• Non ci sono risultati.

Utopie, XIII Triennale, Milano 1964

1. La scultura negli Stati Uniti negli anni cinquanta

Se si considera che nel 1960 Tinguely allestì nel cortile del MoMa, Hommage à New York, Fontana approdò in America in un momento particolare ovvero quando la scultura astratta degli anni cinquanta ancora legata alla forma plastica stava per essere soppiantata dalla ricerca innovativa e sperimentale della nuova generazione interessata invece all’ambiente.

La scultura astratta americana era stata di fatto codificata da Clement Greenberg che in The new sculpture (1949) notò un importante cambiamento di stile determinato dall’utilizzo della saldatura in una serie di artisti, definiti “scultori-costruttori”, tra i quali David Smith, Abraham Lassaw, Herbert Ferber, Richard Lippold e Seymur Lipton. Secondo Greenberg, il corrispettivo plastico dell’espressionismo astratto in pittura aveva come comune denominatore l’intervento diretto dell’artista tramite la fiamma ossiacetilenica. Non a caso le analogie con l’Action painting non furono individuate da Greenberg nell’ingrandimento della scala e nella relazione con lo spazio circostante,

Possiamo prendere come spunto per una riflessione generale il saggio di Wayne Anderson American Sculpture: the situation in the fifties pubblicato nel 1967 per il numero monografico speciale dedicato alla scultura dalla rivista “Artforum”.193

Anderson individua come territorio comune per la scultura americana degli anni cinquanta, la persistenza dei canoni forniti dal Bauhaus e dal Neoplasticismo ma soprattutto l’ombra lunga della scultura surrealista di Giacometti. Il legame con il surrealismo avvenne tramite due canali. Il primo dovuto alle esperienza europee di alcuni dei futuri protagonisti della New York School e in particolare Calder, che visse a Parigi dal 1926 al 1933, e Noguchi, che tra la primavera e l’estate del 1927 lavorò per qualche mese come assistente di Brancusi.194 Il secondo dovuto al contatto diretto con le opere. L’occasione fu costituita dalle grande mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism allestita da Alfred Barr al Museum of Modern Art nel 1936. In particolare, come sottolinea Lisa Phillips, l’esposizione del Palazzo alle 4 del mattino (1932) di Giacometti fu determinante nella generazione di un modello tipico della scultura americana negli anni cinquanta, la “scultura-gabbia”. L’opera di Giacometti, lo scheletro di un palazzo con delle quinte geometriche, una spina dorsale e lo scheletro di un uccello appeso all’interno, divenne infatti una sorta di canone per opere costituite da griglie geometriche o da intrecci di forme astratte con prevalenza di spazi vuoti.195 (fig. 67) L’eredità di Giacometti e l’idea della gabbia amplificabile in quanto spazio abitabile venne raccolta da Louise Bourgeois, artista francese naturalizzata americana, che nel 1949 realizzò The blind leading the blind, una foresta di elementi in legno all’interno della quale, con una scelta eloquente rispetto al senso dell’opera, l’artista si fece fotografare. (fig. 68) La questione dell’amplificazione delle dimensioni fu invece affrontata in occasione di un importante simposio, Relationship of Painting and

193 W. Anderson, American Sculpture: the situation in the fifties, in “Artforum”, Special Issue, Summer 1967, New York, pp. 60-67.

194 A. Chave, Noguchi and Brancusi: 'Towards a Larger Definition of Sculpture, in A. von Vegesack, K. V. Posch, J. Eisenbrand (a cura di), Isamu Noguchi: Sculptural Design, exhibition catalogue, December 8 2001- April 21 2002, Vitra Design Museum, Weil am Rhein 2001, pp. 27-65.

195 L. Phillips (edited by), The Third Dimension. Sculpture of the New York School, exhibition catalogue, December 6 1984 - March 3 1985, Whitney Museum of American Art, New York

Sculpture to Architecture, moderato il 19 marzo 1951 al MoMa dall’architetto Philip Johnson.196 Oltre al critico James Johnson Sweeney e allo storico dell’architettura Henry-Russell Hitchcock, tra i relatori del convegno figurava l’artista e architetto sperimentale Frederick Kiesler (1890-1965), esponente di grande rilievo nell’America degli anni cinquanta, noto in campo artistico per avere progettato gli arredi della Galleria Art of this Century (1942) di Peggy Guggenheim.197 L’allestimento della galleria, concepito come uno spazio fluido e continuo, ebbe un notevole impatto sugli artisti che la frequentavano. Kiesler stesso si interessò in prima persona alla realizzazione di sculture ambientali e nel 1947 realizzò Galaxy, una scenografia teatrale con riverberi delle opere del Giacometti surrealista, riprodotta due anni dopo quale scultura percorribile in legno di dimensioni ambientali. (fig. 69)198

L’eredità di Kiesler venne in parte raccolta da Herbert Ferber, uno degli esponenti della New York School.199 Legato alla Betty Parson Gallery, Ferber fu uno dei 18 “Irascibili” che firmarono la lettera del 18 maggio 1950 contro la politica di acquisto del Metropolitan Museum. A partire dalla metà degli anni cinquanta Ferber iniziò a realizzare sculture connotate dalla presenza di un soffitto (“roofed sculptures”). Sculpture as environment, allestita nel 1961 per il Whitney Museum of American art, era composta da cinque grandi elementi delle stesse dimensioni della sala espositiva, realizzati in tessuto imbevuto di resina vinilica e carta su una armatura di metallo. (fig. 70) L’opera era definita dal suo stesso titolo: non un ambiente ma l’ingrandimento in 196A Symposium on How To Combine Architecture, Painting and Sculpture, “Interiors +

Industrial Design”, n. 10, May 1951, pp. 110–115. Un altro importante momento di confronto fu costituito dal convegno organizzato il 12 febbraio 1952 al Moma intitolato The New Sculpture: a

scala ambientale di una scultura, analoga a livello formale alle molte di piccole e medie dimensioni che Ferber realizzava negli anni cinquanta.200

La differenza con gli ambienti dell’artista italo-argentino resta decisiva: la scultura americana cercava un rapporto con l’ambiente tramite l’amplificazione delle dimensioni; al contrario per Fontana il protagonista era l’ambiente in quanto tale con luci e colori mentre l’oggetto scultoreo, come dimostrano le riedizioni dell’Ambiente nero degli anni sessanta, è del tutto secondario e, in ultima analisi, destinato a essere eliminato. Il problema, una relazione dialettica con lo spazio espositivo che andasse al di là dell’amplificazione delle dimensioni, fu affrontato negli Stati Uniti da Louise Nevelson ma venne colto dalla critica anni dopo. Per Moon Garden + One (1958), allestita alla Grand Central Moderns di New York, l’artista dipinse la galleria di nero e la fece illuminare da una fioca luce blu mentre alle pareti, senza soluzione di continuità, vennero installati una serie di grandi assemblaggi in legno dipinti di nero.201 La Nevelson proseguì la sua ricerca ambientale aggiungendo anche elementi partecipativi: nel 1959 allestì presso la Martha Jackson Gallery Sky Columns Present un’installazione dove la sala espositiva era occupata da oggetti - nel caso specifico da scatole nere - che il pubblico poteva spostare, cambiando la configurazione dello spazio.202 (fig. 71)

Lo stesso Wayne Anderson, che nel 1962 curò una mostra itinerante di Ferber, definendo in catalogo la stanza del Whitney “la prima scultura ambientale mai realizzata in uno spazio definito da pareti, pavimento e soffitto”, nel testo del 1967 sulla scultura 200

Un passaggio di una intervista di Irving Sandler a Ferber, esplicita il tipo di rapporto tra

opera e dimensioni: "IS: Do you conceive a large work differently from a small work? Or do you conceive a small work always having the potential of being a large work?/ HF: Well, let's put it this way. I usually make small sculptures to start with, some of which I perceive as being possible of enlargement, of becoming bigger sculptures with more or less the same forms. (…) Oral History Interview with Herber Ferber conducted by Irving Sandler, April 22 1968 - January 6 1969, Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington.

201 B. Kamin Rapoport (edited by), The Sculpture of Louise Nevelson, exhibition catalogue, May 5 - September 6 2007, The Jewish Museum, New York.

202 “The whole long wall was completely covered with black boxes; and then at the end of the room there were columns, one on top of the other. Itʼs curious that in those days Louise Nevelson had the idea of spectator-collector participation in her work. In other words, she wanted the people who were interested in her work and bought it and so on to arrange it the way they felt they would like it.” P. Cummings, Interview of Martha Jackson, May 23 1969, The Oral History Collections of the Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington, p.

americana degli anni cinquanta, rivide le sue posizioni e annoverò Ferber solo per la lavorazione superficiale della materia (messa in analogia con la pittura espressionista) mentre segnalò la Nevelson come importante anello di collegamento con la generazione successiva.203