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Rappresentazioni teatrali nel I secolo a.C. Uno studio delle testimonianze di Cicerone.

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA E STORIA DELL’ANTICHITÀ

TESI DI LAUREA

Rappresentazioni teatrali nel I secolo a.C.

Uno studio delle testimonianze di Cicerone

CANDIDATA

RELATORE

Lucrezia Angelozzi

Prof. Alessandro Russo

CORRELATORE

Prof. Rolando Ferri

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3

Indice

Introduzione ... 5

Rappresentazioni teatrali al tempo di Cicerone ... 9

1. Allusioni a eventi politici contemporanei durante le rappresentazioni teatrali ... 9

2. Attori e personaggi da loro interpretati ... 24

3. Reazioni del pubblico ... 40

3.1. Competenza del pubblico e relativi interventi ... 50

4. Altre testimonianze ... 54

5. Tirare le somme ... 72

I drammi rappresentati nel I secolo a.C.: altre testimonianze ... 74

1. Livio Andronico e Nevio ... 76

1.1. Equus Troianus ... 76 2. Plauto ... 77 2.1. Pseudolus ... 77 3. Ennio ... 82 3.1. Medea exul ... 82 3.2. Thyestes... 86 3.3. Telamo ... 88

3.4. Andromacha aechmalotis. Un caso particolare: Neottolemo di Ennio (Andromacha?) e Zeto di Pacuvio (Antiopa) a confronto ... 90

4. Pacuvio ... 93 4.1. Antiopa ... 93 4.2. Iliona ... 94 4.3. Chryses ... 97 5. Accio ... 99 5.1. Brutus ... 99 5.2. Atreus ... 101 6. Cecilio Stazio... 104

6.1. Synephebi. Padri ceciliani a confronto (Synephebi, Plocium ed Ephesio) ... 104

Altri drammi messi in scena? Analogie e spunti di riflessione ... 108

Conclusioni ... 134

Appendici ... 139

(4)

4 Tabella A ... 140 Tabella B ... 141 Tabella B1 ... 144 Tabella C ... 145 Tabella D ... 146 Tabella E ... 152

 Appendice per opere ... 153

Riferimenti bibliografici ... 157

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5

Introduzione

Quando si accosta il nome di Cicerone alla parola teatro, le possibilità di associazioni immediate, connessioni e conseguenti analisi sono più che varie. Si può analizzare la teatralità in Cicerone, in particolar modo nelle opere oratorie, nelle quali egli si avvale di vere e proprie tecniche teatrali sia nel gestire il processo in tribunale sia nel descrivere, nel bene e nel male, chi con quella causa ha a che fare; oppure si può pensare al continuo confronto che Cicerone porta avanti in molte sue opere, nello specifico quelle retoriche, tra oratore e attore; è possibile concentrarsi sulle numerosissime citazioni tragiche e con minor frequenza comiche, e interrogarsi sul perché egli decida di inserire versi teatrali in quel determinato contesto, quali siano le tipologie di opere (filosofiche, epistolari...) nelle quali le citazioni si concentrano maggiormente, in quale periodo della sua vita e di volta in volta con quale scopo. E così via. Ma è possibile anche utilizzare una fonte così vasta come Cicerone per provare a ricostruire la vita teatrale del I secolo a.C., servendosi delle sue testimonianze. È proprio quest’ultimo approccio che tale lavoro adotta. Quando si decide di raccogliere tutti i passi di Cicerone che possano essere utili a questo scopo, le possibilità di suddividerli in categorie sono varie. L’attività di catalogazione ha dunque visto come prodotto finale una preliminare ripartizione generale delle testimonianze in quattro macro-categorie:

 riferimenti a vere e proprie messe in scena di testi teatrali

 opere citate tramite titolo o personaggi oppure semplice menzione di autori

 riferimenti ad attori

 citazioni testuali

Queste quattro sezioni sono dunque frutto di una ripartizione dei riferimenti all’interno del corpus ciceroniano, ma non saranno qui trattate tutte nel concreto; come si può intuire l’ordine stesso non è affatto casuale, ma segue un principio di interesse e di utilità. La prima tipologia, infatti, è quella che verrà analizzata nella sua totalità, all’interno del primo capitolo, dal momento che contiene le testimonianze che

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6

più di tutte, nel lavoro che si vuole qui portare avanti, possono darci informazioni; sono le rappresentazioni vere e proprie, descritte direttamente o indirettamente da Cicerone, a fornirci i primi appigli sicuri sui testi che venivano messi in scena, e soprattutto su quelli che venivano ancora messi in scena. In origine infatti, in Grecia come a Roma i drammi erano composti per una singola rappresentazione in occasione di una determinata festa.1 Ma ben presto iniziarono a essere messi in scena spettacoli scritti e rappresentati precedentemente.2 Inizialmente, la replica di spettacoli si verificava solo nel caso in cui venivano ripetute delle feste per ragioni religiose (instaurationes), e dunque quando l’intera festa veniva reiterata; si è avanzata l’ipotesi che si fosse dato il via a tali ripetizioni di feste proprio al fine di rimettere in scena alcuni drammi famosi.3 Ad ogni modo, una prova della messa in scena di opere non solo nuove, ma anche vecchie, è costituita proprio dai prologhi terenziani, che pongono l’accento sulla “novità” dei drammi.4 Questo ci porta a dire che già al tempo di Terenzio non era più affatto scontato che un dramma rappresentato durante una festa a Roma fosse “nuovo” e che c’era una necessità di distinguere tra una nuova rappresentazione e una, potremmo dire, replica di vecchie opere.

E al tempo di Cicerone? Vedremo nel concreto e più nello specifico quali siano le messe in scena di cui abbiamo traccia, ma si può già anticipare che da alcuni passaggi di Cicerone sembra di intendere che, almeno per i drammi più famosi e di successo, le rappresentazioni di opere di epoche precedenti avevano spesso luogo.5

Il primo capitolo tratterà quindi tutte le testimonianze della cosiddetta prima macro-categoria, inserendo di volta in volta altri passi ritenuti utili al discorso svolto; la divisione schematica fornisce infatti unicamente un ausilio: importantissimo quando si ha a che fare con un materiale così vasto come l’intero corpus ciceroniano, ma pur sempre un ausilio schematico. Va da sé la possibilità, per non dire la matematica

1 Cfr. M

ANUWALD 2011, p. 108.

2

Per un’analisi di tale usanza al tempo di Terenzio (e forse di Plauto?) cfr. MANUWALD 2011, pp. 108-110.

3

TAYLOR 1937, p. 295, OWENS 2000, p. 386 e n. 7. Il periodo di riferimento è grosso modo la prima metà del II secolo a.C.; per riferimenti più specifici si rimanda all’articolo di Taylor.

4

Ter. Heaut. 4-7, 28-30; Phorm. 24-26; Hec. 1-7, 56-57; Ad. 12.

5

Fin. V.63: quotiens hoc agitur, ecquandone nisi admirationibus maximis? Si riferisce a una tragedia di

Pacuvio.

De orat. II.193 histrio, cotidie cum ageret. Il riferimento è al Teucer di Pacuvio; è probabile che qui

Cicerone esageri, ma un passo del genere suggerisce comunque che alcuni drammi particolarmente famosi erano rimessi in scena ripetutamente, magari da specifici attori.

(7)

7

certezza, che le quattro macro-categorie si intersechino infatti tra di loro; basti pensare alla sezione relativa agli attori: è più che probabile che nei passi in cui si parla di rappresentazioni concrete vengano nominati anche gli attori in scena. La divisione realizzata è dunque puramente schematica e si rifletterà all’interno dell’appendice, volta a fornire una catalogazione completa. La struttura del discorso cercherà invece di seguire un andamento più scorrevole e privo di sterili ripetizioni.

Dopo aver stilato un elenco delle opere teatrali sulla cui rappresentazione abbiamo attestazioni o allusioni in Cicerone, nel secondo capitolo si affronteranno, sulla base di questo elenco, alcune testimonianze in cui Cicerone allude a tali drammi, li menziona o ne cita versi. Nel più semplice dei casi, si tratterà già di per sé di un confronto incrociato; saranno ulteriori prove della familiarità che il popolo aveva con certi drammi, dei quali avremmo già stabilito la presenza sui palcoscenici del I secolo a.C. Alcuni di questi passi in particolare, però, forniranno anche spunti di riflessione, che si aggiungeranno a quanto già sappiamo sulle rappresentazioni di tali drammi.

La terza e ultima parte di questa tesi cercherà invece di affrontare eventuali riferimenti ad altre opere teatrali, la cui rappresentazione non è affatto attestata in Cicerone, ma che vengono trattate da lui in un modo tale quasi da indurlo a pensarlo; ciò può riguardare ad esempio analogie nella trattazione rispetto alle altre opere sulla cui messa in scena abbiamo notizie, particolari riferimenti a personaggi che presuppongono almeno la conoscenza del dramma di riferimento e così via.

Delle quattro categorie elencate all’inizio, quindi, la prima sarà quella completamente sviscerata; parte della terza, quella degli attori, si inserirà piuttosto organicamente nella trattazione della prima; la seconda e la quarta costituiranno invece di volta in volta bacini importanti per lo sviluppo del discorso. Analizzandole infatti per un attimo, ci si accorge che il secondo gruppo (opere citate tramite titolo o personaggi oppure semplice menzione di autori), per quanto ricco, va maneggiato con attenzione. A parte le pure menzioni di autori, raggruppate per comodità all’interno di questo gruppo e che comunque possono contenere riflessioni interessanti, importanti sono i riferimenti alle opere, citate col titolo, o ancor di più tramite i personaggi. Sicuramente la citazione di drammi ci permette di dare per assodato che quell’opera fosse ancora conosciuta, e la decisione di nominare un personaggio, con l’intenzione di

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8

paragonarlo a qualcuno o per altri motivi, può farci desumere in alcuni casi che quel personaggio fosse ben conosciuto al pubblico di Cicerone. Ma nella maggior parte dei casi non ci permette di affermare con sicurezza che quel dramma fosse davvero portato in scena.

Restano infine le citazioni, più o meno lunghe, di drammi. Va riconosciuto che in molti casi è proprio Cicerone a permetterci di conoscere passi e frammenti di opere; quando si tratta però di pure citazioni, queste non sono di particolare supporto all’interno di questo lavoro, in quanto non consentono di ricostruire la connessione con il concreto panorama teatrale di quel periodo.

Per quanto dunque le varie testimonianze degli ultimi tre gruppi non verranno analizzate una per una, ci è parso comunque importante e necessario ai fini della completezza di tale lavoro riportare tutte le occorrenze nell’appendice finale.6

6 Per una catalogazione delle citazioni teatrali all’interno dell’opera ciceroniana, prezioso resta ancora il

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9

Rappresentazioni teatrali al tempo di Cicerone

Tra le numerose testimonianze ciceroniane raccolte al fine di ricostruire il panorama teatrale del I secolo a.C., la principale sezione da affrontare, nonché la più interessante, è sicuramente quella relativa alle vere e proprie messe in scena di drammi teatrali. In diverse occasioni, infatti, Cicerone fa riferimento a eventi accaduti in teatro, fornendoci informazioni anche sui drammi in quel momento recitati. Per alcuni di questi passi l’interesse di analisi è duplice, in quanto si entra nella sfera della ricezione del pubblico e dell’eventuale attualizzazione (con tutte le cautele necessarie nell’utilizzare questo termine) di opere composte anteriormente al periodo in cui vengono ancora messe in scena. I passi di questo tipo non sono purtroppo moltissimi; si possono tuttavia far rientrare in questa macro-categoria anche le testimonianze in cui Cicerone nomina attori dell’epoca insieme ai personaggi che avevano interpretato a teatro; e altri esempi ancora, che vedremo man mano, e che direttamente o indirettamente ci permettono di tratte alcune conclusioni sui drammi rappresentati in epoca ciceroniana.

1. Allusioni a eventi politici contemporanei durante le rappresentazioni teatrali

Iniziamo ad analizzare proprio quei passi in cui Cicerone riferisce che alcune battute sono state colte dal pubblico come un riferimento all’attualità e a personaggi contemporanei.

È in un’orazione che troviamo un’ampia sezione ricca di testimonianze del genere. Si tratta della Pro Sestio (56 a.C.) e siamo in un punto in cui Cicerone sta parlando del pubblico degli spettacoli teatrali, in parte talvolta corrotto per applaudire, in parte incorrotto. Va qui ricordato che l’ingresso a teatro per i personaggi in vista era un banco di prova non indifferente e assumeva toni fortemente politici. Mostrandosi in pubblico, gli uomini in vista mettevano alla prova la loro popolarità del momento; le reazioni del pubblico e quindi del popolo erano sotto gli occhi di tutti.1 È proprio in

1 Cfr. G

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questa orazione che viene sviluppata un’importante riflessione relativa ai luoghi e ai momenti in cui il popolo può manifestare la propria volontà: le tre occasioni sono date dalle contiones, dai comitia e dai ludi.2 Il teatro è visto come un luogo d’incontro sociale, in cui il comune ritrovarsi delle masse con gli uomini politici può portare a “un’esplosione di consenso o dissenso ancora prima dell’inizio della rappresentazione scenica”.3

In generale, infatti, come mette in risalto Nicolet, la scelta di una rappresentazione piuttosto che di un’altra in determinate circostanze poteva essere una questione molto delicata, in quanto il teatro, più ancora di spettacoli come le corse o i giochi dei gladiatori, si prestava particolarmente a manifestazioni collettive che potevano mettere in serio imbarazzo gli organizzatori. Da una parte la rappresentazione poteva caricarsi di significato politico e scatenare le reazioni della folla, dall’altra il popolo a teatro, incontrando i suoi capi e i suoi magistrati, aveva l’occasione di esprimere il proprio pensiero, senza troppi rischi né conseguenze.4

Tra il maggio e il luglio5 del 57 il senato votò un decreto in favore di Cicerone, che era in esilio a causa della Lex Clodia de capite civis Romani, fatta approvare da Clodio. Ciò che Cicerone descrive in questo passo dell’orazione è proprio la calorosa accoglienza del popolo tributata in teatro ai senatori e al console, in contrasto con grida e maledizioni indirizzate invece a Clodio. Viene specificato che ad essere rappresentata in quel momento6 era la togata Simulans, “Il simulatore”, di Afranio. Un verso di questo dramma fu indirizzato proprio a Clodio: si dice infatti che l’intera compagnia ad alta voce pronunciò questo verso rivolta a lui.

Pro P. Sestio 117-118

At cum ille furibundus incitata illa sua vaecordi mente venisset, vix se populus Romanus tenuit, vix homines odium suum a corpore eius impuro atque infando represserunt; voces quidem et palmarum intentus et maledictorum clamorem

2 Sest. 106. 3 PETRONE 2011, p. 134. 4 NICOLET 1980,p. 459. 5

Per i problemi relativi alla collocazione temporale precisa, cfr. WRIGHT 1931, p. 2, n. 2 e MORETTI 2011,

p. 257 e n. 20.

6

Si trattava o dei Ludi Apollinari, che si tenevano dal 6 al 13 luglio, o di ludi organizzati fra metà maggio e metà giugno, fuori dal normale calendario. In questo caso potrebbe trattarsi di ludi funerari o

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omnes profuderunt. Sed quid ego populi Romani animum virtutemque commemoro, libertatem iam ex diuturna servitute dispicientis, in eo homine, cui tum petenti iam aedilitatem ne histriones quidem coram sedenti pepercerunt? Nam cum ageretur togata ‘Simulans’, ut opinor, caterva tota clarissima concentione in ore impuri hominis imminens contionata est:

“huic, Tite, tua post principia atque exitus vitiosae vitae —!”

Sedebat exanimatus, et is, qui antea cantorum convicio contiones celebrare suas solebat, cantorum ipsorum vocibus eiciebatur.

Ma quando giunse quel pazzo di Clodio, con quella sua indole pazza da esaltato, a stento il popolo romano si frenò, a stento gli uomini trattennero il loro odio dal suo corpo spregevole e abominevole; si levarono però voci, mani protese, grida di maledizioni. Ma perché io ricordo il coraggio e il valore del popolo romano, che dopo una lunga schiavitù già cominciava a vedere la libertà, nei confronti di quell’uomo che, candidato a quel tempo all’edilità, neanche gli attori risparmiarono, mentre lui era seduto lì davanti?

Mentre infatti veniva rappresentata la commedia romana Il simulatore, credo, l’intera compagnia, insieme ad alta voce, pronunciò queste parole verso la faccia di quell’uomo spregevole:

“A costui, Tito, dopo i tuoi inizi e gli esiti della tua vita viziosa…!”7 Sedeva sbigottito e lui, che prima era solito celebrare i suoi discorsi pubblici con le grida di attori, proprio dalle voci degli attori veniva cacciato.

Ma di non minore interesse è ciò che Cicerone afferma subito dopo:

Pro P. Sestio 118

Et quoniam facta mentio est ludorum, ne illud quidem praetermittam, in magna varietate sententiarum numquam ullum fuisse locum, in quo aliquid a poeta dictum cadere in tempus nostrum videretur, quod aut populum universum fugeret aut non exprimeret ipse actor.

E poiché è stata fatta menzione degli spettacoli teatrali, non trascurerò nemmeno che, nella grande varietà di pensieri, non ci fu mai un passo, in cui qualcosa detto dal poeta sembrasse adattarsi al nostro tempo, che sfuggisse a tutto il popolo o che l’attore stesso non mettesse in risalto.

Tra queste ultime righe sembra infatti di intravedere ciò a cui si accennava all’inizio: la ricezione del pubblico è filtrata dal periodo storico in cui essi vivono e dalle vicende politiche loro contemporanee. Il pubblico, dopo decine e decine di anni dalla

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composizione di certe opere teatrali, è ancora in agguato del minimo accostamento, della minima allusione, naturalmente fortuita, che questi testi ormai “classici” possono fare alla realtà contemporanea, e ne sottolinea con forza l’attualizzazione.8

E inoltre, sono gli attori stessi, qualora certi versi sembrino adattarsi al loro tempo, a metterli in risalto in tale direzione. Entra qui in gioco anche la funzione, potremmo dire, di sententiae di alcuni versi, e dunque la loro funzione proverbiale. “L’espressione cadere in tempus nostrum rimanda proprio a quella disponibilità di rimpiego e a quella capacità di riadattamento a situazioni particolari che Aristotele considerava la caratteristica più propria della γνώμη”.9

Ma altri esempi ci vengono forniti nella stessa orazione, qualche paragrafo dopo.

Pro P. Sestio 120-123

Quid fuit illud, quod recenti nuntio de illo senatus consulto, quod factum est in templo Virtutis, ad ludos scaenamque perlato, consessu maximo summus artifex et mehercule semper partium in re publica tam quam in scaena optimarum, flens et recenti laetitia et mixto dolore ac desiderio mei, egit apud populum Romanum multo gravioribus verbis meam causam, quam egomet de me agere potuissem? Summi enim poetae ingenium non solum arte sua, sed etiam dolore exprimebat. Qua enim vi:

“qui rem publicam certo animo adiuverit, statuerit, steterit cum Achivis—”

vobiscum me stetisse dicebat, vestros ordines demonstrabat! revocabatur ab universis.

“re dubia

haut dubitarit vitam offerre nec capiti pepercerit”.

Haec quantis ab illo clamoribus agebantur! Cum iam omisso gestu verbis poetae et studio actoris et exspectationi nostrae plauderetur:

“summum amicum summo in bello—”

nam illud ipse actor adiungebat amico animo et fortasse homines propter aliquod desiderium adprobabant:

“summo ingenio praeditum”.

Iam illa quanto cum gemitu populi Romani ab eodem paulo post in eadem fabula sunt acta!

“O pater—”

Me, me ille absentem ut patrem deplorandum putabat, quem Q. Catulus, quem multi alii saepe in senatu patrem patriae nominarant. Quanto cum fletu de illis nostris incendiis ac ruinis, cum patrem pulsum, patriam adflictam deploraret,

8 N

ICOLET 1980,p. 463.

9 M

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domum incensam eversamque, sic egit, ut, demonstrata pristina fortuna cum se convertisset:

“haec omnia vidi inflammari”

fletum etiam inimicis atque invidis excitaret! Pro di immortales! quid? illa quem ad modum dixit idem! quae mihi quidem ita et acta et scripta videntur esse, ut vel a Q. Catulo, si revixisset, praeclare posse dici viderentur; is enim libere reprehendere et accusare populi non numquam temeritatem solebat aut errorem senatus: “O ingratifici Argivi, immunes Graii immemores benefici!”

Non erat illud quidem verum; non enim ingrati, sed miseri, quibus reddere salutem, a quo acceperant, non liceret, nec unus in quemquam umquam gratior quam in me universi; sed tamen illud scripsit disertissimus poeta pro me, egit fortissimus actor, non solum optimus, de me, cum omnes ordines demonstraret, senatum, equites Romanos, universum populum Romanum accusaret:

“exsulare sinitis, sistis pelli, pulsum patimini!”

Quae tum significatio fuerit omnium, quae declaratio voluntatis ab universo populo Romano in causa hominis non popularis, equidem audiebam, existimare facilius possunt, qui adfuerunt. Et quoniam huc me provexit oratio, histrio casum meum totiens conlacrimavit, cum ita dolenter ageret causam meam, ut vox eius illa praeclara lacrimis impediretur; neque poetae, quorum ego semper ingenia dilexi, tempori meo defuerunt; eaque populus Romanus non solum plausu, sed etiam gemitu suo comprobavit. Utrum igitur haec Aesopum potius pro me aut Accium dicere oportuit, si populus Romanus liber esset, an principes civitatis? Nominatim sum appellatus in ‘Bruto’:

“Tullius, qui libertatem civibus stabiliverat”.

Miliens revocatum est. Parumne videbatur populus Romanus iudicare id a me et a senatu esse constitutum, quod perditi cives sublatum per nos criminabantur?

Che significò che, quando agli spettacoli e sulla scena, con un grandissimo pubblico, fu riferita la notizia fresca di quel decreto del senato, che fu votato nel tempio della Virtù, un grandissimo attore che aveva sempre le parti migliori sia nello Stato sia sulla scena, piangendo sia per la nuova gioia, sia per il dolore misto alla nostalgia di me, difese la mia causa davanti al popolo romano con parole molto più solenni di quando avrei potuto fare io parlando di me? Infatti metteva in rilievo il testo di un grandissimo poeta non solo con la sua arte, ma anche col suo dolore. Con quale forza:

“colui che con animo risoluto aiutò

e sostenne lo Stato e restò con gli Achei...” ,10

diceva a voi che io ero rimasto, indicava le vostre classi! Fu richiamato sulla scena per il bis da tutti quando disse:

“nel momento del pericolo non esitò a offrire la vita né risparmiò la testa”.11

10 Accio, TRF 357-358 (Eurysaces, fr. 13).

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14

Con quante grida di acclamazione questi versi erano recitati da lui! Ormai, lasciando da parte la mimica, si applaudiva ai versi del poeta, alla passione dell’attore e all’attesa di me:

“l’amico più grande nella guerra più grande...” .12

E l’attore stesso aggiungeva con animo amichevole e la gente era d’accordo forse a causa di una certa nostalgia di me:

“dotato del più grande ingegno”.

E con quali sospiri del popolo romano furono recitate poco dopo quelle parole nella stessa tragedia!13

“O padre...”14

Ero io, io che, assente, egli credeva di dover piangere come si piange un padre; era me che Quinto Catulo e molti altri spesso in senato avevano chiamato padre della patria. Con quante lacrime piangendo su quei miei incendi e le mie rovine, sul padre esiliato, sulla casa incendiata e spazzata via, recitò in modo tale che, mostrata l’antica prosperità, si rivolse agli spettatori:

“ho visto tutte queste cose incendiate”15

e suscitò il pianto anche nei nemici e negli invidiosi! Per gli dèi immortali! Ancora, in che modo lui stesso pronunciò quei versi che a me pare siano stati recitati e scritti in modo tale che sarebbero potuti essere ben detti forse persino da Quinto Catulo, se fosse tornato in vita; egli infatti era solito rimproverare liberamente e biasimare talvolta l’avventatezza del popolo romano o l’errore del senato:

“O Argivi ingrati, o Greci egoisti, d imentichi del bene!”16

E la cosa, per di più, non era esatta; infatti non erano ingrati, bensì sventurati, ai quali non era permesso restituire la salvezza a colui dal quale l’avevano ricevuta, e nessuno è mai stato più riconoscente verso qualcuno di quanto lo siano stati tutti verso di me; ma tuttavia per me scrisse ciò il poeta più eloquente, per me recitò il più impavido, non solo il migliore, attore quando, indicando tutte le classi, biasimava il senato, i cavalieri romani, il popolo romano intero:

“lo lasciate vivere in esilio! Avete permesso che fosse cacciato e ora tollerate che sia bandito!”17

Quale fu allora l’assenso di tutti, quale la manifestazione della volontà da parte dell’intero popolo romano nei confronti della situazione di un uomo non democratico, da parte mia sono venuto a saperlo, ma lo possono valutare più facilmente quelli che erano presenti.

E poiché il discorso mi ha spinto fin qui, l’attore ha pianto molte volte la mia disgrazia, difendendo in modo così commovente la mia causa, che quella sua voce chiara era interrotta dalle lacrime; né nella mia sventura mi hanno negato aiuto i poeti, di cui ho sempre amato i talenti; e queste cose il popolo romano le ha

12

Accio, TRF 362 (Eurysaces, fr. 13), insieme alla citazione successiva.

13

In realtà O pater, come pure haec omnia vidi inflammari sono versi tratti dall’Andromacha di Ennio, probabilmente aggiunti apposta dall’attore alla tragedia di Accio. Il pater è Eezione, padre di Andromaca.

14 Ennio, TRF 81 (Andromacha aechmalotis, fr. 9).

15

Ennio, TRF 86 (Andromacha aechmalotis, fr. 9).

16 Accio, TRF 364 (Eurysaces, fr. 13). 17 Accio, TRF 365 (Eurysaces, fr. 13).

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15

approvate non solo con gli applausi ma anche coi suoi gemiti. Dunque, queste cose le avrebbero dovute dire in mio favore Esopo o Accio, o piuttosto, se il popolo romano fosse libero, i cittadini più autorevoli? Nel Bruto sono stato chiamato per nome:

“Tullio, che aveva consolidato la libertà per i cittadini” .18

Il verso è stato ripetuto mille volte. Era forse poco evidente che il popolo romano riteneva che era stato istituito da me e dal senato ciò che i cittadini corrotti ci accusavano di aver tolto?

È questa una delle sezioni più lunghe,19 ma meritevole di essere riportata per intero. L’attore a cui si fa riferimento è Claudio Esopo, famoso attore tragico menzionato da Cicerone in più occasioni,20 che in questo passo ci viene descritto come un attore in grado di dare rilievo al testo di un grandissimo poeta non solo tramite la sua arte, ma anche col suo dolore.21 La cornice è sempre la stessa: quando, durante i

ludi, venne riferito al pubblico del teatro il decreto del senato che permetteva a

Cicerone di rientrare in città. Ci troviamo nuovamente dinanzi a versi recitati con l’intenzione di alludere alla situazione politica contemporanea. Anzi, ci si può forse spingere un passo più avanti: seguendo Moretti, potremmo dire che dal momento che era atteso il voto del Senato, gli organizzatori degli spettacoli avevano scelto con cura il programma in modo che la questione all’ordine del giorno, ovvero l’esilio di Cicerone e i suoi rapporti con Clodio, interagisse con punti specifici dei testi dei drammi scelti e provocasse “un inconfondibile corto circuito allusivo alla situazione presente”.22 In «colui che con animo risoluto aiutò e sostenne lo Stato» (qui rem publicam certo

animo adiuverit, statuerit) e che «nel momento del pericolo non esitò a offrire la vita

né risparmiò la testa», (re dubia haut dubitarit vitam offerre nec capiti pepercerit), «l’amico più grande nella guerra più grande» (summum amicum summo in bello) altra allusione non dobbiamo scorgere che a Cicerone stesso, o almeno questo è ciò che

18 Accio, TRF praetext. 40 (Brutus, fr. 4). 19

In realtà, nella sezione ancora più ampia Pro Sest. 102-126 circa, le citazioni teatrali sono ancora più numerose. In questa fase del lavoro si sono prese in considerazione solo quelle relative ad allusioni a vicende politiche contemporanee agli spettatori, ma non mancano citazioni dall’Atreus di Accio (Sest.

102) e dall’Iliona di Pacuvio (Sest. 126). In merito, cfr. MORETTI 2011.

20

La maggior parte delle informazioni che abbiamo in merito a questo attore le dobbiamo proprio a

Cicerone. Cfr. la scheda relativa a Esopo in HENRY 1919,p. 352-355 e la figura di Esopo che emerge dalle

opere di Cicerone in WRIGHT 1931,p. 10-13.

21

Una riflessione in merito alla partecipazione emotiva dell’attore durante una messa in scena verrà condotta più avanti, p. 32.

22 M

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16

egli, certamente di parte, tiene a sottolineare nell’orazione. Tali versi sono tratti dall’Eurysaces di Accio.

Oltre a quella che sembra essere una pura aggiunta di Esopo, «dotato del più grande ingegno» (summo ingenio praeditum), subito dopo vengono citati dei versi («O padre..., ho visto tutte queste cose incendiate» - O pater..., haec omnia vidi

inflammari) che sono però tratti dall’Andromacha aechmalotis di Ennio, probabilmente

aggiunti consapevolmente dall’attore, “pronto a interpolare il testo del dramma recitato per accrescerne la funzione allusiva ed evocativa”.23 In sostanza, dunque, la tragedia messa in scena doveva essere l’Eurysaces acciano, all’interno del quale Esopo inserì versi dell’Andromacha enniana. Non ci sembra che dal passo di Cicerone sia davvero impossibile, come invece sostiene Erasmo,24 discernere quale fosse il dramma messo in scena e quale quello di cui si inseriscono citazioni. Quando Cicerone menziona le parole che «furono recitate poco dopo [...] nella stessa tragedia» (paulo

post in eadem fabula sunt acta), parole tratte dall’Andromacha aechmalotis, ci pare di

intendere piuttosto chiaramente che queste furono inserite all’interno della tragedia di cui sono stati citati i versi subito prima, ovvero l’Eurysaces. Con l’espressione in eadem

fabula, tale tragedia sembra considerata non per singoli versi menzionati, bensì nel suo

complesso, e dunque nella sua messa in scena.

D’altronde l’Eurysaces non doveva essere stata una scelta casuale, essendo un dramma in cui il tema dell’esilio era ben presente; anzi, dovevano essere probabilmente due le vicende di esilio trattate: quella di Telamone, padre di Teucro e Aiace ed esiliato a Salamina per l’assassinio del fratello Foco, e quella di Teucro, biasimato al suo ritorno per la morte di Aiace. E infatti le successive citazioni dall’Eurysaces alludono proprio al tema dell’esilio («lo lasciate vivere in esilio! Avete permesso che fosse cacciato e ora tollerate che sia bandito» - exsulare sinitis, sistis

pelli, pulsum patimini).

Nel contesto dell’Andromacha aechmalotis enniana, poi, l’omonima eroina invocava il padre Eezione e ricordava la patria e la reggia di Priamo data alle fiamme;

23

MORETTI 2011, p. 258. Per un’interpretazione differente, cfr. JOCELYN 1967, pp. 238-241, che attribuisce all’Andromacha di Ennio anche i versi precedenti, e che ritiene che Cicerone si stia qui riferendo a tre rappresentazioni diverse in cui recitava Esopo, ovvero l’Andromacha di Ennio (in cui avrebbe interpretato due ruoli, Ulisse ed Andromaca) e l’Eurysaces e il Brutus di Accio (citato alla fine di questa sezione della Pro Sestio).

24 E

(17)

17

inseriti all’interno di una rappresentazione dell’Eurysaces, le due citazioni enniane potrebbero riferirsi all’esilio del vecchio Telamone, padre di Aiace. Come sostiene Moretti, per altro, l’incendio dei beni di Telamone non doveva essere presente nell’Eurysaces, per cui l’inserzione dei versi enniani è mossa solo dalla volontà di alludere all’incendio della casa di Cicerone, ad opera di Clodio.25 Cosa sarebbe poi l’appellativo pater, se non un ulteriore occhiolino al pubblico per alludere a Cicerone, il

pater patriae per eccellenza? È come se un evento di notevole peso come quello

dell’esilio ciceroniano e della sua revoca sia stato “messo in tragedia, ovvero sottoposto ad un trattamento di patetizzazione che ha luogo direttamente sulla scena, [...] attraverso una fulminea ma efficace identificazione con un noto paradigma tragico che sembrava averne già scritto il copione”.26

Viene infine qui menzionato un altro dramma, ovvero il Brutus, una pretesta dello stesso autore, che sembra essere stato messo in scena nella stessa occasione.27 Il verso in questione presenta al suo interno il nome “Tullio”, che all’interno del dramma è riferito a Servio Tullio ma grazie alla coincidenza onomastica permette un’ulteriore allusione a Cicerone, il quale, dato il riferimento a chi «aveva consolidato la libertà per i cittadini» (libertatem civibus stabiliverat), viene nuovamente acclamato come pater

patriae, nonché salvatore della stessa.

È certamente possibile che Cicerone esageri la descrizione di tali episodi, specialmente nel momento di pathos riguardante la scena di Esopo; per altro, egli non era appunto presente in tali occasioni, per cui la sua testimonianza non può avere la validità di un racconto di un testimone oculare; tuttavia non poteva neanche discostarsi troppo dalla realtà dei fatti, dal momento che invita anche chi era presente a confermare la sua versione.28 L’episodio era per altro avvenuto, come abbiamo visto, nell’anno immediatamente precedente rispetto alla data di composizione della Pro

25

MORETTI 2011, p. 265.

26

PETRONE 2011,p. 136. Per un’attenta analisi dell’analogia tra la vicenda di Cicerone e la tragedia di Andromaca, cfr. pp. 137-138.

27

Il testo di Cicerone non sembra suggerire che, come per i precedenti versi dell’Andromacha

aechmalotis enniana, anche il verso del Brutus sia stato inserito da Esopo all’interno della

rappresentazione dell’Eurysaces. Nell’espressione ciceroniana in Bruto ci pare di scorgere una messa in

scena vera e propria di tale opera. Ci discostiamo pertanto dall’opinione di WRIGHT 1931, p. 9 e p. 33,

secondo cui il verso del Brutus sarebbe stato inserito da Esopo all’interno della stessa rappresentazione dell’Eurysaces, come aveva fatto con i versi dell’Andromacha.

28 S

(18)

18

Sestio; trattandosi dunque di vicende recentissime, se egli avesse proposto una

descrizione esagerata avrebbe corso il rischio di essere facilmente smentito.

In relazione proprio all’ultimo dramma menzionato, il Brutus, troviamo altri passaggi in Cicerone ad esso collegati, almeno indirettamente.

Il contesto è quello dei Ludi Apollinari iniziati il 6 luglio del 44 a.C., della cui organizzazione era responsabile il cesaricida Marco Giunio Bruto, in quanto pretore. Dato che la città in quel momento non era per lui sicura, Bruto decise di non presiedere di persona:29 fece le sue veci Gaio, il fratello di Antonio, anch’egli pretore nel 44. Abbiamo più di una testimonianza relativa a questi giochi e a ciò che venne rappresentato; partiamo dunque analizzando due passi tratti da due lettere differenti delle Epistulae ad Atticum. Si tratta di lettere scritte a Pozzuoli a un paio di giorni di distanza l’una dall’altra.

Nella prima viene infatti menzionato tale dramma, in un passo a dire il vero di non facilissima comprensione. Sembra di capire che Bruto avesse programmato la rappresentazione del Brutus di Accio in occasione dei Ludi Apollinari del 44, della cui organizzazione era responsabile in quanto pretore; ma probabilmente Gaio Antonio, che lo sostituì nell’organizzazione quando Bruto si allontanò da Roma, scelse di far rappresentare il Tereus di Accio al posto del Brutus.30

Il Brutus avrebbe molto probabilmente favorito un implicito paragone tra la vicenda del mito e il presente, evocando la figura di Lucio Giunio Bruto, impegnato nella rivolta contro il tiranno Tarquinio il Superbo, e accostandola neanche troppo implicitamente alla figura del cesaricida Bruto.

29

Att. XV.12.1 ludos enim absens facere malebat; statim autem se iturum simul ac ludorum apparatum

iis qui curaturi essent tradidisset. “[Bruto] preferisce che i giochi siano fatti senza di lui: ha intenzione di

partire non appena avrà affidato la preparazione dei giochi a quelli che se ne occuperanno”. Si tratta di una lettera del 10 giugno del 44 circa.

30

WRIGHT 1931,p. 31. Secondo GOLDBERG 2000, p. 51, Bruto, che avrebbe programmato originariamente la rappresentazione del Brutus acciano, avrebbe poi dovuto ripiegare sul Tereus quando fu costretto ad allontanarsi da Roma prima che si tenessero i ludi. Dalla lettera di Cicerone non è però chiaro se Bruto fosse già a conoscenza di questo cambio, sembrerebbe piuttosto di no; quindi un cambiamento deciso

da Gaio Antonio e non da lui sarebbe forse più probabile. Cfr. anche DEGL’INNOCENTI PIERINI 2002, p. 129,

secondo cui a Bruto piaceva immaginare che durante i ludi del 44 fosse stato rappresentato il Brutus di Accio e non il suo Tereus, probabilmente a causa del forte consenso raccolto dal pubblico, che, come si è visto, osannava l’assente. Certo il riferimento all’attualità in una tragedia mitologica non poteva essere

(19)

19 Epistulae ad Atticum

XVI.5.1 (410)

[Pozzuoli, 9 luglio 44]

Tuas iam litteras Brutus exspectabat. cui quidem ego [non] novum attuleram de ‘Tereo’ Acci. ille ‘Brutum’ putabat. sed tamen rumoris nescio quid adflaverat commissione Graecorum frequentiam non fuisse, quod quidem me minime fefellit; scis enim quid ego de Graecis ludis existimem.

Bruto aspettava allora una tua lettera. Gli ho dato notizia sul Tereo di Accio; egli credeva che si trattasse del Bruto. Tuttavia si era diffusa non so quale diceria, che non ci fosse stata affluenza a causa dell’inaugurazione dei giochi greci, cosa che non mi è affatto sfuggita; sai infatti che cosa io pensi dei giochi greci.

Nella seconda lettera viene menzionato di nuovo il Tereus e si dice che Bruto si sentisse riconoscente più ad Antonio che ad Accio. Antonio sembra essere proprio Marco Antonio: la frase qui assumerebbe una sfumatura ironica, in quanto, proprio avendo allontanato Bruto, Antonio gli avrebbe garantito gli applausi e il consenso del pubblico.31

Epistulae ad Atticum XVI.2.3 (412)

[Pozzuoli, 11 luglio 44]

Bruto tuae litterae gratae erant. fui enim apud illum multas horas in Neside, cum paulo ante tuas litteras accepisset. delectari mihi ‘Tereo’ videbatur <n>ec habere maiorem Accio quam Antonio gratiam. mihi autem <quo> laetiora sunt eo plus stomachi et molestiae est populum Romanum manus suas non in defendenda re publica sed in plaudendo consumere. mihi quidem videntur istorum animi incendi etiam ad repraesentandam improbitatem suam. sed tamen

“dum modo doleant aliquid, doleant quidlibet.”

A Bruto le tue lettere furono gradite. Sono stato infatti molte ore con lui a Nisida, dopo che aveva ricevuto le tue lettere poco prima. Mi è sembrato che si sia rallegrato per il Tereo e che non sia riconoscente più ad Accio che ad Antonio. D’altra parte per me quanto più sono piacevoli tanto più è motivo di disgusto e di fastidio il fatto che il popolo romano adoperi le mani per applaudire e non per

31

SHACKLETON BAILEY 1999, p. 321 n. 1: senza la sostituzione di nec al posto di et, “Antonio” sarebbe il fratello più giovane di Marco Antonio, ovvero Gaio, che in quanto pretore sostituì Bruto nell’allestimento dei giochi. Ma cosa significherebbe?

Se considerassimo esatta però l’ipotesi per cui era stato Gaio Antonio a cambiare la tragedia in programma, mantenendo et potremmo intendere che Bruto si rallegrasse ugualmente perché, nonostante Antonio, Accio gli era indirettamente venuto in soccorso; con nec si potrebbe intravedere ugualmente una sfumatura comica: Antonio, pur cambiando la scelta di Bruto, gli avrebbe comunque garantito il favore del pubblico.

(20)

20

difendere lo Stato. A me almeno pare che gli animi di costoro si infiammino anche per eseguire immediatamente le loro perversità. Ma tuttavia

“purché provino qualche dolore, provino pure qualsiasi dolore” .32

Cicerone, come si vede, conclude il discorso con un verso di una commedia di Afranio, che viene citato altre due volte, in due passi non distanti tra loro, nelle

Tusculanae disputationes (IV.45, IV.55), un’opera la cui composizione risale al 45,

dunque un anno prima di questa lettera. In entrambi i passi delle Tusculanae viene specificato che il verso è di Afranio, e nel primo in particolare viene anche riportato quello che, con tutta probabilità, era il verso precedente: alle lamentele di un figlio dissoluto, che si definisce infelice (heu me miserum!), il padre risponde «purché si

dolga di qualcosa, si dolga di ciò che vuole» (dum

modo doleat aliquid, doleat quidlubet). I verbi del verso originale sono coniugati alla

terza persona singolare, ma in questa lettera tale verso viene adattato al contesto; egli li volge pertanto al plurale, perché devono riferirsi alla folla a teatro che si infiamma quando è ora di applaudire, ma non per difendere concretamente lo Stato. Si tratta di un verso che ha il sapore di una sententia, adatto ad essere inserito in diversi contesti quasi a mo’ di proverbio.

C’è poi da analizzare una testimonianza tratta dalla prima delle Philippicae (44-43 a.C.), riferita ugualmente al medesimo contesto e agli stessi Ludi Apollinari del 44.

Philippicae I.36-37

Quid enim gladiatoribus clamores innumerabilium civium? Quid populi versus? Quid Pompei statuae plausus infiniti? Quid duobus tribunis plebis qui vobis adversantur? Parumne haec significant incredibiliter consentientem populi Romani universi voluntatem? Quid? Apollinarium ludorum plausus vel testimonia potius et iudicia populi Romani parum magna vobis videbantur? O beatos illos qui, cum adesse ipsis propter vim armorum non licebat, aderant tamen et in medullis populi Romani ac visceribus haerebant! Nisi forte Accio tum plaudi et sexagesimo post anno palmam dari, non Bruto putabatis; qui ludis suis ita caruit ut in illo apparatissimo spectaculo studium populus Romanus tribueret absenti, desiderium liberatoris sui perpetuo plausu et clamore leniret. Equidem is sum qui istos plausus, cum popularibus civibus tribuerentur, semper contempserim;

(21)

21

idemque cum a summis, mediis, infimis, cum denique ab universis hoc idem fit, cumque ei qui ante sequi populi consensum solebant fugiunt, non plausum illum, sed iudicium puto.

Cosa significano le grida di tantissimi cittadini negli spettacoli dei gladiatori? E i versi del popolo? E gli applausi infiniti rivolti alla statua di Pompeo? E quelli rivolti ai due tribuni della plebe che sono vostri avversari? Queste cose non dimostrano sufficientemente l’incredibile volontà concorde di tutto il popolo romano? E poi? Gli applausi, o piuttosto le testimonianze e i giudizi del popolo romano nei giochi Apollinari, vi sembravano poco significativi? Felici coloro che, pur non potendo essere presenti di persona per la violenza delle armi, erano tuttavia presenti nell’animo del popolo romano ed erano ben radicati nei cuori! A meno che non pensaste per caso che si applaudisse ad Accio e gli si porgesse la palma sessant'anni dopo, non a Bruto, che era assente dai suoi giochi; ma durante quello splendido spettacolo il popolo romano offrì all'assente il suo affetto e con l’infinito applauso e le acclamazioni alleviò la nostalgia per il suo liberatore. Quanto a me, sono uno che tiene in poco conto questi applausi, quando sono indirizzati ai demagoghi; quando ciò accade da parte delle classi sociali più alte, delle medie e delle più basse, insomma da tutti, e quando quelli che prima di solito cercavano di ottenere il consenso del popolo, lo evitano, quello lo reputo non un applauso, ma un giudizio.33

Nel riferimento a «coloro che, pur non potendo essere presenti di persona per la violenza delle armi, erano tuttavia presenti nell’animo del popolo romano ed erano ben radicati nei cuori» (illos qui, cum adesse ipsis propter vim armorum non licebat,

aderant tamen et in medullis populi Romani ac visceribus haerebant) si scorge appunto

la figura di Bruto. Si accenna poi a uno spettacolo di Accio qui rappresentato, ma messo in scena anche sessant’anni prima.34

Sembra che il Tereus trattasse di un argomento mitico sviluppato in senso tirannico. In un momento come quello dei Ludi Apollinari del luglio del 44, dopo le Idi di Marzo, un dramma che portasse in scena istanze ideologiche anti-tiranniche dovette rivelarsi particolarmente adatto.35 Ciò che fa intuire Cicerone è che gli applausi non fossero tanto per l’autore di questo dramma, Accio, bensì per Bruto stesso. Ci troviamo

33

Cicerone si dichiara scettico nei riguardi degli applausi indirizzati ai demagoghi, nei momenti cioè in cui ad applaudire erano probabilmente solo alcune fasce della popolazione, le fasce del vulgus, del popolino; ma quando ad applaudire è l’intero pubblico, come in questo caso nei confronti di Bruto assente, tali applausi vanno analizzati come dei veri e propri giudizi.

34

BELLARDI 1978, p. 214, n. 4. Nel 104 era stata rappresentata la tragedia Tereus di Accio. Dal 104 al 44 erano trascorsi appunto sessant’anni.

35 Cfr. D

(22)

22

di nuovo quindi davanti a collegamenti tra ciò che viene rappresentato sulla scena (sia ovviamente ambientato in un’epoca totalmente diversa, sia soprattutto composto in un periodo anteriore e differente) e l’attualità, la vita politica del popolo romano di quel dato momento.36

Sempre all’interno delle Philippicae, ma stavolta nella decima, troviamo un ultimo riferimento a tale vicenda.

Philippicae X.7-8

qui ne Apollinaris quidem ludos pro sua populique Romani dignitate apparatos praesens fecit, ne quam viam patefaceret sceleratissimorum hominum audaciae. Quamquam qui umquam aut ludi aut dies laetiores fuerunt quam cum in singulis versibus populus Romanus maximo clamore et plausu Bruti memoriam prosequebatur? Corpus aberat liberatoris, libertatis memoria aderat; in qua Bruti imago cerni videbatur.

E allestì non di persona i Ludi Apollinari, ben conformi alla dignità sua e del popolo romano, per non aprire una qualche strada all’insolenza di uomini scelleratissimi. Tuttavia ci fu mai alcun gioco o alcun giorno più felice di quando il popolo romano ad ogni singolo verso ha ravvivato il ricordo di Bruto con grandissimo clamore e applausi? Il liberatore in carne ed ossa era assente, ma il ricordo della libertà era lì presente; in esso sembrava di vedere l’immagine di Bruto.

Passando ora invece a un altro episodio, vediamo come un’ultima testimonianza di questo tenore, riscontrabile in Cicerone, sia quella contenuta in un’altra lettera ad Attico, ma di quindici anni prima, datata al luglio del 59 e scritta a Roma. Si tratta di una rappresentazione all’interno dei Ludi Apollinari del 59, e stavolta il protagonista dell’aneddoto è un altro attore, Difilo; il bersaglio, invece, Pompeo.

36

Cfr. anche Att. XIV.2.1 (356): Duas a te accepi epistulas heri. ex priore theatrum Publiliumque cognovi,

bona signa consentientis multitudinis. plausus vero L. Cassio datus etiam facetus mihi quidem visus est.

DI SPIGNO 1998, p. 1276, n.1; SHACKLETON BAILEY 1999, p. 143, n. 1. Si allude a un mimo recitato da Publilio Siro durante uno spettacolo delle feste Megalesi, durante la cui rappresentazione la folla dei presenti

manifestò la propria solidarietà coi cesaricidi.

SHACKLETON BAILEY 1999, p. 143, n. 2. L’applauso era stato un tributo indirettamente rivolto al fratello di Lucio Cassio, il cesaricida Gaio Cassio. L’ironia risiedeva nel fatto che Lucio stesso, tribuno in quel 44 a.C.,

aveva combattuto dalla parte di Cesare nella guerra civile.In questo caso non ci è possibile ricostruire se

gli applausi fossero stati tributati durante lo spettacolo vero e proprio, traendone pretesto da alcuni versi recitati sulla scena, o se fossero slegati dalla ricezione di ciò che era recitato.

(23)

23 Epistulae ad Atticum

II.19.3 (39)

[Roma, tra il 7 e il 14 luglio 59]

Populi sensus maxime theatro et spectaculis perspectus est. nam gladiatoribus qua dominus qua advocati sibilis conscissi, ludis Apollinaribus Diphilus tragoedus in nostrum Pompeium petulanter invectus est: “nostra miseria tu es magnus” miliens coactus est dicere. “eandem virtutem istam veniet tempus cum graviter gemes” totius theatri clamore dixit itemque cetera. nam et eius modi sunt ii versus ut in tempus ab inimico Pompei scripti esse videantur. “si neque leges neque mores cogunt” et cetera magno cum fremitu et clamore sunt dicta.

L’opinione del popolo si è percepita soprattutto a teatro e negli spettacoli. Infatti ai giochi dei gladiatori sia l’organizzatore, sia gli invitati sono stati ingiuriati con fischi, ai ludi Apollinari l’attore tragico Difilo ha inveito sfacciatamente contro il nostro Pompeo: è stato costretto a dire mille volte “tu sei grande a spese della nostra miseria”. Tra le acclamazioni dell’intero teatro ha detto “verrà il tempo in cui gemerai profondamente su questo medesimo tuo valore ” e ugualmente il resto. E infatti quei versi sono tali che sembrano stati scritti per l’occasione da un nemico personale di Pompeo. Le parole “se né le leggi, né i buoni costumi ti riducono” e le restanti sono state pronunciate tra grandi strepiti e urla.

Difilo fu incitato dal pubblico a ripetere più volte «tu sei grande a spese della nostra miseria» (nostra miseria tu es magnus) e altre battute, di cui ignoriamo la provenienza.37 Magnus, d’altronde, altro non era che il cognomen di Pompeo.38 E anche le espressioni «verrà il tempo in cui gemerai profondamente su questo medesimo tuo valore e se né le leggi, né i buoni costumi ti riducono» (eandem

virtutem istam veniet tempus cum graviter gemes) vennero pronunciate al cospetto di

spettatori che acclamavano e gridavano, come se quelle parole calzassero a pennello proprio per Pompeo e per quel momento storico.

Queste trattate finora sono dunque le testimonianze che ci mostrano la possibilità e la concretizzazione di allusioni politiche all’interno di rappresentazioni

37 Secondo D

UPONT 1985, p. 120, si tratta senza dubbio del Prometheus di Accio. Ma come mette

giustamente in evidenza MANUWALD 2011, p. 112, n. 244, Cicerone non menziona né l’autore né il titolo

di tale dramma, e tali versi non sono attestati da nessun’altra parte.

38 D

(24)

24

teatrali. È condivisibile la riflessione secondo sui la possibilità di conferire a dei versi una sfumatura di attualità richiede probabilmente anche una certa familiarità del pubblico con le trame originali e con il significato dei singoli versi.39

2. Attori e personaggi da loro interpretati

Ci sono poi altri passi che contengono rimandi ad attori e rispettivi personaggi portati sulla scena, che ci permettono di aggiungere qualche tassello al puzzle e capire quali altri drammi erano ancora messi in scena al tempo di Cicerone. Ancora più interessanti, rispetto a quelli contenuti in opere retoriche, filosofiche o politiche, sono i riferimenti presenti nelle orazioni. Pur tenendo sempre in mente che i testi prima della loro circolazione erano soggetti a una revisione da parte di Cicerone, possiamo però valutarle come discorsi che prevedevano un pubblico, quello del tribunale, che poteva (o meglio, affinché l’allusione fosse efficace, forse doveva) cogliere il riferimento.

Analizziamo dunque un passo dell’orazione Pro Roscio comoedo, databile forse al 77 a. C. Protagonisti di tale processo furono il famoso attore Quinto Roscio Gallo40, più e più volte ricordato da Cicerone e qui da lui difeso, e Caio Fannio Cherea. Nella sezione qui proposta Cicerone descrive proprio quest’ultimo, accostandolo a un personaggio di una commedia di Plauto.

Pro Q. Roscio comoedo 20

Qui idcirco capite et superciliis semper est rasis, ne ullum pilum viri boni habere dicatur; cuius personam praeclare Roscius in scaena tractare consuevit, neque tamen pro beneficio ei par gratia refertur. Nam Ballionem illum improbissimum et periurissimum lenonem cum agit, agit Chaeream; persona illa lutulenta, impura, invisa in huius moribus, natura vitaque est expressa. Qui quam ob rem Roscium similem sui in fraude et malitia existimarit, mirum mihi videtur, nisi forte quod praeclare hunc imitari se in persona lenonis animadvertit.

Ha la testa e le sopracciglia sempre rasate affinché non si dica che abbia un solo pelo di persona onesta! Un personaggio che di solito Roscio rappresentava egregiamente sulla scena, senza tuttavia ottenere da lui l’adeguata gratitudine in

39 M

ANUWALD 2011, p. 118.

40 Per approfondire la figura di Roscio, cfr. D

(25)

25

cambio di questo favore. Quando infatti recita la parte di quel furfante e spergiuro di un pappone, Ballione, impersona Cherea; quel personaggio immondo, lurido e odioso trova la sua espressione nei costumi, nell’indole e nella vita di costui. E mi sorprende come abbia potuto pensare che Roscio fosse simile a lui in fatto di frode e malvagità; a meno che, forse, non abbia notato la meravigliosa imitazione che fa di lui nel personaggio del pappone.

Ballione è il lenone dello Pseudolus, commedia plautina composta e rappresentata per la prima volta nel 191 a.C. Cherea viene descritto con la testa e le sopracciglia rasate e viene paragonato a un personaggio che Roscio era solito portare in scena, appunto Ballione. È come se, dice Cicerone, nel recitare la parte di quel lenone, Roscio impersonasse invece Cherea, tanto l’indole e i costumi di costui sono accostabili a quelli di Ballione. Cicerone mette qui in atto una strategia ben precisa: egli cerca di colmare il divario tra apparenza e realtà, tra personaggio portato in scena e attore in carne ed ossa, che poteva spesso essere fonte di problemi per un attore, tanto più in un processo. Ricordare a chi lo ascolta in tribunale che Roscio recita nei panni del lenone Ballione può essere infatti un’arma a doppio taglio: potrebbe lasciar intendere che Roscio sia disonesto, falso, o perché finge di essere ciò che non è (secondo lo stereotipo dell’attore che dissimula, bravo a fingere ciò che non è), o perché è particolarmente adatto a interpretare il ruolo di un personaggio così infimo (secondo lo stereotipo dell’attore che impersona solo ruoli che si confanno alla sua vera natura). Nel primo caso, si tratterebbe di prestare il fianco scoperto alla controparte, che potrebbe appigliarsi a ciò per rimarcare la capacità di Roscio di saper mentire e dunque ingannare; nel secondo caso, si potrebbe sostenere che Roscio è un bugiardo, sfacciato e avido di natura, la stessa natura del lenone di cui recita la parte. Ma Cicerone è abile a usare proprio questo tipo di accostamenti a suo favore: è vero che Roscio è famoso per interpretare il ruolo di Ballione, ma chi nella vita reale meglio impersona la parte di questo lenone? Nessuno altro se non Cherea! Cicerone gioca d’anticipo, e la mossa, dunque, di identificare un attore col suo personaggio, che tanto sarebbe stata rischiosa per Roscio, la utilizza eccome, ma ai danni di Cherea. Cherea è Ballione. Roscio è semplicemente un attore talentuoso e abile a trarre i propri modelli dalla natura, ma non dalla sua natura propria.41

41 Tutto questo ragionamento condotto dopo la testimonianza è ben sviluppato in D

(26)

26

Ad ogni modo, per quello che interessa ai nostri fini, non c’è motivo per non credere alle parole di Cicerone, quando allude al fatto che Roscio avesse recitato nel personaggio di Ballione, anzi fosse solito portarlo in scena (in scaena tractare

consuevit). Come si è messo in evidenza poco sopra, durante le orazioni Cicerone ha

davanti a sé un pubblico, che vive a Roma con lui e come lui; non potrebbe permettersi di inventare di sana pianta aneddoti, o almeno riferimenti del genere. E probabilmente non ne avrebbe neanche motivo.

Un’altra tipologia di testimonianze da dover affrontare è quella contenuta nelle opere che hanno struttura dialogica. In questi casi si aggiungono ulteriori fattori da valutare: il dialogo è spesso ambientato in un periodo temporale anteriore; a parlare sono dei personaggi, e non sempre Cicerone in prima persona. Questo fa sì che sia necessaria maggiore cautela nel trattare e analizzare passi contenenti i riferimenti teatrali che cerchiamo. Proviamo comunque a raccoglierli e ragionarci su.

Nel II libro del De oratore la parola è data principalmente a Marco Antonio (il nonno del più famoso triumviro omonimo), ed è attraverso le parole di costui che ci viene fornita un’altra testimonianza.42 Prima di procedere col discorso, è bene però inquadrare maggiormente l’opera: scritto nel 55 a.C., il dialogo è ambientato del 91 a.C., nella villa di Tuscolo di Lucio Licinio Crasso, anche lui come Antonio celebre oratore romano.

De oratore II.193

Sed, ut dixi, ne hoc in nobis mirum esse videatur, quid potest esse tam fictum quam versus, quam scaena, quam fabulae? Tamen in hoc genere saepe ipse vidi, ut ex persona mihi ardere oculi hominis histrionis viderentur spondalia illa dicentis: “segregare abs te ausu’s aut sine illo Salamina ingredi,

neque paternum aspectum es veritus? ”

Nunquam illum ‘aspectum’ dicebat, quin mihi Telamon iratus furere luctu filii videretur. Ut idem inflexa ad miserabilem sonum voce,

“quem aetate exacta indigem

liberum lacerasti, orbasti, exstinxti; neque fratris necis, neque eius gnati parvi, qui tibi in tute lam est traditus?”

42

In questo caso non viene esplicitato il nome dell’attore, ma si è ritenuto opportuni inserire ugualmente questo passo in questo paragrafo, dal momento che è evidente la descrizione di un attore sulla scena con le rispettive battute.

(27)

27

flens ac lugens dicere videbatur. Quae si ille histrio, cotidie cum ageret, tamen agere sine dolore non poterat, quid Pacuvium putatis in scribendo leni animo ac remisso fuisse?

Ma, come ho detto, affinché ciò non sembri essere straordinario tra di noi, che cosa può esserci di più fittizio della poesia, del teatro, dei componimenti drammatici? Nondimeno ho visto spesso in queste situazioni che dalla maschera gli occhi dell’attore mi sembravano brillare quando pronunciava questi recitativi: “Hai osato tenerlo lontano da te o tornare a Salamina senza di lui, e non hai avuto paura della vista del padre?”43

Non diceva mai la parola “vista” senza che a me sembrasse Telamone irato che delirava per la morte del figlio. Quando invece lo stesso attore con una voce modulata verso un tono dolente diceva:

“Hai lacerato, privato, distrutto un uomo s enza figli, dall’età avanzata: non ti sei curato né dell’uccisione del fratello, né del suo piccolo figlio che era stato affidato alla tua tutela?”44

mi sembrava che parlasse piangendo e lamentandosi. Se quell’attore, recitando questi versi ogni giorno, pur tuttavia non riusciva a recitarli senza sofferenza, come potete pensare che Pacuvio nello scriverli avesse un animo calmo e allegro?

Il discorso condotto da Antonio immediatamente prima di questo passo ha preparato il terreno per un classico accostamento tra oratore e attore, che più volte troviamo in Cicerone. La tesi sostenuta da Antonio è quella secondo cui, se l’oratore vuole suscitare determinate emozioni in chi lo ascolta, deve essere lui stesso il primo a provarle. Non c’è dunque spazio per alcun tipo di finzione (in questo caso, l’oratore avrebbe davvero doti miracolose), bensì una quasi totale immedesimazione. Chi vuole suscitare nei giudici sentimenti di pietà, dolore, invidia, odio, deve esserne a sua volta pervaso. E in realtà, dice Antonio, anche in teatro, il luogo che è l’emblema della finzione, è possibile vedere attori del tutto presi dalla parte e dal personaggio che stanno recitando, in una vera e propria immedesimazione.

Nello specifico, qui Antonio ci riferisce di attori che pronunciano versi che noi possiamo ricondurre al Teucer di Pacuvio, autore che viene esplicitamente menzionato alla fine di questo passo. Ricostruendo la vicenda, le parole sarebbero pronunciate da Telamone, re di Salamina, come rimprovero al figlio Teucro per essere tornato in patria senza Aiace, figlio di Telamone e fratellastro di Teucro. 45

43

Pacuvio, TRF 327-328 (Teucer, fr. 12).

44 Pacuvio, TRF 328-330 (Teucer, fr. 12).

45 L

(28)

28

Nella stessa opera, altre due sono le sezioni che rimandano a opere teatrali rappresentate.

De oratore II.242

Ex hoc genere est illa Rosciana imitatio senis: “Tibi ego, Antipho, has sero” , inquit. Senium est, cum audio.

Di questo tipo fa parte quell’imitazione del vecchio fatta da Roscio: “Io pianto queste per te, o Antifonte”46, dice. Quando lo sento, è la vecchiaia in persona.

Purtroppo questo breve rimando non ci permette di sviluppare riflessioni solide, in quanto il verso citato non è attribuibile con assoluta certezza a una commedia nello specifico. Si sono avanzate tuttavia delle ipotesi in favore dei Synephebi di Cecilio Stazio, sulla base di un altro verso di tale commedia, serit arbores, quae alteri saeclo

prosint.47 Il soggetto di quel verso è qualcuno che «pianta alberi, che daranno frutti alla generazione successiva»; dal momento che anche nel verso citato nel De oratore si accenna a qualcuno che compie l’atto di piantare qualcosa per un altro, è stata proposta quest’attribuzione.48

Anche qui, comunque, siamo di fronte a un personaggio (un vecchio, nello specifico) affidato alla recitazione di Roscio.

La seconda invece, tratta dal III libro del medesimo dialogo, offre maggiori spunti.

De oratore III.102

Nunquam agit hunc versum Roscius eo gestu quo potest:

“Nam sapiens virtuti honorem praemium, haud praedam petit—” sed abicit prorsus, ut in proximo

“Set quid video? Ferro saeptus possidet sedes sacras—” incidat, aspiciat, admiretur, stupescat. Quid ille alter

“Quid petam praesidi?”

quam leniter, quam remisse, quam non actuose! instat enim “O pater, o patria, o Priami domus! ”

46 Inc. CRF 1 (inc. fr. 1). 47

Cecilio Stazio, TRF 210 (Synephebi, fr. 2). Citato anche in Tusc. I.31; Sen. 24-25. Per l’analisi di questi passi, vedi p. 104 ss.

48 Cfr. W

(29)

29

in quo tanta commoveri actio non posset si esset consumpta superiore motu et exhausta.

Roscio non recita mai con quella mimica di cui è capace il verso:

“il saggio chiede come premio per la virtù l’onore e non un profitto” ,49 ma per giunta abbassa il tono, affinché nel verso seguente

“ma che cosa vedo? Un uomo armato occupa i luoghi sacri!” possa scagliarsi, osservare, meravigliarsi e stupirsi.

E che dire di quell’altro attore “Quale aiuto chiederò?”,50

con quale calma e pacatezza e non energicamente! Infatti incalza:51 “o padre, o patria, o casa di Priamo!”

dove non si sarebbe potuta suscitare tanta forza drammatica, se fosse stata sprecata ed esaurita dallo slancio precedente.

In questo caso sono due i drammi ad essere citati e due gli attori a cui si accenna: il primo ad essere menzionato è nuovamente Roscio, di cui si specifica la bravura nel saper gestire mimica e toni differenti al fine di dare maggiore rilievo a una battuta, piuttosto che mantenere sempre lo stesso livello di intensità, modalità che non permetterebbe di far risaltare qualcosa in particolare e che, al contrario, renderebbe il tutto piatto. Poco prima infatti Cicerone ha spiegato come sia i poeti sia gli oratori ci insegnino che un carme o un discorso armonioso, elegante, piacevole, seppur splendide immagini, non può piacere a lungo senza una pausa, una ripresa o una variazione; in questo caso Roscio, nel recitare forse il Telephus di Ennio, deve mantenere un tono più basso nel pronunciare il primo verso qui proposto in modo da poter aumentare il pathos nel verso seguente.

L’altro attore a cui si allude è probabilmente Esopo, alle prese con i versi dell’Andromacha aechmalotis di Ennio; il contesto della citazione è il medesimo, ovvero quello di saper gestire il tono e l’energia in alcune battute per metterne in risalto altre. Il riferimento a questi due attori sicuramente attivi all’epoca di Cicerone può schiarirci qualche dubbio sul contesto in cui tali citazioni hanno luogo, ovvero un dialogo ambientato letterariamente al 91 a.C.; la collocazione temporale e il fatto che Cicerone non parli in prima persona ci hanno fatto avanzare qualche riserva preventiva

49 Inc. TRF 30-31 (inc. fr. 17), insieme alla citazione seguente. Secondo R

IBBECK 1875, p. 108 potrebbe

trattarsi del Telephus di Ennio.

50 Ennio, TRF 75 (Andromacha aechmalotis, fr. 9).

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