• Non ci sono risultati.

Utopie, XIII Triennale, Milano 1964

2. Ambienti/Environments

La nuova scena, destinata a soppiantare la scultura tradizionale di dimensioni ambientali, fu quella definita da Lawrence Alloway “Junk culture”, promossa da alcune gallerie di New York tra cui la Martha Jackson Gallery.204 Qui, tra la fine degli anni cinquanta e primi anni sessanta, vennero allestite una serie di mostre incentrate sul tema dello spazio tra cui “New aspects of space” nel 1957, “The enormous room” nel 1959 e “New Forms New Media” nel 1960, con in catalogo uno scritto di Allan Kaprow. Il testo parla di nuovi media che “mescolano i confini tradizionali e ricondizionano la nostra esperienza” e di spazio che “non è più pittorico ma nel quale suoni, odori, luci artificiali, movimento e tempo sono ora utilizzati”. La descrizione calza perfettamente per l’arte ambientale e sebbene la mostra esponesse opere di giovani e di maestri delle generazioni precedenti, tra cui Schwitters e Burri, Fontana non venne incluso. (fig. 72) L’ufficializzazione delle nuove modalità espressive si ebbe grazie a The Art of Assemblage curata da William Seitz e allestita tra ottobre e novembre del 1961 al

Museum of Modern Art di New York. La mostra, basata su un impianto storico, trattava il tema fino alle tendenze più recenti, la “Junk Culture” di Kaprow e compagni.

Una sezione del catalogo, dedicata al collage ambientale (“The collage environment”), citava la lettura di Alloway e l’ambiente urbano e i suoi scarti come naturale panorama estetico di riferimento per l’arte più sperimentale, mentre la sezione conclusiva, “Attitudes and Issues”, definiva l’assemblaggio un nuovo medium, funzionale a differenza delle tecniche tradizionali a sviluppare i nuovi punti di vista della generazione di artisti “cresciuti con l’espressionismo astratto ma refrattari a diventare la maniera di Pollock e de Koonig”.205

Seitz menzionava Hommage to New York di Tinguely e riprendeva la teoria di Kaprow citando espressamente il manoscritto non ancora pubblicato di Assemblages, Environments and Happenings per sostenere l’espansione dal collage, all’assemblaggio, al collage ambientale fino all’happening. Anche in questo caso gli ambienti di Fontana non furono neppure menzionati, nonostante le ricerche di Kaprow e le sue opere abitabili ed esperibili definite “environments” arrivarono dieci anni dopo l’Ambiente nero e i primi manifesti spaziali.

Realizzati in massima parte con materiali di riciclo, gli ambienti di Kaprow invitavano alla attiva partecipazione dei visitatori. Intorno a Kaprow, anche altri artisti – tra cui Jim Dine, Robert Whitman e Claes Oldenburg – si muovevano nella stessa direzione, sperimentando performance collettive e realizzando ambienti caratterizzati dall’uso di materiali effimeri e di riciclo.

Nel 1960 la Judson Gallery di New York ospitò una serie di environment, tra cui An Apple Shrine di Kaprow e The House e The Street, firmati da Oldenburg in collaborazione con Dine. Insieme a Oldenburg, Brecht e Dine, nel maggio 1961 Kaprow partecipò alla mostra Environments, Situations, Spaces.206 Per l’occasione la

205. “Assemblage is a new medium. (...) It has indeed provided an effective outlet for artists of a generation weaned on abstract expressionism but unwilling to mannerize Pollock and de Koonig, or other artists they admire”. W. Seitz (edited by), The Art of Assemblage, exhibition catalogue, October 2 - November 12 1961, Museum of Modern Art, New York 1961, pp. 72-76; p. 87.

206 Alla mostra parteciparono Jim Dine, George Brecht, Allan Kaprow e Claes Oldenburg. Environments, Situations, Spaces, exhibition catalogue, May 25 - June 23 1961, Martha

galleria Martha Jackson fu divisa in sei sezioni, una per ogni artista partecipante. Mentre Oldenburg allestì The Store, un negozio composto da repliche di grandi dimensioni di oggetti in gesso, Kaprow realizzò The Yard, riempiendo il cortile della galleria di gomme di camion. (fig. 73)

Pochi mesi dopo, dal 21 novembre al 16 dicembre, la stessa galleria aprì Ten Paintings of Venice, una esposizione monografica di Lucio Fontana.207 (fig. 74)

Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta l’artista era al centro di una notevole attenzione internazionale come evidenziano le relazioni con le gallerie parigine (Stadler, Rive Droite, Iris Clert) e londinesi (Marlborough e Mc Roberts & Tunnard Ltd) e la mostra antologica allestita nell’inverno 1960 allo Stedelijk Museum di Amsterdam. Negli Stati Uniti Fontana aveva esposto solamente in mostre collettive mentre per la sua prima mostra monografica, allestita nella stessa galleria di Environments, Situations, Spaces, Fontana espose solo opere su tela.208 Questa scelta, anche in considerazione della volontà manifestata nella lettera del 1952 a Enrico Donati, appare assai contraddittoria. I Martha Jackson Gallery Records conservati presso gli Archives of American Art dello Smithsonian non hanno conservato documenti su una eventuale volontà o desiderio di Fontana di esporre ambienti. Le esposizioni sperimentali in generale e la “Junk art” in particolare davano però pochi riscontri di vendita e la galleria doveva alternare e compensare con esposizioni più

207 L.M. Barbero, Lucio Fontana: Venezia/New York, catalogo mostra, 4 giugno-24 settembre 2006, Peggy Guggenheim Collection, Venezia 2006, pp. 19-50; F. Tedeschi, Lʼopera di Fontana

redditizie. Inoltre Fontana in America era già conosciuto per i Concetti spaziali su tela che avevano un notevole riscontro, anche internazionale, in ambito collezionistico.209 Considerata la politica della galleria incentrata sulla promozione dei giovani americani, appare logico che l’investimento sugli artisti internazionali fosse cauto e legato alle probabilità di vendita. Il dato è confermato dal fatto che anche il gruppo di artisti sperimentali giapponesi Gutai, noto per happening e opere ambientali, allestì nel 1958 da Martha Jackson una esposizione di soli dipinti.210

In occasione della mostra Fontana realizzò una serie di tele bucate e tagliate, dipinte con colori oro e argento e arricchite da frammenti di vetro colorato di Murano.211 (fig. 75) Lawrence Alloway, che già nel 1959 aveva fatto tradurre in inglese il Manifesto tecnico del 1951 per “Ark. Journal of The Royal College of Art”, scrisse in catalogo che Fontana “è un nemico della purezza dei media e ha scelto l’ambiguo confine tra le arti, dove i dipinti sembrano sculture e la scultura incontra la pittura a metà strada, in una serie di sovrapposizioni e mescolanze”.212 Questo è il punto centrale della difficoltà di ricezione dell’opera di Fontana nel mondo anglosassone: Fontana rappresenta l’essenza di tutto ciò che è anti-greenberghiano. I suoi continui passaggi tra media, la sua “incoerenza” a livello materico e formale nei passaggi tra astrazione e figurazione, essenzialità e superfetazione, minavano - in modo molto più sfuggente rispetto alla Junk Art - l’essenza della “medium specificity”. Non a caso Alloway concluse il suo testo per la

209 “(...) we had Environments, Situations and Spaces. We divided the gallery into six sections, and we gave a section to each of six artists. It was not as successful as the first show, but it was the first show uptown of environments. It led to many museum shows afterwards where they did the same thing; (...) I think its the last show where a gallery could lead a museum. Now they donʼt want any gallery to get ahead of them. (...) Anyway Iʼm glad that museums are giving young artists a chance to experiment, because itʼs very expensive for galleries today with high taxes and rents and all to show young artists.” Cummings, Interview to Martha Jackson, cit., p. 66-67. Regesto dei documenti, interviste inedite, n. 82.

210 6th Gutai Exhibition, exhibition catalogue, September 25 - October 25 1958, Martha Jackson Gallery, New York. Ringrazio Anne Rana per avermi suggerito questo dato.

211 La serie delle Venezie era stata già in parte allestita dal luglio allʼottobre 1961 al Centro Internazionale delle Arti e del Costume di Palazzo Grassi in occasione della Mostra Arte e Contemplazione a cura di Paolo Marinotti, dove esposero anche Mark Rothko, Sam Francis, Antoni Tàpies, Jean Dubuffet e Wols. Barbero, Lucio Fontana: Venezia..., cit., pp. 32-36. 212 “He is the enemy of media purity, and chooses the ambiguous border between the arts, where painting looks like sculpture and sculpture meets painting halfway, in a series of overlappings and conflations”. L. Alloway (edited by), Lucio Fontana. Ten Paintings of Venice, exhibition catalogue, November 21- December 16 1961, Martha Jackson Gallery, New York

monografica londinese di Fontana allestita tra il 12 ottobre e il 5 novembre del 1960 da Mc Roberts & Tunnard, scrivendo che “il rinnovamento è il medium dell’arte di Fontana”.213 Mentre le vendite andarono bene, le recensioni furono comprensibilmente negative.214 “Art News” lo liquidò sostenendo che “ci vuole un certo genio per essere così noiosi a un tale livello”, mentre su “Arts” Sidney Tillim dichiarò: “Fontana non è nulla più di un decoratore di successo”.215

Un elemento importante per comprendere la mancata ricezione in America dell’arte ambientale di Fontana è dato dal comunicato stampa e dalla biografia dell’artista italo argentino nel catalogo della mostra. Improntato sulla rilevanza internazionale dell’artista grazie anche alla menzione dell’imminente pubblicazione di Devenir de Fontana di Michel Tapié, il comunicato citava erroneamente il manifesto Spaziali del 1948 (indicato come Spazialismo del 1949) ma non menzionava l’Ambiente spaziale a luce nera mentre la biografia in catalogo lo indicava come “prospettiva di spazio con una forma speciale e una illuminazione a luce nera”.216 (fig. 76) L’aggettivo “spaziale”, presumibilmente per un refuso, venne tradotto con “speciale” e la parola ambiente - semplice e comprensibile visto il titolo della mostra Environments, Situations, Spaces - fu sostituita da un ambiguo sintagma: “prospettiva di spazio con una forma spaziale e illuminazione a luce nera”. Il dato non è di secondaria importanza se si considera che la traduzione canonica in inglese di Ambiente spaziale è “Spatial Environment” e che la “prospettiva” implica il controllo logico del percepito, ribaltando completamente il segno dell’opera.

Fontana? Quali erano analogie e differenze tra gli ambienti di Fontana e gli environment di Kaprow? Base di partenza comune era la creazione consapevole di un nuovo medium e l’utilizzo dello stesso termine per definirlo, ma anche il ruolo della stanza come contenitore dell’opera. Kaprow in Assemblages, Environments and Happenings evidenzia che le nuove forme artistiche ambientali forzano i tradizionali rapporti con l’architettura, considerando che per l’arte “la stanza è sempre stata la cornice o anche il formato”.217 Questa è un’analogia interessante in quanto il titolo dell’Ambiente spaziale a luce nera era sia riferito allo spazio siderale sia allo spazio specifico in cui era realizzata l’opera, ovvero la stanza, le sue pareti e il soffitto.

Il ruolo dello spettatore era invece radicalmente diverso: contemplativo per Fontana e partecipativo per Kaprow che prevedeva esplicitamente il ruolo attivo e creativo del pubblico. Ma soprattutto diverso era il valore attribuito ai componenti materiali dell’ambiente. Kaprow, pur ponendo l’accento sulla partecipazione e sulla deperibilità e povertà dei mezzi, strutturava gli environment su una ricca e articolata presenza di elementi, oggetti e materiali di varia natura intorno ai quali doveva ruotare la partecipazione dello spettatore. Fontana con il buio, i colori fluorescenti e la luce di Wood, enfatizzava invece l’importanza e l’impatto spaziale del vuoto a detrimento dell’oggetto centrale, intuendo lo scarto e la forza del contenitore a discapito del contenuto, dematerializzato poi, e ridotto a puri segni di luce nelle riedizioni degli anni sessanta. Lo stesso vuoto celebrato come spazio in potenza nella bidimensione dei Buchi e nei Tagli. Anche gli environment di Kaprow e la Junk Art minavano la “medium specificity”, ma con una coerenza interna estranea alla poetica di Fontana e ponendosi come conseguenza del rapporto con lo spazio inaugurato dall’Action painting di Jackson Pollock. A prescindere quindi da differenze e analogie, la posta in gioco per Kaprow consisteva nel rischio di perdere il primato su una nuova modalità espressiva autoctona che l’artista, sosteneva essere la logica eredità dell’espressionismo astratto. La rimozione continuò in modo puntuale anche nel testo di Assemblages, Environments and Happenings. Qui Kaprow non menzionò mai Fontana pur citando una serie di artisti ed esperienze internazionali, il gruppo giapponese Gutai, i Fluxus

Lebel, Vostell e Brecht e gli americani Dewey, Dine e Oldenburg, per sostenere che gli environment erano una conseguenza dell’estensione del medium pittorico iniziata con il collage e l’assemblaggio cubista.

Un passaggio chiave nel testo potrebbe però riferirsi anche a Fontana.218 (fig. 77) Laddove infatti Kaprow analizza in senso modernista il campo pittorico e la progressiva uscita dalla bidimensionalità della tela, dedica un interessante passaggio al taglio e al buco:

“A partire dalla seconda guerra mondiale è stato fatto un grande passo in avanti grazie ai collage e agli assemblaggi creati negli Stati Uniti. Non ostacolati da antiche tradizioni locali e fortificati dal recente contributo degli avventurieri surrealisti, questi lavori diventarono immediatamente più liberi in scopo, più sciolti nella forma e più grandi in scala di qualsiasi altra cosa fosse stata prodotta in Europa. Era particolarmente significativo il fatto che questo non-proprio-un-dipinto divenne per molti artisti americani un’esclusiva piuttosto che una modalità di lavoro marginale. Una volta che questo prese piede, le qualità reali che rendono la pittura un medium specifico svanirono e gli artisti dovettero affrontare vari problemi.

Se i bordi di materia incollata in un collage fossero stati lasciati aderire abbastanza a lungo, quello squisito equilibrio raggiunto nel cubismo tra l’uso dello spazio pittorico e dello spazio reale sarebbe stato distrutto - e ne sarebbe risultato una sorta di bassorilievo.

Il campo non funzionava più in termini di spazio nel modo in cui avrebbe funzionato per un dipinto più antico. Lo stesso succedeva forando la tela e mostrando la parete attraverso. Sembrava un errore e unicamente allontanando la tela qualche piede dalla parete, si sarebbe potuto accettare che lo sfondo avesse un valore equivalente alla superficie (considerato che ora altri oggetti, colori, gente in movimento ecc. avrebbero potuto essere visti attraverso i buchi,

natura oggettuale avrebbe semplicemente prevalso rispetto alla sua natura in quanto campo. L’ulteriore aggiunta di altri materiali estranei (legno, paglia, lampadine, scarpe, componenti meccanici ecc.) enfatizzava solo il dilemma. Un dilemma per alcuni che hanno abbandonato l’intero problema come una causa persa e sono tornati a metodi più convenzionali, ma una via di fuga per altri che stavano cercando nuovi modi di lavorare per evitare le restrizioni imposte dalla “pura” pittura. Sono emerse alcune alternative interessanti, che conducono in diverse direzioni, ma tutte coinvolgono il completo abbandono del fare pittura accettando le possibilità che risiedono nell’usare una superficie spezzata e un campo non geometrico”.219

Nel testo Kaprow parte dalle conclusioni cui era giunto Greenberg nel 1948 con La crisi della pittura da cavalletto evidenziando i limiti della tela ma al contempo considerandola il passaggio cruciale per la progressiva uscita dai limiti del campo pittorico.220 Presumibilmente il riferimento diretto in testo era l’artista americano Frank Stella, considerato uno dei pionieri del Minimalismo, ma la teoria risulta essere ancora più attinente per Fontana che passò dai buchi sulla carta e sulla tela all’uscita ambientale nello spazio. Nel 1959 Stella espose i Black Paintings alla mostra 16 Americans al MoMa suscitando scalpore e segnando il primo radicale allontanamento dalla gestualità pittorica della generazione precedente. Carl Andre per l’occasione scrisse “L’arte esclude ciò che non è necessario. Frank Stella ha trovato necessario dipingere strisce”, definendo una modalità non simbolica e fredda, che non rimandava a altro se non alla superficie della tela.

Sebbene già completato in larga parte nel 1960, il testo di Kaprow venne pubblicato nel 1964, momento nel quale era già stato pubblicato il testo di Carl Andre su Stella, considerato il primo testo chiave del Minimalismo.221 La questione dell’unità tra parete e tela e del disturbo percettivo della tela in quanto oggetto sembra infatti una chiosa a Aluminum e Copper Series (1959-61), le prime “shaped canvas” costruite da Stella che

219 Kaprow, Assemblages, Environments.., cit., pp 158-159.

220 C. Greenberg, The Crisis of the Easel Picture, “Partisan Review”, April 1948.

Per la versione italiana vedi Di Salvatore, Fassi, L’avventura del Modernismo, cit., pp. 78-81. 221 C. Andre, Preface to stripe painting (Frank Stella), 16 Americans, exhibition catalogue, December 16 1959 - February 17 1960, The Museum of Modern Art, New York, 1959, p. 76. Gli altri testi cruciali della critica minimalista sono successivi: D. Judd, Specific Objects, in “Arts Yearbook” n. 8, 1965; B. Rose, ABC Art, in “Art in America”, October-November 1965; B. Morris,

iniziò a intervenire sui telai trasformandoli in rilievi con forme modificate e sagomate al centro in modo da lasciare la parete a vista.

Come detto, l’analisi di Kaprow sulla alterazione dell’equilibrio tra lo spazio pittorico e lo spazio reale dovuto alle tele interessate da fori o modificazioni strutturali aderisce perfettamente anche ai Concetti Spaziali e quindi, dal 1959, ai Quanta, tele tagliate su telai sagomati da allestire a gruppi sulla parete.222 A Minneapolis Fontana espose quattordici Quanta e nel testo in catalogo Jan van der Marck, che pure citava la forma poligonale delle tele e il fatto che potevano essere allestite in modo intercambiabile, non vide nessuna analogia con le “shaped canvas” di Stella. Per Fontana infatti, come giustamente notò Paul Oliver su “Art International”, la questione non consisteva tanto nellʼestensione e quindi nella modificazione del telaio, quanto nellʼestensione dellʼidea di spazio stessa:

“Ha sperimentato telai irregolari per sfidare la abituale forma rettilinea, come se i dipinti fossero

esplosi dalla camicia di forza delle cornici rettangolari. Ma la sua sfida maggiore è stata creare i

suoi concetti spaziali allʼinterno del quadro rettangolare implicando estensioni molto al di là della

forma convenzionale”. 223

3. “Lucio Fontana: the Spatial Concept of Art”

Negli anni sessanta Fontana era ormai riconosciuto in Europa e Sud America come un riferimento per le nuove generazioni. Venne invitato da Udo Kultermann per la mostra

monocromo come luogo d’intellettuale rigore”.224 Due anni dopo, sempre al Museum Morsbroich e con la cura di Udo Kultermann, Fontana allestì la sua prima mostra personale di rilievo internazionale dove, presumibilmente sulla scorta del ruolo riconosciutogli per i Concetti spaziali monocromi, non espose ambienti.225

La ricezione americana di Fontana restava invece positiva solo nell’ambito del mercato.

Nel 1963 Norbert Lynton su “Art International”, in occasione della recensione di una recente personale dell’artista da Mc Roberts & Tunnard, spiegò i motivi della “incapacità anglosassone di digerire Fontana”: la grande varietà di opere “legate tra loro da un pervasivo aroma dal gusto e dalla preziosità aristocratica”.226 Nemico della specificità mediale e quindi inaccettabile nell’America degli anni cinquanta, per la cultura americana pervasa dal minimalismo del decennio successivo, il Fontana neo barocco degli ori e dei frammenti di vetro colorato sulle tele era troppo decorativo e troppo poco purista.227 Se quindi è comprensibile che i frammenti di vetro di Murano aggiunti sulla tela delle Venezie o la materia densa delle Nature fossero indigeribili per gli stomaci anglosassoni, l’essenzialità dei Concetti spaziali monocromi o dei recenti

224 Barbero, Lucio Fontana: Venezia..., cit., p. 26.

225 La prima mostra fu allestita al Museum Morsbroich di Leverkusen dal 12 gennaio al 25 febbraio 1962. Ho contattato il museo chiedendo di verificare se in archivio risultasse qualche traccia della eventuale volontà di Fontana di esporre ambienti. Segue la risposta ricevuta via mail il 3 novembre 2013 da Markus Heinzelmann, attuale direttore del museo:

“Unfortunately my suspicion was confirmed and I can tell you for sure that Udo Kultermann (the former director and curator of the show) and Lucio Fontana never discussed the opportunity of installing any environmental work at Museum Morsbroich. Kultermann received the loans from London and Milano. 40 works have been direct loans by Fontana. Kultermann visited Fontana in Milano to discuss the show and to make a choice. This could have been the only hypothetical possibility that they discussed the opportunity of installing any environmental work. But I do not believe in this because all agreements between Fontana and Kultermann have been confirmed again and again and again in their many letters - even if they were negative. And you do not find any hint concerning this. The choice of works was actually quite 'conservative' - but at that time Fontana was almost unknown in Germany. Kultermann presented him as a "classic" - you can find this often in the press articles, mentioned with amazement ... Kultermann was simply ahead