• Non ci sono risultati.

Restano poi alcune testimonianze sparse, che sono sì da inserire tra quelle relative a opere messe in scena, ma meno facilmente collocabili all’interno di un gruppo omogeneo. Nell’Orator ad esempio viene citato un verso del Thyestes di Ennio come prova a sostegno del fatto che alcuni versi, se privati del canto (in questo caso della musica del flautista), sembrino prosa. Pare dunque qui più che probabile che ci fossero occasioni concrete in cui versi del genere, e questo specifico portato ad esempio, venissero recitati.

Orator 184

Quorum similia sunt quaedam etiam apud nostros, velut illa in ‘Thyeste’: “quemnam te esse dicam? qui tarda in senectute”

et quae secuntur; quae, nisi cum tibicen accessit, orationis sunt solutae simillima. At comicorum senarii propter similitudinem sermonis sic saepe sunt abiecti, ut nonnunquam vix in eis numerus et versus intellegi possit.

Ce ne sono alcuni simili a questi anche tra i nostri, come quelli nel Tieste:

“quemnam te esse dicam? qui tarda in senecta”112

e ciò che segue; ché, se non quando si aggiunge il flautista, somiglia moltissimo alla prosa. D’altra parte i senari giambici dei poeti comici, a causa della somiglianza col discorso in prosa, sono spesso così trascurati che talvolta si riesce a stento a rendersi conto in essi del ritmo e del verso.

In relazione a un’altra tragedia enniana, l’Andromacha aechmalotis, si trovano in Cicerone due considerazioni analoghe. Nel passo che abbiamo appena visto il riferimento al flautista è qualcosa di molto più concreto rispetto a ciò che presenteremo ora; tuttavia, si tratta di riferimenti legati a una tragedia che abbiamo avuto modo di incontrare più e più volte: se è vero che i due passi delle Tusculanae che stiamo per analizzare non potrebbero costituire una prova di per sé, considerati insieme alle altre testimonianze possono comunque fornirci elementi in più.

112 Ennio, TRF 298 (Thyestes, fr. 4). Trattandosi di un discorso di ritmo, si è preferito lasciare il verso in

55 Tusculanae disputationes

I.85

Hic si vivis filiis incolumi regno occidisset, “...astante ope barbarica

Tectis caelatis, laqueatis”,

utrum tandem a bonis an a malis discessisset? Tum profecto videretur a bonis. At certe ei melius evenisset nec tam flebiliter illa canerentur:

“Haec omnia vidi inflammari, Priamo vi vitam evitari, Iovis aram sanguine turpari.”

Se egli [Priamo] fosse morto quando i figli erano vivi e il suo regno incolume, “… quando ancora si reggeva la potenza straniera,

con i soffitti cesellati a cassettoni”113,

si sarebbe infine allontanato dai beni o dai mali? In quel momento di certo dai beni, sembrerebbe. Ma senza dubbio per lui sarebbe stato meglio, e non si canterebbero tanto tristemente quei versi:

“ho visto tutte queste cose incendiate, a Priamo la vita con violenza tolta, l’ara di Giove di sangue sporcata”114

In questa prima testimonianza riferita all’Andromacha enniana, l’espressione che potrebbe rivestire per noi una certa importanza è il tam flebiliter. Come ha sottolineato Aricò,115 sebbene in questo passo non ci sia alcuna menzione esplicita a una messa in scena, il riferimento alla mestizia con cui questi versi sarebbero recitati può difficilmente spiegarsi con una semplice lettura ad alta voce. Sembra invece essere un indizio del fatto che Cicerone pensi qui proprio alla recitazione di tale passo.

Di un tenore non molto diverso è l’altra testimonianza che affronteremo, tratta sempre dalle Tusculanae. Immediatamente prima della sezione qui riportata viene anche citata una sezione del Thyestes enniano.

Tusculanae disputationes III.44-46

Ecce tibi ex altera parte ab eodem poëta:

“Ex opibus summis opis egens, Hector, tuae.” Huic subvenire debemus; quaerit enim auxilium:

113

Ennio, TRF 83-84 (Andromacha aechmalotis, fr. 9).

114 Ennio, TRF 86-88 (Andromacha aechmalotis, fr. 9).

115

ARICÒ 2020[cds]. Intervento al convegno “Centro e periferie. Andare a teatro a Roma nel I secolo a.C.”, tenutosi all’Università Cattolica di Milano l’8 Novembre 2019. Gli Atti del convegno sono ancora in fase di pubblicazione.

56

“Quid petam praesidi aut exsequar, quove nunc Auxilio exsili aut fuga freta sim?

Arce et urbe orba sum. Quo accidam? quo applicem?

Cui nec arae patriae domi stant, fractae et disiectae iacent, Fana flamma deflagrata, tosti alti stant parietes,

Deformati atque abiete crispa...” Scitis quae sequantur et illa in primis: “O pater, o patria, o Priami domus, Saeptum altisono cardine templum, Vidi ego te, astante ope barbarica, Tectis caelatis, laqueatis,

Auro, ebore instructam regifice.”

O poëtam egregium! quamquam ab his cantoribus Euphorionis contemnitur. Sentit omnia repentina et necopinata esse graviora. Exaggeratis igitur regiis opibus, quae videbantur sempiternae fore, quid adiungit?

“Haec omnia vidi inflammari, Priamo vi vitam evitari, Iovis aram sanguine turpari.”

Praeclarum carmen! Est enim et rebus et verbis et modis lugubre.

Eccoti da un altro ruolo sulla scena dal medesimo poeta: “dal sommo potere priva, o Ettore, della tua forza”116 Dobbiamo soccorrerla, chiede aiuto:

“Che protezione dovrei chiedere o cercare, o in quale aiuto dall’esilio o dalla fuga ora devo confi dare?

Della rocca e della città sono priva. Dove devo cadere? Dove devo rivolgermi?

In patria gli altari dei padri non sono più in piedi, giacciono infranti e abbattuti,

i templi distrutti dalle fiamme, bruciate si ergono alte le pareti deturpate e con la trave di abete ritorta…”117

Conoscete ciò che segue, e soprattutto questo: “o padre, o patria, o casa di Priamo, sede protetta da un cardine altisonante!

Io ti vidi, quando la potenza asiatica sovrastava, con i soffitti cesellati, ornati a cassettoni, ricca d’oro e d’avorio regalmente”

O eccellente poeta! per quanto sia disprezzato da questi cantori di Euforione. Capisce che tutte le cose improvvise e inaspettate sono più gravi. Quindi, dopo aver ingrandito la potenza regale che sembrava essere eterna, cosa aggiunge? “ho visto tutte queste cose incendiate,

a Priamo la vita con violenza tolta, l’ara di Giove di sangue sporcata”

116 Ennio, TRF 89 (Andromacha aechmalotis, fr. 10).

57

Bellissima poesia! È triste sia per gli eventi, sia per le parole, sia per i ritmi.

Si è deciso di riportare qui il passo completo, contenente tutte le citazioni dall’Andromacha; tuttavia a destare il nostro interesse è quasi unicamente l’ultima frase. Oltre infatti allo scitis quae sequantur, che presuppone una conoscenza di questi versi, che dovevano essere piuttosto famosi e vengono citati da Cicerone in più occasioni, ciò su cui anche Aricò118 fa leva è la dichiarazione di Cicerone secondo cui questi versi riescano ad esprimere il lutto sia nel contenuto e quindi negli eventi che narrano, sia nelle parole, sia nei ritmi (et rebus et verbis et modis). Un’affermazione del genere, specialmente la parte relativa ai ritmi, si giustifica come un commento a un testo recitato più che a un testo scritto. Sembra far riferimento quindi alla performance teatrale, sede in cui il testo si fa dramma ed esplica a pieno le sue possibilità.

Conclusa questa breve sezione di testimonianze legate all’Andromacha, analizziamo ora un altro passo in cui viene introdotto invece un confronto col passato.119 È tratto dal De legibus (52/51 a.C.), da una sezione del dialogo in cui a parlare è Cicerone, dopo uno scambio di battute con Attico. L’argomento in questione, dopo i culti notturni e i riti di iniziazione in Grecia e a Roma, riguarda la connessione tra gli stili e i ritmi musicali utilizzati negli spettacoli da una parte e i costumi morali dei cittadini dall’altra.

118

ARICÒ 2020[cds]. Vedi p. 55, n. 115.

119

Relativamente ai confronti col passato, cfr. anche Fam. IX.16.7 (190). Nunc venio ad iocationes tuas,

quoniam tu secundum ‘Oenomaum’ Acci non, ut olim solebat, Atellanam sed, ut nunc fit, mimum introduxisti.

Qui Cicerone doveva far riferimento a ciò che aveva scritto a sua volta Peto nella lettera, che dopo aver citato l’Oenomaus di Accio doveva aver menzionato qualcosa tratto da un mimo. E lo aveva fatto,

ironizza probabilmente Cicerone, proprio secondo il costume vigente. In CAVARZERE 2007, p. 914, n. 143

(ma precedentemente anche in BERNARDI PERINI 1989, p. 142) si legge che “in questa affermazione di Cicerone va colta non solo la constatazione della decadenza dell’atellana, ormai sostituita dal mimo in funzione di exodium, ma anche un preciso giudizio estetico, che contrappone al rozzo provincialismo dell’atellana osca una forma teatrale più moderna e raffinata, quale allora doveva apparire il mimo”. Ma GARBARINO 2004, p. 69, n. 22: “in realtà nel testo non sono espressi giudizi di valore”.

Ci pare qui che, se si può intravedere un giudizio di valore, questo vada ricercato in realtà più nella scelta di Peto che nella semplice affermazione di Cicerone. Peto cioè, scegliendo di menzionare un mimo e non un’atellana, doveva probabilmente riflettere il gusto del tempo (nunc), in cui si stava affermando l’abitudine di mettere in scena mimi e non più atellane dopo le tragedie.

58

In Grecia, dice Cicerone, i costumi mutarono e si rammollirono insieme alla musica: o i mores dei cittadini furono corrotti dalla sdolcinatezza e dall’involuzione dei toni musicali, o il loro rigore si smorzò a causa di altri vizi e i cambiamenti musicali trovarono posto nelle loro orecchie e nei loro animi già cambiati. La connessione tra musica e leggi è fondamentale per Platone: egli ritiene che non esista un mutamento nelle leggi della musica senza che ne derivi un conseguente mutamento nelle leggi dello Stato.120 Cicerone ritiene che un così grave timore sia infondato, ma non sia nemmeno da sottovalutare eccessivamente. Ad ogni modo, anche a Roma si notano cambiamenti nei ritmi musicali dei drammi teatrali.

De legibus II.39

illud quidem video121, quae solebant quondam conpleri severitate iucunda Livianis et Naevianis modis, nunc ut eadem exultent et cervices oculosque pariter cum modorum flexionibus torqueant.

Certamente vedo come quei teatri, che un tempo di solito si riempivano per il gradevole rigore dei ritmi liviani e neviani, adesso si esaltino e girino teste ed occhi insieme alle modulazioni dei ritmi.

Cicerone afferma dunque che un tempo (quondam) i teatri si riempivano per ascoltare i ritmi di Livio e Nevio, diversamente da ciò che accade nel periodo a lui contemporaneo (nunc). Questo passo potrebbe condurre a una conclusione più estrema o a una più moderata. La prima ci porterebbe a prendere atto che i drammi di Livio Andronico e quelli di Nevio non fossero più rappresentati al tempo di Cicerone. La seconda terrebbe in considerazione invece l’idea che sicuramente erano comparse novità (cosa che già sappiamo abbondantemente, si pensi ad esempio alla sempre maggiore presenza del genere del mimo tra tutti) e che alcuni autori più antichi erano rappresentati meno, senza affermare con certezza l’assoluta scomparsa dei drammi liviani e neviani dalla scena teatrale del I secolo a.C. Non sembrerebbe il caso, a partire solo da una testimonianza del genere, di trarre perentoriamente la prima conclusione; il quondam di Cicerone non è detto, per altro, che si riferisca a periodi lontani: secondo Barchiesi, “l’allusione alla iucunda severitas propria delle fabulae di Livio e di Nevio, in

120 Cfr. Plat. Rep. 424c.

59

ciò che riguardava la musica e il gioco mimico degli esecutori, sembra indicare un’esperienza diretta di spettatore”;122 quindi Cicerone stesso poteva forse aver visto in scena tali drammi. In Cicerone sono poi presenti altri passi in riferimento a Livio Andronico e a Nevio (più al secondo che al primo, a dir la verità), analizzando i quali è possibile ampliare la visione d’insieme.

Sono nove i passi che possiamo considerare nel ricercare altre allusioni a Nevio e ai suoi drammi teatrali. Due di questi non sembrano venirci particolarmente in aiuto (De orat. III.45; Rep. IV.11): in questi Nevio viene preso in considerazione per il linguaggio arcaico o viene accostato ipoteticamente ad autori greci. Altri tre, invece, più interessanti sotto l’aspetto da noi preso in considerazione, sono accomunati da una stessa citazione. Si tratta di un verso riconducibile all’Hector proficisciens di Nevio, in cui a parlare è proprio Ettore, come Cicerone specifica in tutti e tre i casi.

Il primo passo è tratto dalle Epistulae ad familiares, nello specifico da una lettera scritta a Cuma nell’aprile del 55 a.C. e indirizzata a Lucio Lucceio, in cui Cicerone esprime la sua speranza di essere lodato nelle opere di Lucceio, appunto. Ma l’elogio, come ci insegna anche l’Ettore di Nevio, è sì importante in sé, ma lo è tanto più quanto più proviene da un uomo a sua volta degno di lodi.123 E dunque Cicerone, con l’intento di adulare il proprio destinatario, prende in prestito un verso di Nevio.

Epistulae ad familiares V.12.7 (22)

[a Lucio Lucceio, Cuma, circa il 12 aprile 55]

placet enim Hector ille mihi Naevianus, qui non tantum “laudari” se laetatur sed addit etiam “a laudato viro.”

Mi piace infatti l’Ettore di Nevio, che non si rallegra di “essere lodato”, ma aggiunge anche “da un uomo lodato a sua volta”124.

122

BARCHIESI 1962, p. 28, n. 102.

123

Cfr. ARICÒ 2004, p. 15. “Sulla bocca di Ettore - un eroe del mito greco - Nevio pone concetti tipicamente romani: la pietas verso la famiglia e la patria, la devozione nei confronti del padre e l’ambizione di una gloria che deriva dal servizio reso allo Stato. Questa dimensione romana non può che piacere all’Arpinate [...]”.

60

Il secondo passo è l’incipit di una lettera a Marco Catone, scritta a Tarso nel luglio del 50 a.C. Il pretesto è più o meno simile: Cicerone in questo caso non sta sperando in elogi, ma sta ringraziando per ciò che il suo destinatario deve aver detto precedentemente su di lui.

Epistulae ad familiares XV.6.1 (112)

[a Marco Catone, Tarso, seconda metà di luglio 50]

“Laetus sum laudari me” inquit Hector, opinor, apud Naevium “abs te, pater, a laudato viro.”

“Sono contento di essere lodato” dice Ettore, mi pare, in Nevio “da te, padre, un uomo a sua volta lodato.”

Infine, l’ultimo passo in cui è presente tale citazione è tratto dalle Tusculanae

disputationes; a livello temporale, siamo quindi nel 45 a.C.

Tusculanae disputationes IV.67

Illud iam supra diximus, contractionem animi recte fieri numquam posse, elationem posse: aliter enim Naevianus ille gaudet Hector:

“Laetus sum laudari me abs te, pater, a laudato viro”

Abbiamo già detto sopra che la contrazione dell’animo non può mai avvenire giustamente, l’elevazione può: in un modo infatti gioisce il famoso Ettore di Nevio: “Sono contento di essere lodato da te, padre, un uomo a sua volta lodato”

L’insistenza sulle date di composizione e di scrittura di tali opere ciceroniane non è casuale. È sempre utile contestualizzare una testimonianza all’interno del periodo storico e della vita dell’autore, in questo caso è ancora più importante in quanto siamo di fronte a tre passi diversi, scritti a distanza di cinque anni l’uno dall’altro (dal 55 al 45 a.C.), che presentano la stessa citazione. I due ultimi passi analizzati (Fam. XV.6.1 e

Tusc. IV.67) presentano la stessa identica citazione, mentre il primo (Fam. V.12.7) solo

parti del verso completo, inserite all’interno della prosa ciceroniana.

Alla luce della domanda originaria, ovvero se dunque Nevio sia da considerare o meno tra gli autori ancora rappresentati in scena al tempo di Cicerone, analizzare

61

testimonianze del genere può essere d’aiuto, anche se, come si capisce già da una semplice prima lettura, non ci forniscono risposte definitive. Cicerone infatti non menziona affatto esplicitamente la possibilità che il pubblico romano del tempo avesse sentito recitare tale verso a teatro. L’unica cosa che fa è citare un verso dell’Hector

proficiscens, e per altro sempre lo stesso e solo quello. Dobbiamo presupporre allora

che egli abbia visto tale dramma messo in scena? Non è affatto da escludere, e questo vale per ogni citazione teatrale che troviamo in Cicerone, che il nostro autore ricorresse a testi scritti di tali opere, che forse circolavano.

Nel conto iniziale relativo alle testimonianze su Nevio avevamo menzionato nove passi; ne restano dunque quattro che non abbiamo ancora preso in considerazione. Tre di questi presentano citazioni di versi: due sono tratte da drammi a noi sconosciuti e vengono riferite da Cicerone nell’Orator (46 a.C) e nella seconda Philippica.

Orator 152

ut Naevius:

“vos, qui accolitis Histrum fluvium atque algidam” et ibidem:

“quam nunquam vobis Grai atque barbari...”

[…] come Nevio:

“vos qui accolitis Histrum fluvium atque algidam”125 o quando disse, nella stessa tragedia:

“quam numquam vobis Grai atque barbari”126

125

Nevio, TRF 62 (inc. fr. 12).

126

Nevio, TRF 12 (inc. fr. 11).

Dal momento che Cicerone in questa sezione sta parlando di iato e dunque di questioni linguistiche, si tende a non tradurre dal latino i versi di Nevio che porta ad esempio. Ad ogni modo, la traduzione sarebbe:

[…] come Nevio:

“voi, che abitate sul fiume Istro e la [regione] fredda” o quando disse, nella stessa tragedia:

62 Philippicae

II.65

In eius igitur viri copias cum se subito ingurgitasset, exsultabat gaudio, persona de mimo, “modo egens, repente dives.” Sed, ut est apud poetam nescio quem, “male parta male dilabuntur”.

Non appena dunque ebbe ingurgitato le ricchezze di quell’uomo, il personaggio da farsa, “poco prima povero, all’improvviso ricco”127, era in preda alla gioia; ma, come dice non so quale poeta128, “ciò che mal si acquista, mal svanisce”.

L’altra citazione è all’interno del Cato maior de senectute (44 a.C.). Essendo un dialogo filosofico che Cicerone ambienta nel 151 a.C., eventuali riferimenti vanno giustamente contestualizzati in relazione al periodo storico; in questo caso però non si parla affatto di una rappresentazione teatrale (per cui sarebbe corretto porsi la domanda relativa al periodo), bensì di una semplice citazione: Cicerone, in qualche modo, doveva conoscere quei versi. Sul titolo dell’opera teatrale a cui attribuire la citazione si sono proposte più soluzioni.129 Che si trattasse però di un dramma scritto da Nevio, ce lo dice Cicerone stesso.

Cato maior de senectute 20

“Cedo qui vestram rem publicam tantam amisistis tam cito?”

sic enim percontantur in Naevi poetae ‘Lupo’. Respondentur et alia et hoc in primis:

“proveniebant oratores novi, stulti adulescentuli.”

“Dite, in che modo perdeste così velocemente il vostro così grande Stato?”130

Così infatti si domanda nel Lupo del poeta Nevio. Si rispondono diverse cose, ma per prima questa:

“Spuntavano nuovi oratori, ragazzini sciocchi.”

127

Forse è una citazione da un mimo, visto che è collocata vicino all’espressione persona de mimo.

128

Nevio, TRF 51 (inc. fr. 1).

129

MARINI 20067, p. 145, n. 78. Sul titolo Ludus, tramandato solo dalla famiglia α dei manoscritti, si è molto dibattuto. Il Ribbeck emenda Ludus in Lupus e sostiene che si tratti di una tragedia sulla vita e l’infanzia di Romolo e Remo. Secondo altri studiosi Ludus è il titolo, traslitterato dal greco, di un’opera teatrale derivata forse dal Ludós di Antifane. Gli studiosi non escludono, però, che con Ludus ci si riferisse in modo generico a una delle tante opere teatrali di Nevio (ludus = spettacolo). Quanto al contenuto dei due versi, si è supposto che Nevio alluda a Scipione Africano, all’epoca giovane pieno di ambizioni e dalla portentosa carriera.

63

L’ultimo passo da inserire tra quelli con riferimenti a Nevio, ma che purtroppo non ci dà un apporto decisivo, lo abbiamo in realtà già analizzato, in una precedente sezione. Si tratta della lettera del 55 a.C. in cui Cicerone raccontava a Marco Mario dei giochi organizzati durante il consolato di Pompeo e si lamentava dell’eccessiva sontuosità (Fam. VII.1.2-4).131 Veniva qui nominato un Equus Troianus. Ma i grammatici attribuivano un dramma con tale nome sia a Livio Andronico sia a Nevio.

A questo punto però, se da una parte non possiamo arrivare a conclusioni certe su Nevio, dall’altra va ricordato che prima di questo excursus esclusivo su Nevio il punto di partenza era stata la testimonianza di Cicerone in cui si parlava proprio di «ritmi liviani e neviani» (Livianis et Naevianis modis). Livio e Nevio, cioè i due autori a cui veniva attribuito un Equus Troianus.

Va fatta però una precisazione: forse è inutile ricordarlo, ma bisogna tenere sempre a mente che lavorare con materiale del genere non permette affermazioni troppo sicure; trattandosi di contenuti di per sé frammentari, non potremo mai escludere, ad esempio in questo caso, che circolasse un altro dramma dal titolo Equus

Troianus, scritto da un terzo autore che non fosse né Nevio né Livio Andronico.

Ma da qualcosa si deve pur partire. Pertanto, se da una parte è vero che non potremo mai escludere che Cicerone nel 55 a.C. si riferisse a un’altra opera con questo

Documenti correlati