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Analisi degli statuti iniziali e dei decreti finali: il peso degli intervent

Nel documento Gli statuti di Lodi del 1390 (pagine 62-75)

4. Gli statuti di Lodi del 1390

4.4. Analisi degli statuti iniziali e dei decreti finali: il peso degli intervent

Individuare e ricostruire in maniera puntuale gli interventi viscontei sul testo degli statuti di Lodi, in mancanza di versioni statutarie immediatamente precedenti, risulterebbe ambizione illusoria, e, anche se si confrontassero pazientemente i testi di tutti gli statuti cittadini del suo dominio rivisti per ordine di Gian Galeazzo sul finire del Trecento, si giungerebbe sì a definire con precisione quali capitoli siano comuni a più testi, senza poter, però, onestamente, concludere che siano frutto della riscrittura di quegli anni e non di precedenti influenze reciproche, o capire se si tratti di statuti milanesi copiati, di testi nuovi o di norme già presenti in qualche città e ritenute così efficaci da estenderle. Consapevole di queste difficoltà, il lavoro di queste pagine si limiterà a dar conto degli espliciti interventi milanesi sul testo, e di quegli statuti o decreti che alla nuova situazione istituzionale di Lodi inserita nella signoria viscontea facciano diretto riferimento.

Risalgono naturalmente alla revisione del 1390 i testi di apertura della raccolta, a partire dall’introduzione, che si è già vista, in cui, dopo il segno di croce, si chiarisce: haec sunt Statuta et ordinamenta Civitatis Laude, facta et ordinata tempore et sub felici regimine Dominationis Illustris Principis ac Magnifici et excelsi Domini Domini Galeaz Vicecomitis Domini Mediolani et c. Comitis Virtutum Imperialis Vicarii Generalis. Le righe che seguono aggiungono solennemente che gli statuti sono scritti in nome di Dio, della Santa Trinità, della Vergine Maria, degli Apostoli Pietro e Paolo e del patrono della città di Lodi San Bassiano e ad onore ed esaltazione dell’Illustre Pincipe Gian Galeazzo, Vicecomitis Comitis Virtutum Imperialis Vicarii Generalis e signore di Milano, di Lodi e di altre diciotto città elencate grosso modo da ovest verso est, e ad bonum pacificum et tranquillum statum Civitatis et Comunis Lande. Vengono, poi enumerati i revisori del testo, definiti cittadini di Lodi: i sapientes et diserctos viros Dominus Iacobum de Richardis iuris peritum, Galuzinum Codecaxam, Francischinum de Richardis, Iohaninum de Micholis, Serpegalum Brugacium, Vubicinum Cagamostum, Bassianum de Meleto, Antonium Lavavegiam,

Bassianum Brachum, Bertholomeum Adelardum et Laffranchum de Mutonibus Cives Laude et scripta per Iohaninum de Frixiraga, Aluinum de Habonis, Ambrosium de Micholis et Vaninum de Vegiis notarios ad haec ellectos et deputatos. La data è gennaio 1390 e a Lodi è podestà Alberto de Verme. Il testo, quindi, nella solenne formulazione che si addice ad un esordio, riferisce i tempi e le circostanze della revisione, e riporta i nomi degli autori del lavoro, definiti genericamente sapientes et disercti viri.

Più interessante risulta il primo statuto in cui, dopo aver dipinto a tinte decisamente fosche la situazione di tensione che lacera Lodi, si dichiara che peggiori rovine, stragi e danni di quelli presenti avebbero potuto abbattersi sulla città se l’Onnipotente non fosse misericordiosamente intervenuto affidandone la protezione all’illustre principe Gian Galeazzo che su di essa e sul suo episcopato habeat et exercere possit merum et mixtum imperium, iurisdictionem omnimodam et bayliam simplicem et absolutam, puram et liberam quam et quod ipsum Comune et populus dicte civitatis et districtus eiusdem habeat et habere dignoscebatur in dicta civitate et eius episcopatu, tam de consuetudine quam de iure, tempore quo prefatus illustris princeps et Dominus adeptus est dominium dicte civitatis et eius episcopatus, cioè il 9 maggio del 1385. E, a specificare le prerogative del comune e del popolo a cui si fa riferimento, si precisa nelle rige successive che si intendono quelle esercitate in expendendis pecuniis, datiis vendendis, imponendis vectigalibus, dignitatibus et officiis concededis et exigendis pecuniis et imponendis et fluminibus et aqueductibus piscationibus et nemoribus e si ribadisce che in ipsum Magnificum et Illustrem Principem Dominum nostrum etc. omne Dominum, auctoritatem et imperium dicti Comunis et populi transtulerunt. Formulazione ovvia, nella brutale chiarezza con cui mette fine ad ogni velleità d’indipendenza cittadina, e ribadita nelle righe successive, dove è precisato come la volontà del priceps pro lege perpetua debeat observari, il che concretamente significa che quicumque de dicta civitate, episcopatu vel aliunde contra predictum illustrem principem et Dominum vel statum presentem pacificum aliquod ademptaret, faceret, comiteret vel tractaret eccetera, venga ritenuto nemico non solo del signore, ma dell’ordine costituito e perciò vada tempestivamente ed adeguatamente punito.

Così il primo statuto, formulato in modo che non lascia dubbi sulla sua provenienza milanese e sulla novità del suo contenuto e se alle prerogative particolari esercitate da Lodi fa cenno, nel riferirsi, ad esempio, al controllo del territorio circostante e in particolare delle sue acque, àmbito, per la città, complesso e remunerativo, è solo per precisare che non le eserciterà più il comune se non in nome, beninteso, dell’illustrissimo princeps. Chiarito lo sfondo istituzionale, o il margine – scarso – su cui si muovono le istituzioni cittadine, il testo statutario si premura di precisare quali siano i ruoli e i doveri di queste ultime, o quali ruoli e doveri abbiano mantenuto nel nuovo quadro politico. Così, nel Sacramentum Potestatis Laude et eius familie che viene subito dopo, il podestà giura di governare la città e il territorio con i loro abitanti secondo quanto gli parrà meglio ad maiorem utilitatem et honorem Comunis Laude et secundum leges, statuta et ordinamenta, concilia et consuetudines Civitatis predicte, ma subito aggiunge l’impegno a difendere e soccorrere di persona Illustrem Principem ac Magnificum et Excelsum Virum Dominum. D. nostrum Galeaz Vicecomitem Comitem Virtutum Mediolani etc., ad impegnarsi perché ugualmente facciano i suoi sottoposti e a non aiutare nè permettere che venga aiutato nessuno ribelle al signore o da lui bandito. Solo dopo essersi impegnato alla fedeltà e alla difesa del signore, il podestà passa a dettagliare i propri doveri nei confronti della città, che si vedranno meglio nel capitolo dedicato alle istituzioni descritte negli statuti. Qui ci interessano, fra essi, solo quelli che appaiono improntati alla fedeltà laudense alla signoria di Milano. In particolare, il podestà giura: non permitam aliquem extraneum vel aliquam aliam personam hedificare nec redificare turrim nec castrum nec aliquam fortilitiam in episcopatu iurisdictione nec in districtu Laude, et si factum fuerit aliquod predictorum bona fide sine fraude, dabo operam eficacem ut destruantur omnia predicta et hoc statutum sit precisum et non possit remitti per aliquam personam Civitatis et districtus Laude facere nec inde conscilium faciam nec fieri permittam aliquo modo. Colpisce, nella formulazione, il verbo redificare: non si tratta di una misura preventiva generica, volta a tutelare il monopolio, da parte della città, del diritto di gestire, organizzare, autorizzare le strutture di difesa, ma di uno statuto volto a mantenere una condizione di “disarmo” frutto della distruzione di fortificazioni esistenti, una delle linee

costanti della politica viscontea, che fin dall’inizio del Trecento aveva puntato a sottrarre forza agli avversari reali o potenziali, fossero città o feudatari, proprio minando le loro difese1. E che il passo sia, all’interno del giuramento, particolarmente importante è dimostrato dall’enfasi con cui proprio in queste righe si proibisce di modificarlo o cassarlo. Nonostante la chiarezza e l’insistenza sulla questione possano parere esaustive, l’impegno viene ribadito con sfumature solo leggermente diverse nelle successive righe: et insuper non permitam aliquam personam Civitatis et districtus Laude facere hedificari nec redificari aliquam fortilitiam in episcopatu vel districtu Laude modo aliquo vel ingenio, et teneor modis omnibus prohibere quemlibet facientem vel facere volentem dictas fortilitias (et si non prohiberem et facere permitterem sindicer de meo falario de libris centum imperialium pro qualibet vice), et nochilominus teneor destruere et destrui facere dictam fortilitiam. Se prima si proibiva ad uno straniero o ad una generica persona di fortificare una proprietà nel territorio lodigiano, ora sono i cittadini quelli a cui è impedito, ma il tenore del testo non cambia: anche qui si parla di redificare, anche qui il podestà si impegna con vigore a distruggere le strutture che, contravvenendo allo statuto, fossero ugualmente innalzate. Il testo continua elencando altri obblighi del podestà, a proposito di riscossione dei tributi e di amministrazione della giustizia, in cui al signore di Milano non si fa riferimento nè esplicitamente nè implicitamente, ma, nella parte finale del testo, in cui il magistrato giura di osservare e far osservare gli statuti cittadini, si aggiunge salvis semper litteris et mandatis prefacti Domini. L’orizzonte del giuramento del podestà, quindi, è chiaramente quello della signoria milanese, a cui ci si riferisce con naturalezza nei passaggi che lo richiedono.

Nei brevi statuti seguenti si definiscono le funzioni di alcuni magistrati, senza far cenno alla signoria milanese, ma nel settimo, De ellectione duodecim Sapientum et eorum officio, in cui si definiscono le funzioni di questi magistrati, scelti per due mesi dal podestà e dal consiglio dei sapienti per presiedere agli affari del comune, si precisa nelle righe finali che quidquid per eos vel maiorem partem ipsorum factum fuerint, plenam obtineat firmitatem ac si per concilium

1 B

ARNI G., La formazione interna dello Stato visconteo, in Archivio storico lombardo, NS, VI 1941, pp. 1-66, pp. 29-35.

generale vel totum Comune Laude factum foret obtenta confirmatione a prefacto magnifico Domino. Un accenno soltanto, quindi, al magnificus Dominus, sufficiente, però, a ribaditre il limite di autonomia dell’importante magistratura comunale.

Fatti salvi questi pochi accenni negli statuti che definiscono in generale le funzioni del podestà e dei dodici sapienti, nel resto dei capitoli che declinano con più precisione i loro singoli doveri, e che si vedranno più oltre2, alla signoria milanese non si fa più riferimento. Per trovare i più corposi interventi viscontei sul testo bisogna passare ai decreti finali, alcuni, come si è visto nella veloce ricognizione sui contenuti, decisamente posteriori all’anno di approvazione del testo statutario, e non sempre chiaramente pertinenti.

Il primo di questi testi3 è costituito dalla lettera con cui il Dominus Mediolani etc. Comes Virtutum Imperialis Vicarius generalis accompagna l’invio, al podestà e ai Sapienti di Lodi, degli statuti que videri examinari et et corrigi fecimus secundum quod expedire cognovimus pro Comuni bono et utilitate civium et districtuarium nostrorum Laude. Come si è detto più volte, il testo parla di 856 capitoli, mentre in nessuna delle versioni a noi giunte essi sono tanto numerosi. Il Signore milanese, nel lodare, approvare e confermare gli statuti, e nel racomandarne un’osservazione ad litteram, precisa di riservarsi arbitrium, potestatem et bayliam dicta Statuta corrigendi ipsisque addendi, diminuendi et ea emendandi et interpretandi come a lui parrà giusto e piacerà, senza che ciò pregiudichi in nulla ulteriori decreti da lui emanati o da emanare. Il testo, datato 9 luglio 1390, è chiuso dall’indicazione del notaio che lo scrisse e firmò, Antonio de Rappis, su richiesta del segretario del Signore, signor Camolo Declivo. Come si è già più volte fatto notare, la lettera che doveva chiudere l’originaria stesura rivista degli statuti, non è più posta, nelle nostre copie, a sigillo del testo, che continua sia con statuti aggiunti, che con testi di altro genere. Tralasciando gli statuti il cui contenuto non riguarda i rapporti tra la signoria milanese e la città di Lodi, ci concentreremo sugli altri testi.

2 Infra, pp. 77 ss.

3 Stat. 667, Dominus Mediolani etc Comes Virtutum Imperialis Vicarius generalis nobili virio

Lo statuto 705 contiene una nuova lettera del duca di Milano a Podestà e Sapienti di Lodi in cui si approvano ulteriori 41 capitoli che i magistrati lodigiani avevano sottoposto al signore. I testi che intercorrono tra le due lettere sono, in realtà 37, quindi, se è a questi che fa riferimento la lettera, dobbiamo conclidere che nelle nostre edizioni ne manchino 4. Anche in questo caso, naturalmente, Gian Galeazzo precisa che l’approvazione s’intende rettentis tamen in nobis arbitrio potestate et baylia dicta Statuta corrigendi ipsisque addendi et diminuendi et ea emendandi et interpretandi prout nobis videbitur et placebit, non intendentibus propterea quod ex hoc preiudicetur in aliquo decretis nostris factis vel fiendis con formulazione identica al testo recedente. Il testo, firmato Comollo, è del 12 ottobre dello stesso 1390.

Il capitolo seguente è titolato Reformatio decreti de fictis non solutis. La data, posta nella prima riga, è il 30 maggio 1419, quando, dunque, è duca di Milano Filippo Maria; i dodici Sapienti universis et singulis negotiis Comunis Laude presidentes, qui elencati per nome (col curioso particolare che uno di loro, assente, viene sostituito dal figlio), vengono convocati, su mandato del podestà Signor Sasio de Arisii e del nobile Signor Antonio Simone de Butigelli, refferendarius et iudex datiorum dictorum civitatis et districtus, in executione et pro executione litterarum illustrissimi Domini Domini nostri ducis Mediolani etc. Papie Angletieque Comitis tenoris infrascriptis videlicet. Nel testo non si fa cenno dell’argomento della lettera, quindi, ma si descrive con una certa cura la procedura con cui le indicazioni in essa contenuta vengono recepite dal Comune: i dodici Sapienti, di persona o sostituiti da qualcuno che li rappresenti, vengono convocati sono campanarum premisso, ut moris est, in camera provixionum Comunis Laude da parte delle massime autorità cittadine, evidentemente per ratificare con ogni solennità la ricezione della comunicazione ducale e il suo inserimento nel testo statutario. Da ultimo, notiamo che il titolo sintetico con cui è indicato Filippo Maria, è qui dux Mediolani etc. Papie Anglerieque Comes.

Il capitolo 707 è costituito nella prima parte dal testo della lettera ducale in cui Filippo Maria, richiesto di modificare parzialmente lo statuto De sacramento prestando pro ficto et re libellaria et decima non solutis et pro partiano et inquilino qui dicantur non solvisse (si vuole sostituire la frase et predicta locum

habeant si Dominus infra triennium deposuerit querimoniam con et predicta omnia locum non habeant si Dominus deposuerit querimoniam de predictis infra triennium et prout in Statuto Comunis nostri Mediolani plenius continetur), volendo compiacere la comunità di Lodi, concede che il detto statuto sia modificato come richiesto e, così mutato, venga inserito in volumine Statutorum Comunis nostri Laude predicti. La data è Milano, 13 Aprile 1419. Nella seconda parte il capitolo contiene le indicazioni con cui podestà, capitaneo e Sapienti providerunt, ordinaverunt et reffermaverunt, provident, ordinant et refformant per presentes dictum Statutum seu capitulum ipsius Statuti pro modo et forma predictis et prout plenus in dictis litteris ducalibus continetur decernentes dictum capitulum dicti Statuti inseri et describi debere in volumine Statutorum Comunis Laude pro modo et forma infrascriptis per Alovixium de Habonis notarium Laudensem offitialem deputatum ad Cameram Armarii Comunis Laude videlicet. La ridondanza con cui la procedura di ricezione e inserimento del testo nel volume degli statuti viene indicata nel capitolo presente e nel precedente, da una parte sembra indicare l’importanza di una comunicazione ducale per le istituzioni che la ricevono, dall’altra, però, mostra il rispetto delle istituzioni stesse da pare della cancelleria ducale, nel prevedere la presenza delle massime magistrature cittadine all’atto di ratifica del testo riformato e nell’insistenza con cui si chiede che il capitolo sia inserito nel volume degli statuti, che mostra di mantenere saldamente, all’inizio del quindicesimo secolo, il ruolo di testo di riferimento per la legislazione cittadina. Il testo che segue costitiusce lo statuto in oggetto, curiosamente inserito nel volume statutario in una versione che accoglie nella sostanza, ma non nella lettera, la correzione richiesta con tanto dispendio di passaggi istituzionali (ci si limita ad aggiungere l’avverbio non al testo precedente, e la frase nel nuovo statuto suona: et predicta locum non habeant si Dominus intra dictum terminum querimoniam deposuerit). In realtà, un motivo per non inserire l’intera frase nel testo c’è: la formulazione, nel riferimento esplicito al comune di Milano, come era, evidentemente, nello statuto omologo della raccolta milanese, per Lodi andava bene nel contenuto, non nella lettera, e l’inutile riferimento a Milano viene espunto senza tante cerimonie. Resta il dubbio sul motivo per cui il testo ducale riformulasse così il passo dello statuto lodigiano,

se fosse una semplice svista della cancelleria (che si era limitata a copiare il testo milanese a cui forse, nella richiesta, i magistrati lodigiani avranno fatto riferimento4) o un’esplicita volontà di far citare lo statuto della “capitale” in quello del comune soggetto. I magistrati lodigiani, comunque l’avessero inteso, mostrano, evidentemente, di ritenere ignorabile il particolare.

Dopo questo statuto, nessuno dei due testi manoscritti attraverso cui ci è giunta la raccolta ne inserisce altri, ma come si è visto, le edizioni a stampa inseriscono un’altra decina di testi, alcuni dei quali, per quanto tardi e non sempre chiaramente rivolti a Lodi, possono comunque offrirci qualche spunto per riflettere sul rapporto tra la legislazione locale e le imposizioni milanesi, sul finire del quattordicesimo e l’inizio del quindicesimo secolo.

Il primo di questi testi, intitolato di nuovo, semplicemente, con l’indicazione Dominus Mediolani etc. Comes Virtutum Imperialis Vicarius Generalis A tergo nobili viro Potestati nostro Laude, è datato 1393 e annuncia l’invio della copia di un decreto appena redatto che dispone quod provixiones, decreta seu ordinamenta quorum vigore in causarum et questionum criminalium examinatione seu diffinitione potestates seu iusdicentes urgentur seu astringi possint ad assumendum consilium alterius sapientis, cassa et irrita sint quo ad causas et questiones criminaliter intemptatas sive intemptandas etc. Si tratta, come si vede, di una norma che corregge l’obbligo vigente per i magistrati di servirsi del consiglio di un esperto e per cui si chiede che venga eseguita, serbata ad litteram e registrata in volumine aliorum decretorum nostrorum et Satutorum Comunis nostri Laude. Segue una comunicazione ducale dal tono singolarmente personale in cui Gian Galeazzo chiarisce senza mezzi termini che la disposizione a cui ha fatto cenno, e che prevede che nell’esame e nella definizione delle cause podestà e giudici possano essere costretti ad assumere il consiglio di un sapiente5, gli è vehementer odiosa e molesta maxime quod nobis constet quod abinde ressultat et ressultari potest impedimentum iustitie contra intentionem nostram e per questo

4 Così farebbe pensare il particolare che nello statuto 718, che andremo a leggere, i magistrati di

Lodi, volendo inserire nella loro legislazione un passo presente negli statuti milanesi, si premireranno di chiarire che il riferimento del testo a Milano, nella loro formulazione, sarebbe sostitiuto da quello a Lodi.

5 Sulla norma cfr. A. G

ROSSI, Consilium Sapientis e giurisperiti a Lodi tra due e trecento, in Archivio Storico Lombardo a CXXX (2004) vol X, pp 11-71.

motivo id circho decernimus, edicimus et ex certa scientia mandamus ut Statuta, decreta, provixiones seu huiusmodi ordinamenta sint quo ad causas et questiones criminaliter intemptatas sive intemptandas ipso iure et facto cassa et irrita et nullius valoris et momenti eaque de plenitudine potestatis6 nostre cassamus, irritamus et annullamus et eorum effectum et vigorem ita quod decetero modo quo supra diximus locum non habeant nec serventur in quorum etc. Colpisce, al di là dell’oggetto della norma, il fatto che il Signore si premuri di spiegare perché abbia deciso di abolirla e lo faccia esprimendo con vigore i sentimenti suscitatigli da quello che vede come un ostacolo al corso della giustizia. Evidentemente i pareri degli esperti erano meno controllabili delle sentenze emesse autonomamente dai magistrati cittadini che non potevano che essere noti e bene accetti al signore. Anche in questo caso, Gian Galeazzo dispone esplicitamente che il decreto sia inserito nel volume degli statuti.

Il testo che segue, il 710, contiene unicamente i dati, espressi con grande precisione, relativi alla sottoscrizione, da parte del sapiens et egregius legis doctor Dominus Iohannis de Lupis Laudensis, degli statuti che seguono, scritti da Veschovino de Episcopo figlio del signor Folchivo, notaio publico, venerdì 13 novembre 1439 all’ora quinta della notte. Gli statuti a cui il testo si riferisce sembrerebbero i successivi tre: il 711, De his qui possunt cogi ad

Nel documento Gli statuti di Lodi del 1390 (pagine 62-75)