendente del Consiglio di

Amministrazione, puntando al miglioramento della disciplina degli

Amministratori Indipendenti attraverso (Della Vedova, 2014):

i) la previsione della costante valutazione della permanenza del requisito dell’indipendenza in capo agli Amministratori;

ii) l’introduzione di un numero minimo di Amministratori Indipendenti; nonché

iii) la valorizzazione della figura del Lead Independent Director. Vediamo ora le previsioni del Codice che rilevano ai fini della presente trattazione. Gli articoli 2 e 3 del Codice si occupano della composizione del Consiglio di Amministrazione, individuando e definendo il ruolo degli Amministratori Esecutivi, non esecutivi e indipendenti. L’articolo 2, dopo aver affermato il principio per cui “gli Amministratori non esecutivi apportano le loro specifiche competenze alle discussioni consiliari, contribuendo all’assunzione di decisioni consapevoli e prestando particolare cura alle aree in cui possono manifestarsi conflitti di interesse”, disciplina la figura del Lead Independent Director. Il criterio applicativo stabilisce, infatti, che “il Consiglio di Amministrazione designa un Amministratore Indipendente quale Lead Independent Director, nei seguenti casi:

(i) se il presidente del Consiglio di Amministrazione è il principale responsabile della gestione dell’impresa (chief executive officer);

(ii) se la carica di presidente è ricoperta dalla persona che controlla l’emittente. Il Consiglio di Amministrazione degli emittenti

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appartenenti all’indice FTSE-Mib designa un Lead Independent Director se ciò è richiesto dalla maggioranza degli Amministratori Indipendenti, salvo diversa e motivata valutazione da parte del consiglio da rendere nota nell’ambito della relazione sul governo societario. Si può constatare che la figura del Lead Independent Director è vista come un contrappeso all’enorme potere che si concentrerebbe nelle mani del Presidente del Consiglio di Amministrazione, qualora questi ricoprisse anche la carica di chief executive officer o fosse la persona che controlla la società emittente stessa. Inoltre, è data facoltà agli Amministratori Indipendenti delle società quotate nel FTSE-Mib di richiedere, a maggioranza, la nomina del Lead Independent Director.

Quanto alla funzione di tale Amministratore, il criterio applicativo prevede che il Lead Independent Director (Della Vedova, 2014):

a) rappresenta un punto di riferimento e di coordinamento delle istanze e dei contributi degli Amministratori non esecutivi e, in particolare, di quelli che sono indipendenti ai sensi del successivo articolo 3;

b) collabora con il Presidente del Consiglio di Amministrazione al fine di garantire che gli Amministratori siano destinatari di flussi informativi completi e tempestivi”, con ciò introducendo una dinamica che altera, e di non poco, il normale potere di provvedere affinché i consiglieri ricevano adeguate informazioni attribuito ex lege (art. 2381 c.c.) al Presidente del Consiglio di Amministrazione. Questo potere mette in discussione l’attuale vigenza della prassi secondo cui solo il Presidente (oltre ai delegati) ha diretto accesso alle informazioni dell’esecutivo, sembrando consentire – per poter garantire la “completezza dell’informazione” – un autonomo ruolo al Lead Independent Director.

Un compito importante attribuito al Lead Independent Director è quello di convocare e presiedere le c.d. executive sessions degli indipendenti, ossia apposite riunioni tra i soli Amministratori Indipendenti per discutere di temi giudicati di interesse per il funzionamento del consiglio stesso (Della Vedova, 2014). Passando

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ora all’esame dell’articolo 3 del Codice, esso prevede due principi e cinque criteri applicativi con riguardo agli Amministratori Indipendenti. Anzitutto definisce al principio 3.P.1 cosa significhi “indipendenza”, prevedendo che: “Un numero adeguato di Amministratori non esecutivi sono indipendenti, nel senso che non intrattengono, né hanno di recente intrattenuto, neppure indirettamente, con l’emittente o con soggetti legati all’emittente, relazioni tali da condizionarne attualmente l’autonomia di giudizio” (Della Vedova, 2014). Il “cuore” del requisito

di indipendenza sta nella conservazione dell’autonomia di giudizio: non sono determinati rapporti, di per sé, a far perdere il requisito di indipendenza – come stabilito, per contro, dal codice civile e anche dal t.u.f., laddove si rimanda ai requisiti di eleggibilità previsti per i sindaci; esso viene meno ogni qualvolta determinati rapporti incidano negativamente sull’autonomia di giudizio.

Il principio 3.P.2., poi, introduce un meccanismo di verifica periodica dei requisiti di indipendenza: “L’indipendenza degli Amministratori è periodicamente valutata dal Consiglio di Amministrazione dopo la nomina e, successivamente, con cadenza annuale. L’esito delle valutazioni del consiglio è comunicato al mercato”

(Della Vedova, 2014). Non è, dunque, sufficiente che i requisiti di indipendenza

sussistano al momento della nomina, dovendo l’emittente verificare periodicamente che la situazione non sia mutata. E, alla luce di quanto già detto e del recepimento del principio della prevalenza della sostanza sulla forma, il potere di continua verifica appare particolarmente invasivo, quanto meno se andrà attentamente seguito in base a quanto previsto dal criterio applicativo 3.C.4, secondo cui dopo la nomina di un Amministratore che si qualifica indipendente, il Consiglio di Amministrazione valuta, sulla base delle informazioni fornite dall’interessato o a disposizione dell’emittente, le relazioni che potrebbero essere o apparire tali da compromettere l’autonomia di giudizio di tale Amministratore. Qui l’indipendenza assume una portata esclusivamente sostanziale: è indipendente colui che abbia “autonomia di giudizio”, ossia – pensiamo – non mancanza di condizioni di “dipendenza” ma positiva e concreta attitudine e capacità di decidere senza subire neppure le più sotterranee influenze. Dopo aver definito in generale cosa significhi “indipendenza”, il Codice elenca una serie di circostanze che,

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normalmente, minano l’indipendenza dell’Amministratore, precisando però che tali ipotesi non sono tassative e che, in ogni caso, va effettuata una valutazione basata più sulla sostanza che non sulla forma (Della Vedova, 2014)

Il criterio applicativo 3.C.1 stabilisce che il Consiglio di Amministrazione valuta l’indipendenza dei propri componenti non esecutivi avendo riguardo più alla sostanza che alla forma e tenendo presente che un Amministratore non appare, di norma, indipendente nelle seguenti ipotesi, da considerarsi come non tassative:

a) se, direttamente o indirettamente, anche attraverso società controllate, fiduciari o interposta persona, controlla l’emittente o è in grado di esercitare su di esso un’influenza notevole, o partecipa a un patto parasociale attraverso il quale uno o più soggetti possano esercitare il controllo o un’influenza notevole sull’emittente;

b) se è, o è stato nei precedenti tre esercizi, un esponente di rilievo dell’emittente, di una sua controllata avente rilevanza strategica o di una società sottoposta a comune controllo con l’emittente, ovvero di una società o di un ente che, anche insieme con altri attraverso un patto parasociale, controlla l’emittente o è in grado di esercitare sullo stesso un’influenza notevole; c) se, direttamente o indirettamente (ad esempio attraverso società controllate o delle quali sia esponente di rilievo, ovvero in qualità di partner di uno studio professionale o di una società di consulenza), ha, o ha avuto nell’esercizio precedente, una significativa relazione commerciale, finanziaria o professionale: - con l’emittente, una sua controllata, o con alcuno dei relativi esponenti di rilievo; - con un soggetto che, anche insieme con altri attraverso un patto parasociale, controlla l’emittente, ovvero – trattandosi di società o ente – con i relativi esponenti di rilievo; ovvero è, o è stato nei precedenti tre esercizi, lavoratore dipendente di uno dei predetti soggetti;

d) se riceve, o ha ricevuto nei precedenti tre esercizi, dall’emittente o da una società controllata o controllante una significativa remunerazione aggiuntiva (rispetto all’emolumento “fisso” di Amministratore non esecutivo dell’emittente, ivi inclusa e al compenso per la partecipazione ai comitati raccomandati dal

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presente Codice) anche sotto forma di partecipazione a piani di incentivazione legati alla performance aziendale, anche a base azionaria;

e) se è stato Amministratore dell’emittente per più di nove anni negli ultimi dodici anni;

f) se riveste la carica di Amministratore Esecutivo in un’altra società nella quale un Amministratore Esecutivo dell’emittente abbia un incarico di Amministratore;

g) se è socio o Amministratore di una società o di un’entità appartenente alla rete della società incaricata della revisione contabile legale dell’emittente;

h) se è uno stretto familiare di una persona che si trovi in una delle situazioni di cui ai precedenti punti”.

Un altro criterio applicativo importante riguarda il numero degli Amministratori Indipendenti; il Codice stabilisce un numero minimo ovverosia la nomina di almeno due Amministratori Indipendenti – per le società emittenti, con l’eccezione di quelle appartenenti all’indice FTSE-Mib, per le quali è previsto che almeno un terzo dei consiglieri sia indipendente (Della Vedova, 2014)

.

Tutti gli articoli del Codice di Autodisciplina contengono, dopo i principi e i criteri applicativi, anche i commenti alle disposizioni, che fungono da vere e proprie linee-guida nell’applicazione dei principi stessi. Il commento all’art. 3 fornisce criteri fondamentali per la valutazione in concreto della sussistenza di requisiti di indipendenza in capo ai singoli Amministratori; ma esso fornisce, altresì, una spiegazione circa il ruolo degli Amministratori Indipendenti che l’interprete non ritrova in alcuna norma di legge o di fonte regolamentare, limitandosi queste a fornire una nozione di indipendenza “in negativo”, ovvero che si ricava dall’insussistenza di determinate situazioni soggettive (Della Vedova, 2014). Il commento in esame, infatti, esordisce affermando che: “L’indipendenza di giudizio è un atteggiamento richiesto a tutti gli Amministratori, esecutivi e non esecutivi: l’Amministratore consapevole dei doveri e dei diritti connessi alla propria carica opera sempre con indipendenza di giudizio. In particolare, gli Amministratori non esecutivi, non essendo coinvolti in prima persona nella gestione operativa dell’emittente, possono fornire un giudizio autonomo e non

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condizionato sulle proposte di deliberazione”. Il commento cerca di analizzare quali siano gli interessi che entrano in gioco negli equilibri interni al Consiglio di Amministrazione, perché ad esempio negli emittenti con azionariato diffuso l’aspetto più delicato consiste nell’allineamento degli interessi degli Amministratori Esecutivi con quelli degli azionisti. In tali emittenti, quindi, prevale un’esigenza di autonomia nei confronti degli Amministratori Esecutivi. Negli emittenti con proprietà concentrata, o dove sia comunque identificabile un gruppo di controllo, pur continuando a sussistere la problematica dell’allineamento degli interessi degli Amministratori Esecutivi con quelli degli azionisti, emerge altresì l’esigenza che alcuni Amministratori siano indipendenti anche dagli azionisti di controllo o comunque in grado di esercitare un’influenza notevole. La qualificazione dell’Amministratore non esecutivo come indipendente non esprime un giudizio di valore, bensì indica una situazione di fatto: l’assenza, come recita il principio, di relazioni con l’emittente, o con soggetti ad esso legati, tali da condizionare attualmente, per la loro importanza da valutarsi in relazione al singolo soggetto, l’autonomia di giudizio e il libero apprezzamento dell’operato del management. Il commento chiarisce, poi, come gli Amministratori Indipendenti non siano necessariamente espressione degli azionisti di minoranza, essendo piuttosto un presidio a tutela di tutti gli azionisti: “il Comitato ritiene che la presenza in consiglio di Amministratori qualificabili come indipendenti sia la soluzione più idonea per garantire la composizione degli interessi di tutti gli azionisti, sia di maggioranza, sia di minoranza. In tal senso, nel corretto esercizio dei diritti di nomina degli Amministratori, è possibile che gli Amministratori Indipendenti vengano proposti dagli stessi azionisti di controllo. D’altra parte, la circostanza che un Amministratore sia espresso da uno o più azionisti di minoranza non implica, di per sé, un giudizio di indipendenza di tale Amministratore: questa caratteristica va verificata in concreto, secondo i principi e i criteri sopra delineati”

(Della Vedova, 2014).

In ultima analisi volendo fare un confronto tra la nozione di indipendenza secondo il Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana S.p.A. e la nozione secondo le regole del NYSE, del Nasdaq e del UK Corporate Governance Code ovverosia

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i codici rispettivamente americano e inglese, non abbiamo grandi differenze; c’è una certa sintonia nelle definizioni.

Il principio stabilito dal Codice di Autodisciplina per cui sono considerati indipendenti coloro che “non intrattengono, né hanno di recente intrattenuto, neppure indirettamente, con l’emittente o con soggetti legati all’emittente, relazioni tali da condizionarne attualmente l’autonomia di giudizio” ricalca, infatti, la previsione contenuta nella Nasdaq Marketplace Rule 4200161 secondo cui è indipendente l’Amministratore che non intrattiene con la società alcun rapporto che potrebbe interferire con un suo giudizio indipendente in qualità di Amministratore. Né la definizione data dal Codice di Autodisciplina differisce molto da quella prevista nella Section 303A.02 del NYSE Listed Company Manual, secondo cui è indipendente l’Amministratore che non intrattenga alcun rapporto determinante (material relationship) con la società (Della Vedova, 2014).

Sia le regole statunitensi, sia il codice di comportamento britannico, sono strutturati come il Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana S.p.A.: il principio generale è quello per cui indipendenza significa autonomia di giudizio e assenza di legami tali da comprometterla; accanto a tale principio generale, poi, sono elencate ipotesi in cui l’indipendenza sembra essere compromessa, con la precisazione che le ipotesi elencate non sono né tassative né esaustive e che è compito del Consiglio di Amministrazione, quindi, valutare caso per caso la sussistenza del requisito di indipendenza, ovvero l’inesistenza di legami tali da pregiudicare l’indipendenza di giudizio dell’Amministratore.

In definitiva si può affermare come nell’approccio e nella costruzione delle regole Borsa Italiana si sia ispirata in larga parte a quanto previsto nei Paesi di common law in cui la figura degli Amministratori Indipendenti è nata e si è sviluppata. Nella Tabella 1, si confrontano evidenziando le differenze esistenti tra Stati Uniti, UK e Italia, riguardo al concetto di Indipendenza e alle soglie minime richieste:

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Tabella 1- Principali differenze tra USA, UK, ed Italia nell’introduzione della

figura dell’AI.

Stai Uniti Regno Unito Italia

Principio di Indipendenza

Colui che “non intrattiene con la società alcun rapporto che potrebbe interferire

con un suo giudizio indipendente in qualità

di Amministratore”.

Colui che “non intrattenga alcun rapporto determinante (material relationship)

con la società”. Hanno funzioni in tema

di remunerazione del management e di controllo interno.

Colui che “non intrattengono, né hanno

di recente intrattenuto, neppure indirettamente,

con l’emittente o con soggetti legati all’emittente, relazioni tali da condizionarne attualmente l’autonomia di giudizio”. Soglie minime richieste

Il Sarbanes Oxley Act 2002 impone a livello legislativo un audit committee composto interamente da ID. Le regole di listingdi NYSE NASDAQ, AMEX richiedono Board composti in maggioranza da ID e comitati audit, nomine

e remunerazioni composti interamente da ID. La revisione del 2012 dello UK Corporate Governance Code raccomanda per: Emittenti FTSE-350: indipendenti almeno la

metà del Consiglio, escluso il Presidente. Altre società: almeno

due.

L’art. 147-ter TUF richiede che almeno 1 amministratore (o 2 se il CdAè formato da più

di 7 componenti) possieda i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’art.

148 TUF (e gli eventuali ulteriori requisiti previsti da codici di autodisciplina, solo se recepiti in statuto). Il Codice di Autodisciplina impone

alle società del FTSE MIB di avere un CdA formato per almeno 1/3

da ID.Per tutte le società quotate, il numero degli indipendenti deve essere, in ogni caso,

non inferiore a 2.

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28 La figura del Lead Independent Director

Il ruolo degli Amministratori Indipendenti viene esaltato da due innovazioni relativamente recenti della Corporate Governance americana, che hanno trovato anche da noi le prime applicazioni. La prima è rappresentata dalle riunioni degli Amministratori non-esecutivi in executive sessions, vale a dire in sessioni di lavoro del consiglio alle quali non partecipano gli Amministratori Esecutivi. Queste sessioni si occupano di materie sulle quali gli esecutivi si trovano in conflitto, come la valutazione del management effettuata annualmente dal consiglio.

La seconda innovazione è costituita dal Lead Indipendet Director (LID), che tra l’altro presiede le executive sessions del consiglio, tanto da essere anche definito come presiding director. Questa figura si spiega ricordando che negli USA non è richiesta (come, invece, nel Regno Unito) una separazione di cariche tra presidente del Consiglio di Amministrazione e Amministratore delegato: il CEO è in genere anche Chairman (presidente del Consiglio di Amministrazione).

Questa situazione è stata ritenuta rischiosa in quanto l’eccessiva concentrazione di potere in un solo individuo può favorire comportamenti opportunistici a danno degli azionisti e dei soci di minoranza. Per ovviare agli inconvenienti che un tale cumulo di cariche presenta, i consigli individuano e designano un LID. Il Lead Independent Director rappresenta un punto di riferimento e di coordinamento delle istanze e dei contributi degli Amministratori non esecutivi e, in particolare, di quelli che sono indipendenti ai sensi dell’articolo 3 del Codice di Autodisciplina (Ferrarini, 2011).

Il LID è tipicamente un Amministratore Indipendente, anche perché la stragrande maggioranza dei membri non-esecutivi dei consigli americani è formata da indipendenti. In casi recenti (che hanno riguardato società primarie come AIG e Morgan Stanley), la funzione del LID ha avuto uno speciale rilievo nella risoluzione di crisi aziendali, che sono culminate nella sostituzione del CEO. Anche nel Regno Unito le migliori pratiche raccomandano le riunioni del consiglio in executive sessions, ma queste sono presiedute dal Chairman che è persona diversa dal CEO e non ha poteri esecutivi. E’ previsto anche un senior independent

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director, con funzioni peraltro più limitate dell’omologo statunitense. Questo Amministratore senior tiene i rapporti degli indipendenti con i soci, che nel Regno Unito sono soprattutto investitori istituzionali, alcuni dei quali attivi nel governo societario. Inoltre, questo Amministratore conduce il processo di valutazione del Chairman e di nomina del nuovo Chairman, quando si tratti di sostituirlo. In situazioni di crisi aziendale, il ruolo del senior independent director è stato rilevante (Ferrarini, 2011).

Simili pratiche cominciano ad essere seguite anche in Italia ed il nuovo Codice dovrebbe recepirle. Per le executive sessions, si pone la scelta tra riunioni dell’intero consiglio, senza gli Amministratori Esecutivi, e riunioni dei soli indipendenti. E’ difficile scegliere a priori. Se si guarda al modello d’origine, negli USA le sessioni esecutive sono riunioni del consiglio cui gli Amministratori Esecutivi non partecipano; in pratica, sono riunioni di indipendenti, visto che questi compongono la stragrande maggioranza dei consigli.

In Italia, solo alcune società hanno una maggioranza di indipendenti in consiglio: per esse, le sessioni esecutive possono riguardare i soli indipendenti, per consentire agli stessi di discutere in piena libertà, senza essere condizionati dalla presenza di Amministratori Non-Esecutivi troppo “vicini” al socio di controllo o di riferimento. Quando, invece, gli indipendenti siano in minoranza, le sessioni esecutive riguarderanno l’intero consiglio (tolti gli esecutivi), salva l’opportunità per gli indipendenti di incontrarsi periodicamente in separate riunioni. Dal punto di vista del Codice, la soluzione migliore è quella di lasciare alle società di scegliere le forme e i modi delle sessioni esecutive/riunioni di indipendenti.

Anche la presidenza di queste riunioni dipende dalla struttura di governance delle singole società. Si faccia il caso di una società dove uno dei soci di controllo (o di riferimento) sia anche presidente esecutivo del consiglio. Le sessioni esecutive (o le riunioni di indipendenti che ne tengano il luogo) potranno essere presiedute da un Lead Director nominato tra gli indipendenti. Si immagini, invece, il caso di una società che abbia al vertice un presidente né esecutivo, né socio di controllo, ed un Amministratore delegato. Le sessioni esecutive del consiglio saranno presiedute dal presidente del Consiglio di Amministrazione. Se però la

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società avesse una maggioranza di indipendenti in consiglio e questi tenessero loro riunioni (eventualmente con funzione di executive session, ad es. per la valutazione dei esecutivi), le stesse dovrebbero essere presiedute da un Lead Independent Director (Ferrarini, 2011).

Le riunioni di soli indipendenti che facoltativamente possono essere convocate autonomamente dal LID o su richiesta di altri consiglieri, generalmente servono per la discussione dei temi giudicati di interesse rispetto al funzionamento del Consiglio di Amministrazione o alla gestione sociale. Nell’esperienza maturata sino ad oggi, in Italia, tali riunioni hanno avuto, tra l’altro, ad oggetto operazioni di natura straordinaria (ad es. fusioni) che gli interessati hanno ritenuto di approfondire e discutere, con l’assistenza di managers della società e di consulenti esterni, in vista delle riunioni consiliari nelle quali le operazioni medesime erano oggetto di delibera. Per questa via, le riunioni di indipendenti sono, ad un tempo, occasioni di approfondimento per i partecipanti e mezzo istruttorio per i lavori consiliari che seguiranno.

Le funzioni del Lead Director possono esplicarsi anche su altri fronti, sempre avendo presente che questa non è una carica sociale, alla quale si accompagnino poteri in concorrenza con quelli dei vertici della società. In particolare, questa figura potrà costituire un elemento di raccordo tra il presidente del Consiglio di Amministrazione e gli Amministratori Indipendenti, al fine del miglior funzionamento dei lavori consiliari (ad es. attraverso un incremento dell’informativa destinata al consiglio ovvero l’organizzazione di incontri con il management per l’approfondimento di specifici argomenti gestionali). Nello stesso tempo, il Lead Director potrà rappresentare gli indipendenti nei rapporti con gli azionisti (come previsto dalla prassi inglese sopra citata) ed assicurare che le istanze di questi possano essere esaminate e discusse nelle sedi opportune. In un sistema a proprietà concentrata, come il nostro, il Lead Director potrà rappresentare un punto di riferimento delle minoranza azionarie e, soprattutto, degli investitori istituzionali (senza, per questo, sostituire i vertici della società nei rapporti con gli azionisti) (Ferrarini, 2011).

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