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Analogie di artifici e metafore

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 57-67)

Se, il rapporto di Gauguin con la narrativa è soprattutto segnato da un pro- cesso di rispecchiamento che pertiene all’immediato piano esistenziale, nella conferma di un’identità divisa, le suggestioni che gli provengono dalla con- temporanea letteratura saggistica, lo inducono a modi di ricezione più sottile.

il que pour atteindre la haute note jaune que j’ai atteinte cet été, il m’a bien fallu monter le coup en peu”. Correspondance de Gauguin... , cit., 193 (a Schuffenecker, Arles 20-22 dicembre 1888).

17 Ch. Baudelaire, Edgar Poe, sa Vie et ses Oeuvres, Paris 1856 e L’Oeuvre et la Vie d’Eugène Delacroix, Paris 1863.

Piuttosto che lo spunto per visualizzare evocazioni poetiche o invenzioni ro- manzesche in figure plastiche tangibili, le letture gli suggeriscono analogie sul piano procedurale relativamente all’invenzione e alla composizione, alle mo- dalità con cui un tema viene svolto a partire dai mezzi espressivi specifici ai singoli linguaggi. Quest’atteggiamento è già denunciato in una lettera inviata a Vincent van Gogh nel settembre 1888, poco prima di iniziare la convivenza con questi ad Arles. Rivolgendosi all’amico, Gauguin ne interpreta la tesi “di volere una pittura con un colore suggestivo di idee poetiche”, nel senso che la sola, armonica combinazione di forme e colori produce di per sé la poesia, in- dipendentemente da declinazioni di contenuto. Nella chiusa del suo discorso, sembra rispondere punto per punto a Vincent, che proprio allora aveva tratto spunti pseudo-illustrativi da Loti per il quadro La Musmé e da Daudet per la Diligenza di Tarascona: “Senza lasciarmi sorprendere dal motivo rappresentato, io avverto davanti al quadro di un altro una sensazione che mi conduce a uno stato d’animo poetico a seconda delle forze intellettuali del pittore scaturite dall’opera stessa”, vale a dire che l’intensità d’espressione di questa dipende tutta dalle facoltà dell’autore di strutturarne con coerenza l’architettura, so- prattutto cromatica.18

Un primo esempio dell’attenzione prestata da Gauguin al “laboratorio” della letteratura, come maieutico per lo stesso lavoro del pittore, può essere indicato nel procedimento, adottato a partire da disegni del primo periodo tahitiano, consistente nell’evocare dietro ai volti ritratti in primo piano, profili solo accennati e in ombra, quasi aloni emanati o incombenti. In dipinti succes- sivi, ma soprattutto nella produzione grafica, incisioni e monotipi, del secondo soggiorno a Tahiti, tale partito sarà sempre più praticato, facendo affiorare da fondi indistinti, come da fogliami o paesaggi, volti che valgano a conferma di un persistere di esistenze al di là della deperibilità dei corpi, in un evidente sincretismo di suggestioni fra le letture teosofiche e la sopravvenuta conoscenza del fondamento animistico della religione dei maori. Ma, nelle sue ragioni ini- ziali, questa risoluzione suggerisce assonanze – salve restando le specificità del discorso pittorico, altre da quello letterario – con le riflessioni svolte sempre da Poe, relativamente alla metodologia dell’invenzione poetica, in La Filosofia del- la Composizione, il saggio dove questi aveva analiticamente ricostruito la genesi del poema Il corvo (The Raven). Il testo accessibile era a Gauguin nella tradu-

18 Correspondance de Gauguin..., cit., 163 (a V. van Gogh, Pont-Aven c. 7-9 settembre 1888) : “vouloir de la peinture avec une coloration suggestive d’idées poétiques […] Sans me laisser surprendre par le motif je ressens devant le tableau d’un autre une sensation qui m’amè- ne à un état poétique selon que le forces intellectuelles du peintre s’en dégagent”.

zione che ne aveva fatto Baudelaire, del resto egli lo riprenderà esplicitamente nella spiegazione offerta del proprio quadro Manaò tupapaú nel manoscritto Cahier pour Aline del 1893. Di questa lettura offre una prima testimonianza il passo di una lettera indirizzata a Bernard da Arles nell’autunno 1888 e ulte- riore riprova di quanto quel periodo – grazie alle conversazioni con van Gogh – fosse stato fertile per Gauguin di intuizioni relative ai possibili nessi fra lette- ratura e pittura. In risposta a un probabile quesito del giovane Bernard, Gau- guin individua l’eventuale contesto, puramente suggestivo, di un ricorso alle ombre, altrimenti inconciliabili con una pittura di toni puri: “Così al posto di una figura mettete l’ombra soltanto di un personaggio, si tratta di un punto di partenza originale, di cui dovete aver ben valutato l’effetto di stranezza. Tale è il corvo sulla testa di Pallade, che viene messo lì invece di un pappagallo in seguito a una scelta dell’artista, scelta frutto di calcolo”. È evidente il richiamo allo scritto di Poe e al suo assunto che l’opera deve ben poco allo spontaneismo e all’abbandonarsi all’ispirazione e che, al contrario, è il frutto di una riflessio- ne costante, di un procedimento deliberato che la conduce “verso il suo scopo con la precisione e la logica rigorosa di un problema matematico”.19 Gauguin

doveva aver letto il saggio di Poe proprio in questo lasso di tempo poiché in una breve nota in apertura di un altro taccuino di disegni, del 1888-93, il co- siddetto Album Walter, appunta “Intelligenza e non mestiere. Consultare Edg. Poe. Semplicità, originalità sono dei crimini”, dove quest’ultima asserzione ha un valore dubitativo, dato che è evidente quanto per lo scrittore l’effetto con- seguito da un calcolo oculato delle risorse espressive fosse quello dell’inatteso e dell’eccentrico, fattori determinanti dell’incisività dell’opera.20

Per Poe, comunque, l’effetto poetico per eccellenza restava quello della bel- lezza e il registro più atto a renderla nella massima intensità era quello della tristezza e della malinconia, come dimostra nel Corvo, un lamento sulla morte della donna amata. C’è una serie di opere di Gauguin in cui è possibile rintrac- ciare un riferimento a questo discorso di Poe, una sua traduzione iconografica: non si tratta certo di Nevermore (W 558), il nudo tahitiano del 1897, dove

19 Ibidem, 176 (a Bernard, Arles inizi novembre 1888): “Ainsi au lieu d’une figure vous mettez l’ombre seulement d’un personnage, c’est un point de départ original dont vous avez calculé l’étrangeté. Tel le courbeau sur la tête de Pallas, qui vient là plutôt qu’un perroquet par suite du choix de l’artiste, choix calculée”. Vedi Ch. Baudelaire, La genèse d’un poème, in “Re- vue française”, 20 aprile 1859, trad. di E. Allan Poe, Philosophy of composition (1846).

20 Ch. Baudelaire, Notes nouvelles sur Edgar Poe (Paris 1857), in Oeuvres de Edgar Allan Poe, a cura di Y.G. Le Dantec, Paris 1940, p. 712. Album Walter, 1888-1893, Parigi, Louvre,

Département des Arts Graphiques, RF 30569, p. 5 v.: “Intelligence et non métier. Consulter Edg. Poe. Simplicité, originalité sont des crimes”.

l’allusione è solo condotta in chiave citazionista, nel titolo e nella figura del corvo alla finestra dello sfondo. Il tema della tristezza è piuttosto al centro del Cristo nell’orto degli Ulivi (Christ dans le jardin des Oliviers) (W 326) dell’esta- te-autunno 1889 e di Faaturuma (W 424) del 1891, titolo tradotto dallo stesso Gauguin con “Être morne”, o Malinconia, certo l’accezione francese che me- glio rende il senso di Poe. Entrambe le figure, il Cristo e la donna abbandonata su una sedia a dondolo, tengono nelle mani un fazzoletto, motivo che sembra derivare a Gauguin dal dipinto di Delacroix, Ritratto di Alfred Bruyas – questi, sofferente, non se ne separava mai – visto nella visita che egli fece, alla metà del dicembre 1888, assieme a van Gogh al Musée Fabre di Montpellier.21 L’opera,

allora schizzata di getto nel Carnet Huyghe, alla pagina 57, verrà commentata di lì a pochi giorni nella citata lettera a Schuffenecker, dove fa allusione alla nevrosi di Poe, ma soprattutto si sofferma sul potere suggestivo della pittura in termini a questi riferibili: “In pittura una mano che tiene un fazzoletto può esprimere il sentimento che la anima”. Il motivo del fazzoletto assume quindi per Gauguin lo stesso valore che nel poema di Poe ha il corvo con il suo ri- tornello “Nevermore”, un cardine su cui imperniare l’intera struttura e che, al contempo, nella serie di significati che convenzionalmente gli si riferiscono, corrisponda con la più piena aderenza al tema affrontato. Non per niente, nel 1891, un intervistatore di Gauguin aveva definito il Cristo nell’orto degli Ulivi una “potente sintesi del Dolore”.22

Nella citata lettera a Schuffenecker, le discussioni seguite alla visita al Mu- sée Fabre, così come le letture stimolate da van Gogh, offrono lo spunto a Gauguin per delineare una propria prima intuizione del valore specificamente simbolico del linguaggio pittorico: “Spiegarsi in pittura non è la stessa cosa che farlo in scrittura. È per questo motivo che io preferisco un colore che funzioni da suggestione delle forme, e nella composizione la parabola piuttosto che un romanzo illustrato”. Il brano riecheggia la conclusione dello scritto di Poe, lì dove questo indica come requisito irrinunciabile dell’opera d’arte un certo gra- do di suggestività, vale a dire un piano di significati nascosto, che può anche restare indeterminato. Gauguin prosegue col contestualizzare la possibilità di comunicazione, compromessa dalla stessa, criptica, struttura della parabola, in un ambito intersoggettivo: “Se io suscito in voi il sentimento dell’aldilà, ciò

21 Su questa visita e le discussioni suscitate vedi M. Hoog, Gauguin et les Musées, in Gau- guin, Actes du Colloque (Parigi, Musée d’Orsay 11-13 gennaio 1989), Paris 1991.

22 Correspondance de Gauguin..., cit., 193 cit.: “En peinture une main qui tient un mou- choir peut exprimer le sentiment qui l’anime”. J. Huret, Paul Gauguin devant ses tableaux, in “L‘Écho de Paris”, 23 febbraio 1891, p. 2: “puissante synthèse de la Douleur”.

accade forse per quella corrente magnetica del pensiero di cui non si conosce nella sua complessità il decorso, ma che si può intuire”.23 I fenomeni di magne-

tismo, desunti dalle esperienze di Mesmer, costituivano, del resto, un leit-motiv nella narrativa di Poe, come evidenza inquietante del Mistero nel quotidiano – e altrettanto valeva per Balzac e Maupassant, per fare due nomi già citati. La descrizione di episodi ad essi connessa ricorreva nella pubblicistica più spic- ciola, mentre gli ipnotizzatori erano un diffuso fenomeno da baraccone, cui Gauguin e van Gogh avevano avuto modo di assistere nella stessa Arles in una serata della metà di dicembre.

Sul piano operativo, il precedente di van Gogh, esemplificato nelle com- plesse valenze di senso di quadri quali il Café de nuit, del settembre 1888, costituiva un potente incentivo per una pittura che intendesse evolvere in linguaggio moderno il tradizionale precetto dell’ut pictura poësis. A differen- za degli impressionisti, non si trattava di rinunciare alla ricchezza di spunti connessa a una lettura contenutistica, ma la si voleva impostare su più livelli, rifiutando il criterio di accesso immediato al significato, praticato nella pittura degli espositori ai Salons, cosiddetta del juste milieu, del giusto mezzo, perché fondata sul consenso con le cognizioni e aspettative del pubblico. Van Gogh è infatti il primo a parlare dell’opera come parabola, già in una lettera a Bernard dell’estate 1888, con la sincerità intuitiva e l’assenza di fumisterie cerebrali che gli sono proprie: da considerazioni relative alla pittura religiosa, egli è indotto a reputare Cristo “più artista degli artisti stessi”, poiché “se non si è curato di scrivere dei libri sulle idee (o sensazioni), ha di certo sdegnato molto meno la parola parlata – soprattutto la Parabola”; e qui cita i temi del seminatore e della mietitura, ricorrenti nel proprio lavoro di pittore e appunto desunti da letture evangeliche.24 Grazie alle suggestioni specie culturali tratte dalla convivenza

ad Arles, il discorso indiretto diviene una constante del lavoro di Gauguin, da una prima opera piuttosto oscura e ancora in questo senso sperimentale, La vendemmia (Les Vendanges o Misères humaines) (DW 317) del novembre 1888, fino alla piena consapevolezza del procedimento metaforico esplicitata nel pannello scolpito Siate innamorate, sarete felici (Soyez amoureuses, vous serez

23 Correspondance de Gauguin..., cit., 193 cit.: “expliquer en peinture n’est pas la même chose que d’écrire, c’est pourquoi je préfère une couleur suggestive des formes, et dans la com- position la parabole qu’un roman peint […] si je suscite chez vous le sentiment du au-delà c’est peut-être par ce courant magnétique de la pensée dont on ne connaît la marche absolue mais qu’on dévine”.

24 Correspondance de van Gogh cit., vol. III, B8 (a Bernard, Arles, fine giugno 1888): “l’ar- tiste plus grand que tous les artistes […] s’il dédaignait d’écrire des livres sur les idées (sensa- tions), a certes bien moins dédaigné la parole parlée – la Parabole surtout”.

heureuses) (G 76), di un anno successivo. Come in van Gogh, la parabola gli risulta congeniale perché parola parlata, idea che si estrinseca in una materia- lizzazione tangibile, nella plasticità delle immagini, e che viene esperita coi sen- si, principalmente grazie alla suggestione visiva del colore e alla sua risonanza interiore.

Al ritorno a Parigi, dall’inverno 1889, quando conosce il letterato Morice, tali consapevolezze si sostanziano in Gauguin di ulteriori spunti. L’impegno dei simbolisti a recuperare i principi primi della creazione artistica, a riportarne i fenomeni “à la source initiale”, ha evidenti conseguenze dal punto di vista dei procedimenti operativi. George Vanor, autore nello stesso 1889 de L’art symbo- liste ne ricava che “questa è prima di tutto la letteratura delle metafore e delle analogie”. Morice, in apertura a un proprio fondamentale saggio di quell’anno, La littérature de tout à l’heure, si scaglia, a guisa di manifesto programmatico, contro il principio di volgarizzazione del sapere attuato dalla scienza positivista e in favore della “fable” degli antichi, dove la verità adombrata in segni sensibili era accessibile ai soli iniziati. Thomas Carlyle, nume tutelare del movimento simbolista, quanto Wagner o Baudelaire – autori tutti noti e additati da van Gogh – delinea in un paragrafo del Sartor Resartus – poi tradotto nel primo fascicolo della rivista, organo dei simbolisti, “Entretiens politiques et littérai- res” – i due aspetti concomitanti del simbolo, “l’Absconsion”, l’oscurità, con i suoi esiti, “le Silence et le Secret”, e, polarmente, “la Révélation”, lo svelamento di senso che scaturisce dal simbolo quando l’intuizione del Profeta o Poeta ne sappia forzare la veste esteriore e circoscritta, in virtù delle associazioni da esso stesso avviate.25 Analoghe tesi, desunte dal mistico danese Swedenborg, tramite

la mediazione del Balzac dei citati Studi filosofici e del Baudelaire delle Cor- respondances, saranno sostenute da Paul Sérusier, quando nell’autunno 1889 raggiungerà Gauguin a Le Pouldu, integrandole alla dottrina teosofica appresa in specie dagli scritti di Schuré. Testimoniano in questo senso i ricordi del pittore Jan Verkade che riferisce il convincimento di Sérusier, ovvio date le sue letture, che tutte le grandi religioni avessero una storia essoterica, vulgata, ed una esoterica, divinabile da chi fosse nella condizione aristocratica dell’inizia- to.26 Un ulteriore giro di vite nei rapporti di Gauguin con i circoli letterari dei

simbolisti avviene nell’inverno 1890-1891, quando inizia a frequentare il Café Voltaire, incontrandovi, oltre Morice, Aurier, Moréas, Mallarmé, Mirbeau e

25 G. Vanor, L’Art symboliste, Paris 1889, p. 37: “elle est avant tout la littérature des méta- phores et des analogies”. Ch. Morice, La littérature de tout à l’heure, Paris 1889, pp. 8-13. Th. Carlyle, Des Symboles, in “Entretiens politiques et littéraires”, I, 1, 1890, pp. 1-4.

soprattutto nel biennio 1893-1895, nell’intermezzo fra i due viaggi a Tahiti, quando, continuando a presenziare ai Mardi di Mallarmé, le sue relazioni si estendono a Jarry e a Strindberg. Gauguin matura la consapevolezza, acquisita sulla scorta dell’impatto “decorativo” dei quadri tahitiani, di poter essere ad- ditato a diritto come il campione di un corrispettivo in pittura delle ricerche dei poeti sul vers libre, sul valore autoreferenziale dei significanti intrinseci ai diversi codici espressivi. Incentivata e chiarita da questi confronti, la sua prima intuizione del valore specificamente simbolico del linguaggio pittorico rice- verà, infine, una lucida esposizione nel manoscritto Diverses Choses, redatto a Tahiti nel 1896-1897, e nelle successive lettere del 1899, da qui indirizzate al critico André Fontainas.27

Molti degli studiosi di Gauguin sono stati indotti a ridimensionare la por- tata di tali tesi, nel senso di una stretta quanto generica derivazione dalle teorie del simbolismo letterario. La bibliografia critica ha largamente condiviso la prospettiva di Morice che, da una propria visuale, giudicava l’arte di Gauguin come “letteratura dipinta” – una distinzione sottile rispetto all’accusa di pittura letteraria – come un genere cioè “profondamente letterario nel contempo del proprio essere affatto plastico”. Specie il grande dipinto Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (D’où venons nous? Qui sommes nous? Où allons nous?) (W 561), del 1897, per ragioni evidenti, riconducibili alla complessità di rife- rimenti del titolo e alla stessa densità degli scritti dell’artista che lo riguardano, è stato l’oggetto preferenziale di ricostruzioni che hanno coinvolto richiami al racconto Séraphita di Balzac, ai drammi di Maeterlinck, agli scritti di Carlyle, confortando così la tesi di Morice, che peraltro appartiene a un datato contesto culturale.28 Uno sguardo meno gravato da queste pregiudiziali induce invece

a comprendere come, ad esempio, il Maeterlinck de L’Intruso del 1890 non ritorni alla stregua di una citazione letterale, ma soprattutto quale paradigma di impaginazione drammatica nei quadri tahitiani incentrati sulla tacita appa- rizione dello Spirito dei Morti o Tupapaú. In essi, la plastica evidenza conferita al soprannaturale entro un contesto di presenze quotidiane, sortisce lo stesso effetto di sgomento dovuto a un’enigmatica fatalità perseguito nella pièce di Maeterlinck. Allo stesso modo, nella serie degli Studi filosofici di Balzac, un

27 P. Gauguin, Diverses Choses, cit., p. 170. Lettres de Gauguin..., cit., CLXX e CLXXII (a André Fontainas, Tahiti marzo e agosto 1899), dove compaiono anche citazioni da Mallarmé.

28 Ch. Morice, Paul Gauguin, cit., pp. 37 e 55: “littérature peinte […] profondément lit- téraire, tout en restant plastique absolument”. Una prima sintesi dell’interpretazione letteraria del quadro di Gauguin è in Th. L. Sloan, Paul Gauguin’s “ D’où venons-nous “ : a Symbolist

testo chiave per la pittura di Gauguin non è tanto il Séraphita, di solito il più citato per essere ritenuto dall’artista, nei ricordi di Morice, la summa del Balzac visionario e per essere imperniato sul tema dell’androginia, sintesi di saggezza e amore – tema di indubbio peso su Gauguin a partire da una lettera a Made- leine Bernard dell’ottobre 1888 fino a passi di Noa-Noa e alla scultura Oviri (G 113) del 189529; piuttosto era una lettura approfondita del racconto Louis

Lambert che ancora una volta poteva offrire spunti, assonanze, conferme alle sue riflessioni sui processi ideativi e i criteri compositivi inerenti al fare pittura. L’accento portato da Balzac sulla capacità d’astrazione come dato distintivo dell’essere pensante, preliminare all’ascesa nella sfera della rivelazione del Divi- no, e la tesi che l’opera d’arte, comunque generata nell’ambito dell’astrazione, “muove da una visione rapida delle cose”, è propria di un pensiero che procede per sintesi, riecheggiano la formulazione definitiva che Gauguin offre di questi temi nella pratica pittorica, e nelle lettere che vi si riferiscono, proprio a partire dall’estate 1888, quando conosce e lavora a stretto contatto con il giovane Ber- nard, ancora fresco di studi e di letture sia filosofiche che letterarie tali da asse- condarne le inclinazioni speculative. È allora che Gauguin scrive col consueto tono di magistero a Schuffenecker: “Un consiglio. Non dipingete troppo dal vero. L’arte non è che un’astrazione, cavatela dalla natura sognandovi davanti e concentratevi sulla creazione che ne verrà”.30 La convinzione swedenborghia-

na, esposta a più riprese da Louis Lambert, della confluenza sincretica delle religioni – “Se i culti hanno avuto un’infinità di forme, né il loro senso né la loro costruzione metafisica hanno mai subito modifiche” – è altresì quella che orienta sul piano speculativo l’approccio di Gauguin alle culture arcaiche o primitive, dalla Bretagna, a Tahiti alle Isole Marchesi e che sostanzia, sul piano del linguaggio pittorico, un uguale sincretismo di motivi iconografici e di so- luzioni stilistiche, fin dall’icona bretone della Belle Angèle affrontata a un idolo precolombiano nel ritratto del 1889.31 Anche ai cultori dei riscontri letterali

il testo di Balzac offre spunti suggestivi: forse Gauguin ne era reminiscente

29 Correspondance de Gauguin..., cit., 173 (a Madeleine Bernard, Pont-Aven ottobre 1888). Su Oviri e il Séraphita di Balzac, vedi V. Jirat-Wasiutynski, Paul Gauguin’s Self-Portraits and the

Nel documento Paul Gauguin, un esotismo controverso (pagine 57-67)