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Synephebi Padri ceciliani a confronto (Synephebi, Plocium ed Ephesio)

4. Pacuvio

6.1. Synephebi Padri ceciliani a confronto (Synephebi, Plocium ed Ephesio)

Analizzando la testimonianza in De orat. II.242, abbiamo visto come si sia ipotizzato che il verso citato in quell’occasione (tibi ego, Antipho, has sero) possa essere attribuito ai Synephebi ceciliani.76 Se così fosse, potremmo affermarne l’effettiva presenza sui palcoscenici del tempo di Cicerone, nonché almeno l’interpretazione di uno dei personaggi, un vecchio, da parte Roscio.

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Tusc. II.13, IV.77, V.52; Nat deor. III.68; Off. III.102, III.106; Phil. I.34.

75 Sest. 102; Pis. 82; De orat. III.217, III.219; Planc. 59. 76 Vedi p. 28.

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L’ipotesi è stata avanzata proprio sulla base di un collegamento con un altro verso di tale commedia, serit arbores, quae alteri saeclo prosint. Questo verso in particolare, viene riportato da Cicerone in due occasioni, all’interno delle Tusculanae

disputationes e nel Cato maior de senectute. Ci limiteremo quindi ad analizzare questi

due passi.77

Nel primo caso, quello delle Tusculanae, il verso viene citato all’interno di una sezione il cui argomento è quello della morte e del lutto, nonché dell’interessamento ai posteri e alle generazioni future. E anche Cecilio, quando nei Synephebi si riferisce a qualcuno che «pianta alberi che daranno frutti alla generazione successiva» (serit arbores, quae alteri saeclo prosint), a chi pensa se non a chi verrà dopo?

Con questo verso un personaggio si riferisce a un vecchio,78 come viene detto esplicitamente nel passo del Cato maior de senectute, che affronteremo subito dopo; non è escluso che la commedia, modellata su un originale di Menandro, mettesse in scena un conflitto frequente nella commedia antica, quello tra vecchi e giovani.

Tusculanae disputationes I.31

Maximum vero argumentum est naturam ipsam de immortalitate animorum tacitam iudicare, quod omnibus curae sunt et maximae quidem, quae post mortem futura sint.

“Serit arbores, quae alteri saeclo prosint”,

ut ait Statius in Synephebis, quid spectans nisi etiam postera saecula ad se pertinere?

Però l’argomento più forte è che la natura stessa pronuncia in silenzio giudizi sull’immortalità dell’anima, perché tutti sono preoccupatissimi per ciò che accadrà dopo la morte.

“Pianta alberi che daranno frutti alla generazione successiva”,79

come dice Stazio nei Sinefebi: riferendosi a che cosa se non che lo interessavano anche le future generazioni?

Nel Cato maior de senectute, riferendosi ai contadini romani della Sabina, si cita lo stesso verso. Nessuno di questi contadini, si dice nell’opera, è così avanti negli anni

77

Altre citazioni di questa commedia si trovano in Nat. deor. I.14, III.71-73 (passo che analizzeremo più avanti per altri fini, vedi p. 126 ss.). Il dramma è menzionato anche in Opt. gen orat. 18 e Fin. I.4-5, vedi p. 112 ss.

78 Per la figura di vecchi ceciliani, cfr. anche Sen. 36, Amic. 99, Rosc. Amer. 46, Cael. 37-38.

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da ritenere di non poter vivere un altro anno ancora; tuttavia si adoperano anche in lavori che sanno che non li riguarderanno direttamente, o comunque di cui non potranno vedere i frutti (letteralmente e metaforicamente), come ad esempio piantare alberi che cresceranno poi per le generazioni successive. Ed è a questo proposito che viene citato Cecilio, che nei Synephebi si riferisce a qualcuno che «pianta alberi che daranno frutti alla generazione successiva» (serit arbores, quae alteri saeclo prosint).80

È però interessante come stavolta, a partire da questa battuta, Cicerone metta in atto un confronto con altri passi, di altre opere, dello stesso drammaturgo. Poco dopo, infatti, viene proposto un raffronto con altre due riflessioni sulla vecchiaia, molto probabilmente pronunciate da vecchi, anche se non ne abbiamo la certezza. Gli altri versi citati sono tratti rispettivamente dal Plocium e dall’Ephesio; la visione che troviamo nei Synephebi è quella di una vecchiaia tesa a preoccuparsi di ciò che verrà dopo, mentre negli altri due drammi essa viene descritta con toni più cupi. Nell’Ephesio in particolare, il raggiungimento della vecchiaia coincide con la presa di coscienza di essere odioso agli altri.

Cato maior de senectute 24-25

sed idem in eis elaborant, quae sciunt nihil ad se omnino pertinere: “serit arbores, quae alteri saeclo prosint”,

ut ait Statius noster in Synephebis. […] Et melius Caecilius de sene alteri saeculo prospiciente, quam illud idem:

“edepol, senectus, si nil quicquam aliud viti adportes tecum, cum advenis, unum id sat est, quod diu vivendo multa quae non volt videt.”

Et multa fortasse quae volt, atque in ea, quae non volt, saepe etiam adulescentia incurrit. Illud vero idem Caecilius vitiosius:

“tum equidem in senecta hoc deputo miserrimum, sentire ea aetate eumpse esse odiosum alteri.”

E lo stesso si danno da fare in quelle cose che sanno che non riguardano affatto loro:

“Pianta alberi, che daranno frutti alla generazione successiva”,

come dice il nostro Stazio nei Sinefebi. […] E dice meglio Cecilio in merito al vecchio che guarda alla generazione successiva, rispetto a questo:

“Per Polluce, vecchiaia, se non portassi con te nessun

altro male, quando vieni, sarebbe sufficiente da solo questo,

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che, vivendo a lungo, vede molte cos e che non vuole.”81

E forse molte che vuole, e in quelle che non vuole spesso si imbatte anche la giovinezza. Ecco un passo di Cecilio ancora peggiore:

“e quanto a me, reputo nella vecchiaia come cosa più sciagurata questo,

il rendersi conto, in quell’età, di essere odioso agli altri.”82

Seguendo per altro il commento di Crowell e Richardson,83 le difficoltà metriche legate al verso serit arbores, quae alteri saeclo prosint, hanno portato alcuni critici a supporre che Cicerone non ricordasse l’ordine esatto delle parole. In realtà sono state poi proposte alcune soluzioni, tre delle quali riportate nel commento, che permetterebbero di risolvere i problemi metrici. Resta di fatto che l’idea che Cicerone citi a memoria potrebbe indicare che si stia rifacendo a ricordi di rappresentazioni e non a testi. In questo passo infatti le citazioni più lunghe, che presuppongono probabilmente il possesso di un testo scritto, sono solo quelle tratte dal Plocium e dall’Ephesio; anche nel resto del corpus ciceroniano non sono presenti lunghe citazioni dei Synephebi che ci possano far pensare che Cicerone attinga unicamente a un testo scritto.

81

Cecilio Stazio, CRF 173-175 (Plocium, fr. 9).

82 Cecilio Stazio, CRF 28-29 (Ephesio, fr. 1). 83 C

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Altri drammi messi in scena? Analogie e spunti di riflessione

Questo terzo capitolo costituisce un’analisi un po’ più a margine rispetto al tema di fondo trattato finora. Inizialmente abbiamo infatti raccolto tutte le testimonianze ciceroniane che ci dessero informazioni concrete sulle rappresentazioni in scena delle opere teatrali nel periodo a lui contemporaneo, prendendo come riferimento più vasto il I secolo a.C. Dopo aver stilato una lista dei drammi della cui messa in scena eravamo certi o potevamo essere abbastanza sicuri in base ad alcuni indizi fondati, abbiamo visto in quali altri passi Cicerone facesse riferimento a queste opere, analizzandoli e in certi casi aggiungendo qualche riflessione in più in merito alla loro presenza sui palcoscenici.

In quest’ultimo capitolo l’intento è quello di trattare eventuali riferimenti ad altre opere teatrali, la cui rappresentazione non è attestata in Cicerone, ma che vengono trattate da lui in un modo tale da indurre quasi a pensarlo; anche senza voler giungere a conclusioni certe riguardo a questi drammi, si possono però ad esempio analizzare analogie nella trattazione rispetto alle altre opere sulla cui messa in scena abbiamo notizie, o una serie di altri spunti che vedremo nel corso di questo capitolo.

Partendo proprio dall’esempio appena fatto, vediamo subito alcuni passi in cui Cicerone tratta opere, da noi non analizzate finora, in un modo analogo (o addirittura praticamente allo stesso modo) rispetto alle altre della cui presenza in scena abbiamo notizie.

La prima testimonianza qui presentata era già stata accennata in nota;1 come si è visto già in quell’occasione, si tratta di un passo del III libro del De oratore che Wright porta come prova a sostegno delle rappresentazioni della Medea exul enniana. In quel caso, il passo non ci è sembrato così convincente da essere portato davvero a sostegno di tale tesi, ma ciò non annulla affatto l’interesse che questa testimonianza può ugualmente destare. Ci troviamo davanti a una lunga sezione, verso la fine dell’opera, in cui Crasso passa ad elogiare l’actio come elemento assolutamente dominante nel sistema dell’eloquentia. Ogni emozione, dice Crasso, si esprime attraverso il volto, la

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voce, il gesto; ogni parte del corpo di un uomo, ogni espressione del viso e il suono di ogni parola esprimono l’emozione che egli prova. Concentrandosi sull’aspetto della voce e dopo averne descritto i diversi tipi (acuta o grave, forte o debole e così via), egli afferma che ciascuna inflessione della voce è sottoposta alle regole dell’arte. E così si apre una lunga sezione, quella che riporteremo qui, in cui si elencano vari esempi tratti dal mondo teatrale, in particolare dalla tragedia (e in un caso, dalla commedia). Per ogni sentimento, ira, compassione e dolore, paura, violenza, piacere, scoraggiamento, vengono proposti alcuni versi di drammi, che costituiscono le parole pronunciate da un determinato personaggio in preda a quelle emozioni.

De oratore III.217-219

Aliud enim vocis genus iracundia sibi sumat, acutum, incitatum, crebro incidens: “Ipsus hortatur me frater ut meos malis miser

Manderem natos...”

et ea quae tu dudum, Antoni, protulisti: “Segregare abs te ausu’s...”

et

“Ecquis hoc animadvertit? Vincite...”

et Atreus fere totus. Aliud miseratio ac moeror, flexibile, plenum, interruptum, flebili voce:

“Quo nunc me vertam? quod iter incipiam ingredi? Domum paternamne? anne ad Peliae filias?” et illa:

“O pater! O patria! O Priami domus” et quae sequuntur:

“Haec omnia vidi inflammarei, Priamo vi vitam evitarei”

Aliud metus, demissum et haesitans et abiectum,

“Multimodis sum circumventus, morbo, exsilio atque inopia: Tum pavor sapientiam mihi omnem exanimato expectorat; Mater terribilem minitatur vitae cruciatum et necem, Quae nemo est tam firmo ingenio et tanta confidentia Quin refugiat timido sanguen atque exalbescat metu.”

Aliud vis, contentum, vehemens, imminens quadam incitatione gravitatis: “Iterum Thyestes Atreum attractatum advenit,

Iterum iam aggreditur me et quietum exsuscitat. Maior mihi moles, maius miscendumst malum Qui illius acerbum cor contundam et comprimam.” Aliud voluptas effusum, lene, tenerum, hilaratum ac remissum: “Sed sibi cum detulit coronam ob coligandas nuptias,

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Tibi ferebat; cum simulabat se sibi alacriter dare, Tum ad te ludibunda docte et delicate detulit.”

Aliud molestia, sine commiseratione grave quiddam, et uno pressu ac sono obductum:

“Qua tempestate Paris Helenam innuptis iunxit nuptiis, Ego tum gravida, expletis iam fere ad pariendum mensibus; Per idem tempus Polydorum Hecuba partu postremo parit.”

L’ira assumerà un certo tipo di voce, acuto, rapido, con frequenti interruzioni: “Il fratello stesso mi esortava, sciagurato, a mangiare

con le mascelle i miei figli…”2

e quei versi, che tu, o Antonio, hai già ricordato: “Hai osato allontanare da te...”3

e

“Qualcuno punirà ciò? Legate...”4 e in quasi tutto l'Atreo.

La compassione e il dolore avranno un altro tipo di voce, flessibile, piena, interrotta, flebile:

“Dove mi volgerò? Quale via inizierò a percorrere?

Forse verso la casa paterna? O forse verso le figlie di Pelia?”5 e quei versi

“O padre, o patria, o casa di Priamo!”6 e quelli che seguono:

“Ho visto ogni cosa andare a fuoco e Priamo essere ucciso con la forza.”7

La paura ne avrà un altro, sommesso, esitante, basso:

“Sono assediato da varie cose, malattia, esilio e miseria;

allora la paura, a me che ero spaventato, caccia via dal cuore ogni saggezza;

la madre minaccia alla mia vita uno strazio terribile e la morte; e non c'è nessuno dall’indole così risoluta e di c osì grande coraggio a cui la forza non sfugga via e che non impallidisca per la paura.”8 La violenza ne avrà un altro, teso, energico, minaccioso per un certo impeto di serietà:

“Di nuovo viene Tieste per attaccare Atreo; e di nuovo mi assale e mi risve glia dalla pace: devo unire un peso più grande e un male maggiore, con cui possa annientare e schiacciare il suo cuore duro.”9 2 Accio, TRF 229-230 (Atreus, fr. 16). 3 Pacuvio, TRF 327, (Teucer, fr. 12.). 4 Accio, TRF 233 (Atreus, fr. 18). 5

Ennio, TRF 231-232 (Medea exul, fr. 10).

6 Ennio, TRF 81 (Andromacha aechmalotis, fr. 9).

7

Ennio, TRF 86-87 (Andromacha aechmalotis, fr. 9).

8 Ennio, TRF 20-24 (Alcumaeo, fr. 2).

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Il piacere ne avrà un altro, sciolto, leggero, delicato, allegro e rilassato: “Ma quando si portava giù la corona per conclude re le nozze, a te la portava; e quando fingeva di darla prontamente a sé, ecco che abilmente e con dolcezza a te, allegra, la consegnava.”10

Lo scoraggiamento ne avrà un altro, cupo ma senza compatimento, strascicato con un’articolazione e un tono uniforme:

“Nel tempo in cui Paride si unì a Elena con ingiuste nozze,

io ero incinta e già quasi sul punto di partorire, essendo trascorsi i mesi;

nel medesimo tempo Ecuba partorì da ultimo Polidoro.”11

Come si è detto, non ci sembra possibile affermare che Crasso in quanto personaggio del dialogo e Cicerone in quanto scrittore, nel descrivere i sentimenti che questi versi esprimono, tengano a mente vere e proprie rappresentazioni e interpretazioni da parte di attori. Per riconoscere quali versi manifestino il sentimento dell’ira, del dolore e via dicendo, e anche per descrivere il tono di voce che più si addice ad esprimere quell’emozione, non è necessario presupporre la visione di una concreta interpretazione.

Fatta questa premessa, l’interesse di questo passo resta però almeno per un altro motivo. Pur non prendendolo in considerazione come prova di concrete rappresentazioni, è inevitabile notare la presenza, tra i drammi citati, di opere sulla cui messa in scena abbiamo già altre testimonianze. Nello specifico, ad essere citati tra questi sono l’Atreus di Accio, il Teucer di Pacuvio, la Medea exul e l’Andromacha

aechmalotis di Ennio. Mancano all’appello solo altre due citazioni, ovvero quella

dell’Alcumaeo, sempre di Ennio, e quella di una commedia a noi sconosciuta (anche se Ribbeck ipotizza la Tarentilla di Nevio).12 Tralasciando la commedia, su cui appunto non abbiamo certezze, possiamo almeno focalizzarci sull’Alcumaeo, che viene qui citato insieme ad alcuni drammi messi in scena al tempo di Cicerone. Per quanto resti l’idea espressa prima, relativa al fatto che i toni di voce a cui si fa riferimento non siano quelli degli attori veri e propri e che il discorso possa funzionare anche senza far riferimento a versi pronunciati concretamente da un attore specifico, non è però da escludere che, nella scelta delle opere da citare, Cicerone si sia rivolto a drammi davvero messi in

10

Inc. TRF 32-34 (inc. fr. 24).

11 Inc. TRF 80-82 (inc. fr. 42). Attribuiti da Welcker all’Iliona di Pacuvio. 12 R

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scena, anche per destare nel lettore un’immagine più vivida, se aveva la possibilità di assistere a spettacoli di questo tipo.

L’ipotesi qui avanzata riguarda allora la presenza anche dell’Alcumaeo sulle scene del I secolo a.C., per quanto, appunto, resti un’ipotesi e come tale vada trattata. Va aggiunto anche che non si tratta di una citazione isolata, anzi; a questa tragedia enniana Cicerone allude frequentemente, a volte riferendovisi esplicitamente, altre volte riportandone semplicemente alcuni versi.13

Va da sé che non si intende minimamente proporre di estendere questo tipo di ragionamento a qualsiasi passo contenga riferimenti a più di un’opera; ci sembra fattibile solo in passaggi come quello affrontato finora, che prevede una maggioranza schiacciante di drammi già da noi trattati, insieme alla presenza di una tragedia citata più e più volte da Cicerone.

Una situazione non troppo diversa è riscontrabile però almeno in altri due passi, analizzati già precedentemente in relazione alla questione sulla lettura di opere drammatiche.14 Riporteremo qui queste due sezioni per analizzarle in merito al discorso affrontato ora. Il primo passo è tratto dall’inizio del De finibus. Proprio all’apertura di quest’opera, Cicerone si dichiara consapevole che, andando ad affrontare in latino ciò che grandi filosofi hanno già scritto in greco, incorrerà in svariate critiche: ad alcuni non piacerà perché non amano tutto questo filosofare in generale; altri, pur ritenendola un’attività degna, non approveranno lo zelo e l’impegno impiegato, perché lo riterranno eccessivo; altri ancora non riterranno Cicerone stesso degno della materia trattata; e non mancheranno coloro che, ergendosi a cultori della lingua greca, affermeranno di preferire le opere scritte in greco, disprezzando quelle composte in latino.

Conviene a questo punto dividere idealmente e graficamente in due parti il passo qui riportato. Il primo paragrafo (Fin. I.3) costituisce in realtà un’aggiunta rispetto al discorso che stiamo portando avanti; tuttavia, dal momento che nella sezione immediatamente successiva (Fin. I.4-5) molti sono i riferimenti teatrali, non ci sembra il

13 De orat. III.154; Acad. II.55, II.88, II.89; Fin. IV.62, V.31; Tusc. IV.19. 14 Fin. I.3-5; Opt. gen. orat. 18. Vedi p. 68 ss.

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caso di far passare sotto silenzio un altro cenno inserito appunto immediatamente prima.

Dopo aver anticipato le possibili obiezioni, Cicerone provvede quindi a ribattere a ciascuna di queste; nei paragrafi precedenti egli è impegnato a ribattere a coloro che non si capacitano della fatica impiegata e che in un certo senso, in nome della moderazione, pongono un limite alla ricerca filosofica. Se l’oggetto dell’investigazione è degno di analisi e dà soddisfazione, dice Cicerone, è anzi vergognoso stancarsi della ricerca. Se lui stesso prova diletto a scriverne e la fatica non costituisce per lui un ostacolo, perché qualcun altro dovrebbe stabilire un limite alla sua operosità e preoccuparsi di qualcosa che per Cicerone non è invece un problema? È all’interno di questo discorso che cita quindi un passo dell’Heautontimorumenos di Terenzio.

De finibus bonorum et malorum I.3

Nam ut Terentianus Chremes non inhumanus, qui novum vicinum non vult “Fodere aut arare aut aliquid ferre denique —”

(non enim illum ab industria sed ab illiberali labore deterret), sic isti curiosi, quos offendit noster minime nobis iniucundus labor.

Non è davvero scortese il Cremete di Terenzio, che non vuole che il nuovo vicino “scavi od ari o insomma trasporti qualcosa”15

(infatti non lo allontana dall’operosità ma da una fatica indecorosa), così sono indiscreti quelli che sono irritati dalla nostra fatica, per noi affatto spiacevole.

Il vecchio Cremete dell’Heautontimorumenos, il vicino di casa di Menedemo, viene citato più di una volta da Cicerone.16 In questo passo egli viene menzionato senza che sia specificata la commedia di provenienza. Ci è sembrato opportuno riportarlo perché, oltre ad essere inserito in una sezione più ampia e ricca di allusioni a opere teatrali, che comprende anche il passo che analizzeremo subito dopo, a livello generale ci si può soffermare su come la citazione di un personaggio, più che la semplice menzione del titolo di un’opera, ci faccia intuire un livello di familiarità più consistente con quel dramma e con la storia narrata. Nominare un personaggio senza citarne l’opera di appartenenza, per quanto accostandolo al suo autore, implica la

15

Ter. Heaut. 69.

16 Altre citazioni dell’Heautontimorumenos in Leg. I.33; Fin. II.14, V.28-29; Tusc. III.65; Off. I.30; Fam.

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quasi totale certezza che quel riferimento venga colto, specialmente se subito dopo si cita una battuta decontestualizzata; si presuppone che ciò che il personaggio diceva in quel contesto sia chiaro, per quanto non necessariamente nel dettaglio.

Ma ai fini del discorso aperto precedentemente, relativo ovvero alle allusioni a diverse opere, sulla cui rappresentazione siamo sicuri solo per alcune, di maggior interesse risulta la sezione successiva. Qui Cicerone risponde alla possibile obiezione di chi disprezza i testi scritti in latino.

De finibus bonorum et malorum I.4-5

Iis igitur est difficilius satisfacere qui se Latina scripta dicunt contemnere. In quibus hoc primum est in quo admirer, cur in gravissimis rebus non delectet eos sermo patrius, cum iidem fabellas Latinas ad verbum e Graecis expressas non inviti legant. Quis enim tam inimicus paene nomini Romano est, qui Enni Medeam aut Antiopam Pacuvi spernat aut reiciat quod se iisdem Euripidi fabulis delectari dicat, Latinas litteras oderit? Synephebos ego, inquit, potius Caecili aut Andriam Terenti quam utramque Menandri legam? A quibus tantum dissentio ut, cum Sophocles vel optime scripserit Electram, tamen male conversam Atili mihi legendam putem, de quo Licinius ‘ferreum scriptorem,’ verum opinor scriptorem tamen, ut legendus sit. Rudem enim esse omnino in nostris poetis aut inertissimae segnitiae est aut

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